Qual è la specificità del contributo cristiano alla situazione della crisi?
Questa la domanda che si pone Christian Albini su “Tempi di Fraternità” n. 3 del marzo 2012.
La ricerca dello “specifico” cristiano nella storia è ricerca perenne. Ed è uno snodo cruciale. Albini così risponde all’interrogativo: “Solo testimoniando con la vita che dal vangelo nascono uno stile di relazioni e una pratica di umanità alternativi a quelli dominanti i cristiani daranno un loro contributo”. E cita un bel passo di Severino Dianich nel suo ultimo piccolo libro: «Per gli apostoli non era la trasformazione della società che avrebbe fatto avanzare il vangelo, ma la diffusione del vangelo avrebbe trasformato la società»
Christian Albini è di Crema, è nato nel 1973; è un laico, insegnante, teologo, autore di libri, articoli e del blog Sperarepertutti. È socio fondatore dell’associazione Viandanti.
“Tempi di Fraternità” è un mensile pubblicato a Torino. Nasce nel solco del francescanesimo. Si definisce così: “un punto di incontro di cattolici che credono nella laicità e perciò nella sostanziale parità tra uomini e donne, liberi e schiavi, ebrei e greci di fronte ai grandi interrogativi dello spirito e alle grandi sofferenze dell’esistenza. (…) Credono nella laicità e perciò intendono la fede come capacità di relativizzare – anche con molto senso dell’umorismo – le nostre verità possedute, nell’attesa di una verità sperata. Credono nella laicità e perciò nella necessità di astenersi dal definire ortodossie e appartenenze, perché nessuno può mettere limiti alla fantasia di Colui che manda il suo Spirito ai giovani e ai vecchi, ai servi e alle serve”.
Sapete dunque interpretare i segni del cielo e neon siete capaci di interpretare i segni del tempo? (Mt 16,3b)
Come mi sento e come mi pongo, da cristiano, in questo momento di fronte alla crisi economica? È una domanda che vale la pena di affrontare, se ci sta a cuore la possibilità che la fede sia lampada per i nostri passi, per usare le parole del salmista, anche oggi. È l’esigenza di un credere incarnato, non spiritualistico. È l’esigenza che il Vangelo ancora sappia parlarci e non sia solo eco del passato. Non intendo addentrarmi dentro le questioni della “cucina” politica e del merito dei singoli provvedimenti. Questi ultimi sono aspetti tecnici, certamente importanti, ma che in una scala di priorità vengono in seconda battuta. C’è uno specifico che la prospettiva di fede può portare. Non è però facile coglierlo, perché rimane eluso, anche da parte di molti cattolici.
È certamente più facile dire prima in che cosa consiste. Non si tratta certamente di prendere parte, come credenti e come comunità cristiana, alle alchimie partitiche che in questo momento cercano di ridisegnare lo scenario repubblicano. Sono discorsi di tattica che poco hanno a che fare con il Vangelo. Eppure, le speculazioni sul (ri)posizionamento dei cattolici occupano il centro della scena, specie dopo l’incontro di Todi, benedetto dal cardinal Bagnasco. Nemmeno si tratta di approfittare dell’occasione per giocare la carta dei valori non negoziabili e cercare ottenere concessioni, vantaggi e contropartite da parte di questo o di quello. Anche qui, scarsa attinenza con il Vangelo. Insomma, la crisi non può essere un pretesto, approfittando della debolezza della politica, per consolidare una rilevanza sociale dell’istituzione ecclesiale. Sarebbe l’opposto del «Voi però non fate così» (Lc 22,24) con cui Gesù mette in guardia i suoi dall’esercitare un potere come i grandi del mondo.
Severino Dianich ha dato alle stampe un libro piccolo di dimensioni, ma rilevante nel contenuto, che coglie il punto e merita di diventare un contributo importante alla riflessione contemporanea: «Per gli apostoli non era la trasformazione della società che avrebbe fatto avanzare il vangelo, ma la diffusione del vangelo avrebbe trasformato la società» (Chiesa e laicità dello Stato. La questione teologica, San Paolo 2011, p. 8). Sì, la specificità del contributo cristiano alla situazione della crisi consiste nel saper leggere e affrontare la situazione attuale alla luce del vangelo, senza affidarsi a principi di autorità, ipoteche morali o tentazioni neo-temporali nascoste dietro la maschera della religione civile e della difesa di una non precisata natura. Solo testimoniando con la vita che dal vangelo nascono uno stile di relazioni e una pratica di umanità alternativi a quelli dominanti i cristiani daranno un loro contributo.
Dove sta la radice della crisi? A me sembra di vederla in un deficit di umanità, una questione antropologica, per usare una terminologia che molti sbandierano – anche con violenza – solo quando sono in gioco i temi di bioetica e poi sembrano dimenticare. La crisi economica rivela i limiti di un modello di persona centrato sull’individuo e di rapporti sociali centrati sul profitto. Non consiste forse in questo l’ipertrofia dei mercati finanziari, con tutte le loro turbolenze? Proprio l’apice dell’economia finanziaria ne rivela il limite, perché le sue patologie speculative infrangono il sogno di un benessere facile alla portata di tutti, indebolendo i diritti ed esasperando le disuguaglianze. Non ci sono soluzioni e ricette a portate di mano, ma due vie sono abbastanza chiare. Una strada conduce all’estremizzazione dell’egoismo e dell’ingiustizia: ognuno per sé, per cui chi ha garanzie e privilegi, anche solo una fetta, se li tiene stretti e li difende contro tutto e tutti. Ci si rinserra nel proprio clan, nel proprio territorio, nella propria categoria sociale, come in una cittadella assediata. In mancanza d’altro, ci si rinserra nella propria identità, individuando dei nemici da odiare e combattere, come nei razzismi di vecchio e nuovo segno. In una tale giungla all’insegna dell’homo homini lupus, secondo un darwinismo spietato, chi ha finisce con l’avere ancora di più, e a tutti gli altri non resta che scannarsi in una guerra tra poveri.
C’è però anche un’altra strada. È quella solidale e fraterna di coloro che pensano che dalla crisi si esca insieme e che trova il suo paradigma nella prossimità evangelica, con il suo carattere eversivo, paradossale e universale. Non la legge del branco, ma quella della cordata che include tutti. La prima strada radicalizza la disuguaglianza. La seconda indica, come primo passo, la direzione di una redistribuzione di ricchezze e risorse, presupposto per sostenersi l’un l’altro. Per credere che ciò sia possibile ci vuole speranza, la virtù delle ore difficili. E virtù difficile. Del resto, anche noi che crediamo, non prendiamo molto sul serio le beatitudini, suggestionati come siamo dal fascino dall’avere e del valere. La cultura del benessere e dell’immagine ci ha contagiati al punto che più non ci turbano né la casa lussuosa né il conto in banca che cresce a dismisura, né l’uso e l’abuso del potere né il moltiplicarsi delle sacche di povertà.
Oltre che crederlo, bisogna renderlo possibile edificando, nel primato della fede, la chiesa come comunità alternativa. «È una rete di relazioni fondate sull’evangelo, che si colloca in una società frammentata, dalle relazioni deboli, fiacche, prevalentemente funzionali, spesso conflittuali. In tale quadro di società la comunità alternativa è la “città sul monte”, è il “sale della terra”, è la “lucerna sul lucerniere”, è “luce del mondo” (cfr. Mt 5,13-16)» (Carlo Maria Martini). Non un gruppo autoreferenziale e distaccato e nemmeno alleanza per emergere e contare, ma presenza discreta, ideale di fraternità in divenire che mostra a una società frammentata e divisa che possono esistere legami gratuiti e sinceri, che non ci sono solo rapporti di convenienza o interessi, che il primato di Dio significa anche l’emergere di ciò che di meglio c’è nel cuore dell’uomo e della società.