Lettera agli Ebrei della Diaspora

| 2 Comments

Carissimi Ebrei della Diaspora,
vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.
Insieme al dolore per le vittime e alla esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quella azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sulla intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.
L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.
A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.
Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.
Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere,
ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.
Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri” sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale -di Israele.
Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel
suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.
Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.
Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione, presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”. Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’ONU, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie i moniti e le accuse dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.
Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per
tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa anche oggi, una interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.
La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.
Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento “Nostra aetate” del Concilio Vaticano II”, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la “Fratres omnes” di papa Francesco, così come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e della ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera “storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati, e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in Oceania e altrove.
Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.
Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dalla inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non solo venire da artifici politici e diplomatici. Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la fuorviante soluzione a due Stati, anche ove mai fosse stata possibile e auspicabile in passato, e la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie
e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di antisemitismo.
Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.

 

Primi firmatari: Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione, Domenico Gallo, giurista, Elena De Monticelli, filosofa, Raffaele Nogaro, vescovo cattolico, Claudio Grassi, legislatore, Felice Scalia, gesuita, Elena Basile, ambasciatrice, Luigi Ferrajoli, giurista, Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi Italia, Stefania Tuzi, storica dell’architettura, Francesco Di Matteo, avvocato, Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista, Massimo Zucconi, architetto, Fulvio De Giorgi, ordinario di filosofia, Agata Cancelliere, insegnante, Giorgio Rivolta, docente di pedagogia, Santino Di Dio, impiegato, Raffaele Luise, giornalista, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace, Nicola Colaianni, già Magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già Presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica Battista di Bari;, Antonio Malorni, biochimico, Paolo Cento, legislatore, Fabio Filippi, editore, Enrico Peyretti, insegnante e maestro di pace, Grazia Portoghesi Tuzi, etnomusicologa, Francesco Comina, insegnante, Tonio Dell’Olio, presidente Pro Civitate Christiana, Don Renato Sacco, Pax Christi, Mario Menin, direttore di “Missione Oggi”, Paola Patuelli, insegnante, Anna Sabatini Scalmati, psicanalista, Angelo Cifatte, funzionario pubblico, Riccardo Valeriani, assistente sociale, Luca Robino, (Persona al centro), Don Emilio Maltagliati, già Parroco, e…

2 Comments

  1. Faccio totalmente mia la lettera di risposta di Piero Meaglia, già pervenutavi, e che qui copio e incollo. Aggiungo solo che considerare unicamente i teologi “cattolici” espressione del cristianesimo, ignorando così le espressioni delle altre confessioni cristiane (vi dicono nulla i nomi di Karl Barth, Rudolf Bultmann, Martin Niemöller?), esprime la sempiterna aspirazione egemonica della Chiesa Cattolica, negatrice in nuce di ogni possibile dialogo.

    “”Gentilissimi,
    prima di tutto vi ringrazio di tenermi costantemente aggiornato sulle iniziative promosse o sostenute o pubblicizzate dall’associazione Costituente della Terra. Una associazione promossa dal professor Luigi Ferrajoli.
    Mi sorprende ricevere indirettamente dal professor Ferrajoli questa lettera, così di parte e pure un po’ “furba”. Più da astuti politici e propagandisti che da studioso quale è Ferrajoli.
    Ho sempre avuto grande stima per il professor Ferrajoli. Ho in casa i suoi libri. Li ho conosciuti frequentando tempo fa, da piccolo e immeritevole uditore, l’ambiente torinese di Bobbio e dei suoi allievi.
    Ho sempre ammirato il rigore di Ferrajoli: tanto basta per rimanere stupito da questa lettera.
    La lettera, nella sostanza – correggetemi se sbaglio – è un invito agli Ebrei della diaspora a fare quanto loro possibile per influire sulla politica del governo di Israele. Un invito a modificare questa politica, quella del governo Netanyauh, e a tener conto delle ragioni dei Palestinesi e delle terribili condizioni della popolazione soprattutto di Gaza, e ad accogliere sinceramente e concretamente la prospettiva dei due stati.
    Insomma: Israele sbaglia, e voi cari Ebrei della diaspora dovere dirlo a Israele, e sollecitarlo a cambiare politica.
    Ebbene, perché una lettera simile Ferrajoli non la manda anche alla “diaspora” (perdonate l’espressione impropria) araba, palestinese, islamica? Per invitarla, ad esempio, a rinunciare alle pronunce aspre contro gli “ebrei”, ai passi di documenti come il programma di Hamas, alle propaganda anti ebraica di personaggi come l’Iman di Torino che a Palazzo Nuovo predicava contro Israele? Forse che gli Ebrei, o meglio gli Israeliani sono molto cattivi, mentre gli arabi, palestinesi e islamici che vivono nei paesi occidentali, e nei loro paesi di origine, sono molto buoni, puri, innocenti? Perché la lettera non sollecita la diaspora palestinese a premere sul governo dell’Iran, e su Hamas e Hezbollah, affinché rinuncino all’obiettivo di distruggere Israele e a ucciderne gli abitanti? E già che ci siamo la smettano di impiccare gli oppositori interni?
    Gli Ebrei della diaspora sono poche decine di milioni. Anche gli arabi, palestinesi e islamici emigrati in Francia, Germania, Regno Unito, ecc. sono alcune decine di milioni. Ma gli ebrei del mondo sono tutti lì, alcune decine di milioni: mentre gli islamici nel mondo sono due miliardi. Israele è un piccolo paese, grande quanto la Lombardia, di 9 milioni di abitanti, di cui 7 ebrei, mentre l’Islam è diffuso in gran parte del mondo, dall’Africa all’Asia orientale.
    Ma la lettera “se la prende” solo con Israele, e invita solo gli Ebrei a premere sul governo di Israele. Perché, stimatissimo professor Ferrajoli?
    Di passaggio, osservo che la lettera indulge a espressioni da astuti politici e propagandisti: un linguaggio che mi sorprende trovare in un testo diffuso dall’associazione del professor Ferrajoli. Ad esempio, leggo “in odore di genocidio”. Ecco, “odore”. È genocidio o no? Non si sa: ma si sa che la parola genocidio accende gli animi, suscita indignazione, spinge a schierarsi animosamente. Non invita alla conciliazione e alla pace. Scrivere “odore di genocidio” appare più una manifestazione di abile manipolazione del consenso, che una espressione da studioso wertfrei.
    E anche: la lettera cita un dialogo fra Ilan Pappé e Noam Chomsky, come se non fosse noto che si tratta di due scrittori schieratissimi (chissà da quale parte) e che esistono anche autori che la pensano diversamente.
    Potrei proseguire. Dunque, perché una lettera soltanto agli Ebrei? Ipotizzo una risposta, pronto a ricredermi: perché pigliarsela con gli Ebre (gli Ebrei!!!!!) è più facile, è più popolare, fa guadagnare più seguaci……
    Triste, molto triste, professor Ferrajoli.
    Cordiali saluti.”

  2. cari amici cattolici, non dubito della vostra buona fede che anima le vostre preoccupazioni umanitarie in una prospettiva irenistica, priva di prospettive realistiche ( un unico stato pluralista in M. O. !). il vostro messaggio, intriso di pregiudizi e distorsioni (“spietata ritorsione”, “intreccio perverso del sionismo con lo Stato”, come se lo scopo del sionismo non fosse da sempre quello di costituire lo Stato ebraico in Terra di Israele) è proprio un esempio dei moniti e consigli ( non richiesti) che dite non volerci dare. Noi ebrei della diaspora siamo in grado di gestirci da soli i nostri rapporti con Israele all’interno dell’ebraismo nel rispetto della tradizionale pluralità di visioni che ci contraddistingue. Giorgio Sacerdoti, presidente CDEC

Lascia un commento

Required fields are marked *.