La centralità del welfare per la crescita e l’occupazione. Il centrosinistra ci crede ancora?

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Il welfare e le politiche sociali non sono un costo. Possono costituire un utile volano per la creazione di nuova occupazione. Lo hanno affermato con forza più di 40 associazioni impegnate da tempo nel settore delle politiche sociali e riunite nella rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia”.

Ma l’Italia – rispetto ai paesi del centro e del nord Europa – è in ritardo, e di molto: “sul piano dello sviluppo dei servizi di cura, ma soprattutto rispetto all’individuazione di una vera strategia nazionale di sviluppo del welfare che abbia in animo la promozione dell’occupazione, oltre che la tutela di nuovi e vecchi bisogni sociali. La creazione di occupazione attraverso il welfare è, invece, un fatto da prendere sul serio. A patto però di uscire dal circolo oggi dominante fatto di basso deficit, ma anche bassa occupazione, bassa crescita e basso welfare”.

Eppure in Europa i numeri parlano chiaro: mettendo insieme il settore dei servizi sociali e quello della salute l’aumento dell’occupazione tra il 2002 e il 2009 è stato pari a 4,2 milioni, più di un quarto rispetto a tutta l’occupazione creata (circa 15 milioni di nuovi posti di lavoro). Tra il 2008 e il 2012 (nel pieno della crisi) a fronte di una perdita di occupazione nei comparti manifatturieri di 3 milioni e 123 mila unità (Eu a 15) l’incremento nei servizi di welfare, cura e assistenza è stato pari a 1 milione e 623 mila unità (+7,8%)

Eppure solo alcuni Paesi europei si sono resi conto che il welfare può essere un volano per la ripresa economica, la Francia e la Germania soprattutto. Fra questi l’Italia non c’è: al contrario essa comprime la spesa sociale, delega massicciamente l’assistenza alle famiglie, mantiene limitati e risibili gli sgravi per l’occupazione domestica e di assistenza favorendo il lavoro sommerso e senza tutele.

Dicono i curatori del Rapporto presentato alla stampa il 5 luglio: “Destinare risorse pubbliche al welfare rappresenta, contrariamente a molti luoghi comuni, un investimento. Alcuni studi recenti confermano che l’uso della spesa pubblica per creare lavoro ha effetti sull’occupazione molto più alti, e in tempi più rapidi, rispetto ad altri tipi di misure: fino a 10 volte superiori rispetto al taglio delle tasse, da 2 a 4 rispetto all’aumento di spesa negli ammortizzatori sociali o alla riduzione dei contributi sul lavoro per le imprese.”

Ecco, il consolidarsi dei luoghi comuni (il costo che ormai non ci possiamo permettere, la marginalità delle risposte, la residualità delle offerte lavorative, gli italiani che non vogliono più fare certi lavori, la mancanza di qualifiche professionali, eccetera,) è il punto centrale  che sta ostacolando prese di posizione e scelte conseguenti anche da parte di chi dovrebbe (nel centro sinistra) schierarsi decisamente su queste linee. Come ha anche ribadito il viceministro Cecilia Guerra, perché chi fa le scelte politiche si adegua – purtroppo – anche al sentire comune che percepisce come dominante. “Rovesciare questi assunti significa ribadire l’importanza del welfare non solo ai fini della coesione sociale ma anche per il contributo che il welfare e i servizi alle persone possono offrire alla crescita dell’occupazione”. E, aggiungiamo, alla qualità della vita di persone e famiglie (in particolare delle donne, nel nostro Paese, per tradizione e cultura, ancora in prima fila per l’assistenza di anziani, malati e bambini, con pregiudizio dell’occupazione femminile).

Restano molti i nodi da sciogliere. Il costante taglio dei Fondi delle politiche sociali e per la non autosufficienza, negli ultimi anni (e non solo con i governi di centrodestra), ha lasciato incompiuta la prospettiva di crescita delle prestazioni e della occupazione conseguente, “innescando una spirale al ribasso anche per le organizzazioni del terzo settore, di fatto messe alla stretta dalla drastica diminuzione della spesa sociale. In questo quadro, la compressione dei salari dei lavoratori dei servizi, le scarse tutele, l’ampio sommerso che si registra nella cura alle famiglie, non sono altro che l’altra faccia di una condizione di sostanziale riduzione del welfare che tende a scaricare (in una distorta idea di sussidiarietà orizzontale) sulla famiglia e sulle società locali nel loro complesso i costi della mancata redistribuzione pubblica”.

Ecco perché si presenta il tema con tutta la sua valenza politica. Ci crede allora il centrosinistra che il welfare, e gli investimenti su di esso, può essere ancora il cuore della propria politica, non tanto o non solo di lotta alle disuguaglianze, ma di più: come uno dei perni di un equilibrato processo di crescita? E se sì, è pronto a far fronte a politiche neoliberiste che, pur manifestando ormai in questi ultimi anni i propri limiti, puntano alla generica riduzione della spesa pubblica (leggi austerity), con il pensiero recondito che tagli-uguale-meno spesa sociale?

Si può poi aggiungere che si vorrebbe una discussione su questi argomenti anche in tema di congresso Pd. E che il dibattito pubblico forse consentirebbe di indebolire (grazie alla produzione di dati e conoscenze) quei luoghi comuni che sembrano ormai consolidati e forieri di politiche anti welfare.

 

Vittorio Sammarco

 

Di seguito il link alle 14 pagine del Rapporto “Il welfare è un costo? Il contributo delle politiche sociali alla creazione di nuova occupazione in Europa e in Italia

2 Comments

  1. Gli argomenti a favore di un rilancio del Welfare sono ineccepibili. Il fatto che gli investimenti in questo settore hanno effetti benefici sull’economia è altrettanto incontrovertibile. Lo sostiene anche Guido Rossi in un ben argomentato articolo pubblicato sul sole 24ore del 12 maggio scorso.
    Come conciliare le esigenze della carenza di risorse finanziarie con l’obiettivo di rilancio del Welfare? A mio avviso c’è un’unica strada: razionalizzare e riqualificare la spesa.
    Non è un paradosso affermare che si possono ridurre le risorse e ottenere migliori risultati. Questo a condizione di liberarsi dei difensori non disinteressati al mantenimento dello status quo. L’alta dirigenza medica che lucra dalle inefficienze del servizio sanitario traendo compenso economico dall’attività “intra moenia” completamente snaturata e distorta rispetto ai , sia pur velleitari, propositi iniziali nonché dagli interessi presso strutture private; la dirigenza amministrativa in buona parte priva di cultura organizzativa e non di rado collusa con il potere politico da cui dipende nell’organizzazione di sistemi di finanziamenti illeciti attraverso la manipolazione di procedure d’appalto o la rete più o meno fittizia di consulenze; l ‘acquiescenza, e talora connivenza, delle oo.ss troppo interessate alla tutela dei propri rappresentati che non al funzionamento del sistema.
    In questo contesto la riduzione della spesa può avere effetti devastanti in quanto renderà più famelici i felini cui viene ridotta la platea delle risorse con cui soddisfare i propri appetiti.
    E allora il problema non è solo ideologico ma etico-politico e si sintetizza in due interrogativi. E’ cosciente il centro-sinistra ( e ogni forza politica che professa responsabilità) della necessità di una profonda rivisitazione del sistema di Welfare?
    Sono disposti questi soggetti a sostenere una riforma che compensi i possibili( e spesso inevitabili )tagli di risorse con un profondo riequilibrio dei soggetti che operano nei vari sistemi attraverso l’introduzione di meccanismi selettivi (realmente ispirati al merito) per il conferimento di post idi responsabilità a tutti i livelli?
    Credo che eludere questi interrogativi sia esiziale per il mantenimento di un Welfare efficiente di cui si continuerà solo nei convegni ( siamo o no anche un popolo di convegnisti?) che servono a fare bei titoli sulla stampa specializzata e non
    che operano

  2. Caro Vittorio la lettura del tuo pezzo mi è stata utile. Spingendomi ad andare oltre i tuoi interessanti dati sul welfare. Che hai fatto bene a ricordare anche nei suoi risvolti poco noti. Come quelli di creazione di posti di lavoro su cui si è concentrato anche il buon commento di Pasquale.
    Sul “…costante taglio dei fondi delle politiche sociali” l’amarezza è invece quella di constatare il disinteresse del residuale e ormai silenzioso cattolicesimo politico e sociale che milita nel centro sinistra. Dimenticando che la questione politica – su cui ogni tanto emergono nostalgie centriste inconfessabili – è parte integrante di quella sociale, storicamente presidiata e testimoniata proprio dal movimento cattolico, ma ora abbandonata al triste destino delle nominalistiche diatribe fra statalisti e liberisti.

    Se ancora ha senso – come ne ha nel mercato dell’offerta politica – parlare di identità di un partito, di una coalizione, di uno schieramento, ebbene il centrosinistra, il Pd, si deve caratterizzare proprio sulla scommessa di uno Stato equilibratore delle diseguaglianze. Detto in altre parole è il centro sinistra che deve difendere quel welfare a cui tu ti riferisci. Hai ragione. Così come ha ragione Pasquale. La Crescita economica e lo sviluppo sono necessari. Forse anche il rigore nella spesa è utile. Ma se non vengono supportate da un welfare ragionevole, diventano inutili e pericolosi. Specie per i conflitti sociali che determinano e di cui si avvisano segnali preoccupanti.

    Il welfare non è allora solo una procedura. Leggi e Decreti leggi. Dietro il welfare c’è’ qualcosa di più. Molto di più. Il welfare è una idea dell’uomo in relazione. E’ una concezione della società che il Novecento all’insegna della giustizia ci ha dato in eredità. E, per quanto riguarda gli ultimi giapponesi che difendono una battaglia persa, è il personalismo cristiano che si incarna nelle istituzioni. Ma che oggi si trascina stancamente di fronte agli attacchi scomposti del neoliberismo che confonde la dignità e i diritti umani con il mercato e i profitti. Il welfare diventa insomma la cartina di Tornasole per le forze progressiste , come si dice , e per gli estimatori del Concilio e della Costituzione, nelle loro risposte alla crisi che viviamo, e di quella che attende i nostri figli e nipoti. Che possiamo solo intuire non avendo gli strumenti per prevedere neanche ciò che succederà appena nel 2014 essendo ormai tutto concentrato nelle mani di quel capitalismo finanziario incontrollato e incontrollabile.

    Leggere e capire i tempi, diventa allora l’asse portante, la sfida come usa dire nella cattolicità, di un “pensare e agire politico” che trova nel cattolicesimo laico, ove mai ancora esistesse, la ragion d’essere della sua azione nella sfera pubblica. Aggiungo che la presenza di Papa Bergoglio al soglio di Pietro, sembra in questa fase della storia voluta da un misterioso disegno divino. Essa diventa provvidenziale, proprio per la crisi del capitalismo economico – quello che a differenza di quello finanziario faceva crescere nel bene e nel male le nazioni. Dobbiamo ringraziare questo papa italo-argentino perché sta riassumendo – con i suoi comportamenti ma in evidente solitudine – 120 anni di dottrina sociale e quel personalismo cristiano immerso nella nostra Carta , che oggi corrono il serio rischio di essere depositati nei libri di storia antica.

    Non è allora il centrosinistra , ma sono i liberisti del centrosinistra – ce ne sono…ce ne sono – che dovrebbero porre attenzioni e iniziare distinguere. Per quel poco che invece rimane del cattolicesimo politico e sociale, terminata la fase del collateralismo curiale connivente con la “Rivoluzione liberale” sfumata nelle “cantine” delle ville padronali, ha fatto capolino negli ultimi venti anni una sorta di neoliberismo cattolico di matrice viennese. Che detesta lo Stato e privilegia la società. Che crede all’individuo da solo e non crede alla comunità e alla collegialità. Alle collettività. Che confonde statalismo con welfare, assistenzialismo con bisogni reali, progetto politico con anarchia, centralismo con sussidiarietà dei corpi intermedi. Si tratta allora di chiarirci le idee. Ma questo è un altro discorso che faremo in altra sede. Un caro saluto.
    Nino Labate 13 luglio 2013

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