L’autrice, studiosa di storia della Chiesa contemporanea, è dal marzo 2013 senatrice della Repubblica, eletta nelle file del Pd. Questo articolo è stato scritto per “Appunti di cultura e politica” e uscirà tra breve nel n. 5 del 2013.
1. Spesso quando si vuole alludere al carattere “strutturale” della crisi del Pd, che non è altra cosa da quella del paese, il riferimento va alla valutazione della sconfitta elettorale. Le divisioni interne, quelle vere, non quelle correntizie o di riposizionamenti, si misurano su quel giudizio: una valutazione tra chi sottovaluta il peso e la natura della sconfitta, e chi la prende molto sul serio come spia di una crisi profonda della sinistra, delle sue ragioni e delle sue forme di rappresentanza.
I primi attribuiscono la “colpa” ad altri (populismo e personalismo) e all’Europa (qui con più ragione): “ricongiungere moneta e sovranità democratica” è il cuore del nostro rapporto con l’Europa che non può essere illuministicamente idealizzante con un esito burocratico punitivo per noi. Anche se non si riconoscono a sufficienza le 2colpe” dell’Italia.
I secondi, con ben più ragione, a mio parere, pensano che la sconfitta della sinistra nelle ultime elezioni sia di portata molto più profonda e che non sia diversa dalla natura sistemica della crisi del paese. Una crisi strutturale per spiegare la quale non basta, del resto, riferirsi alla crisi economica e politica, ma sicuramente anche a quella culturale e morale. Un vero fallimento delle élites del nostro paese. Tutte. Non solo quelle politiche.
Il fenomeno dell’antipolitica non è riducibile ad una fisiologica reazione a fenomeni contingenti o accessori ancorchè importanti e “nazionali” della crisi della politica come la corruzione o il trasformismo, ma si annida nell’impotenza della politica, nella sua inefficacia, nella sua impossibilità ad agire, a fare. La ragione interna al rifiuto della politica (tra le tante, e comunque la madre di tutte) è la sua impotenza. E’ un’esperienza comune ai tanti come me, che, alla loro prima esperienza legislativa, sono letteralmente sconvolti dalla paralisi pressochè totale delle decisioni. Il fatto veramente grave è che questa sindrome di Penelope che paralizza le due Camere è stata denunciata da così tanto tempo che si sono legittimamente esaurite tutte le riserve di credibilità della classe politica, sia pure con responsabilità diverse.
La vera questione morale è dunque, secondo me, mettere mano con urgenza alla seconda parte della Costituzione evitando il più possibile che il pressapochismo della fretta si sostituisca al coraggio delle Riforme istituzionali, peraltro assolutamente necessarie. Riformare la politica, dunque, come urgenza morale, in un contesto ormai quasi post-democratico.
E se questo è il punto, il governo del vero cambiamento significa: alleggerire, semplificare, sburocratizzare, rendere possibile l’azione. Cioè avere una visione riformista e modernizzante, in primo luogo della politica.
2. Il carattere modernizzante e riformista non dovrebbe mai “sostituire” ma accompagnare il piano di una sensibilità profonda della giustizia sociale e della dignità della persona che si fonda sul lavoro.
Credo che le pregnanti, non pauperistiche, critiche al mondo della finanza avanzate dagli sviluppi alla dottrina sociale della chiesa apportati dagli ultimi pontificati forniscano utilissime piste a quella terza via tra Stato minimo liberale e Riforma del welfare, come si direbbe oggi. Aiuto al lavoro in chiave tutt’altro che assistenziale, ma in piano di rilancio di tutte le forme dell’imprenditoria italiana.
E’ questa una vera attenzione – pratica e tutt’altro che retorica -che ci viene dallo spirito che anima l’attuale pontificato, quello di Papa Francesco. Una grande occasione per una cultura della sinistra, che esca dalle sempre ricorrenti scorciatoie di tipo strumentale e tattico verso il popolo cattolico. La stessa fine dell’appoggio della chiesa al centro-destra si riduce spesso, nella cultura di sinistra, ad un mero respiro di sollievo, senza una vera riflessione su cosa significhi davvero il fatto che si sia chiusa la fase della gestione diretta della politica da parte delle gerarchie ecclesiastiche. La fine, cioè, del così detto neogentilonismo e dunque dello scontro sui valori non negoziabili. La sinistra deve smettere di intervenire sulla riorganizzazione dell’area cattolica, in modo strumentale e solo tattico, ma comprendendo che lì ci sono aspettative e domande vere in sintonia con quello che deve essere il senso autentico della sua identità (pensiamo al viaggio del Papa a Lampedusa).
E, sempre con questa sensibilità, vorrei ci fosse più spazio per il terzo settore e più consequenzialità sulla sussidiarietà.
3. Per quanto riguarda la forma partito, concordo sulla sterilità del dibattito tra partito liquido e partito pesante, primarie sì e primarie no. Ma è ancora più sterile quello tra partito del leader e partito collettivo.
Il leader ci vuole sempre – non è questo il problema – e soprattutto in momenti di crisi sistemica, di cesure storiche, come quella che stiamo vivendo, pensiamo a tutto l’ 800 e il 900, al Risorgimento, alle crisi post belliche – della I e della II guerra -, e di leader ne abbiamo bisogno tanto più oggi in epoca di post-modernità e di quasi post-democrazia. Leader forti ci vogliono per non doverne subire di pessimi.
E poi la “rete” – che ne sarebbe la causa – non costituisce una novità in questo senso, il suo peso non va ingigantito.
Il problema da cui partire è come sia cambiata e umiliata la natura della politica novecentesca, in modo irreversibile.
La crisi dei partiti ne è la conseguenza. Non è la rete che annulla le forme partecipative è che queste sono cambiate e che queste nuove forme non si capiranno mai se non si connettono alla madre di tutte le cause: il limite della politica ormai irreversibile e anche sacrosanto, se fossimo stati noi ad agirlo.
La partecipazione c’è, io la vedo nei giovani che vivono gli spazi dei quartieri, che fanno volontariato, che vanno nelle chiese, che studiano con passione…, basta stare dentro la vita per accorgersene.
E’ la politica che è estranea alla vita.
Poi c’è poi la storia specifica del nostro paese; rispetto alla Germania, che giustamente prendiamo come riferimento, è assai diverso il nostro rapporto con i partiti.
Lo ricordiamo: nel 2013 il Pd compie 6 anni, la Spd 150, mentre la CDU viene dal partito cattolico più antico d’Europa, il Zentrum, nato nel 1870.
Ed è per questo che le Grosse Koalition sono altra cosa dalle larghe intese, sperimentate e decisive negli anni cruciali di Weimar.
Il problema è la separatezza, la distanza, l’incomprensibilità, l’impotenza della politica e del partito, ma questo non significa che esso debba veicolare contenuti deboli, anzi il contrario: per avere contenuti forti, bisogna far entrare la vita (la destra nei momenti di crisi ne ha di fortissimi – terra e sangue, famiglia e proprietà), e noi dobbiamo averli; invece siamo politically correct. Ma per avere valori forti bisogna viverli davvero e allora bisogna far entrare la vita concreta delle persone nella politica.
Dobbiamo chiederci come fare sì che il civismo, espressione della società civile, non sia la ciliegina, il prezzemolo sulle primarie d’apparato. Del resto la società civile dà il peggio se la politica viene meno al suo compito.
E allora qui c’è la grande scommessa del Pd, che non è quella di ri-partire, quanto piuttosto quella di partire.
Valori e principi di un umanesimo comune
1. La prima questione non riguarda solo e tanto quali siano i valori della sinistra ma piuttosto se ce ne siano ancora, se ce ne possano essere ancora, valori non mutevoli in funzione dell’immagine, occasionali e subalterni ai poteri più forti. Secondo un conformismo non sempre inconsapevole.
Perché nell’epoca dei post – post-ideologica e post-moderna, e oggi persino post-umana -, nella società liquida tutto sembra essere in-differente, sembra impossibile ancorarsi a principi che definiscano cosa sia giusto o no, cosa appartenga e definisca la nostra identità di uomini e donne contemporanee.
Quindi, da una parte, abbiamo una sorta di indifferenziato relativismo culturale, morale e dunque anche politico, quello che si può definire indifferenza dei contenuti. Basta vincere, basta sopravvivere, basta essere felici nella piena e libera soggettività individualista, basta garantirsi il presente cancellando qualsiasi idea di futuro.
E, però dall’altra parte, per reazione, per paura, per legittima sopravvivenza, ci si attarda, si resta attaccati come allo scoglio di principi noti, sopravvissuti ai naufragi del secolo scorso e spesso nel nostro caso a politiche nostalgiche delle nostre prime e seconde repubbliche. Ad una tradizione della sinistra davvero finita.
Io credo che la sinistra sia lacerata da questi due grandi corni del dilemma che ho qui espresso molto schematicamente, e non, come molti credono, dalle due tradizioni fondamentali di riferimento, mai amalgamatesi, quella cattolico-post-democristiana e quella post-comunista.
Ne consegue che il problema vero non è più quello del così detto amalgama ma è: relativismo culturale e morale o attaccamento ai vecchi paradigmi. Con il risultato che entrambe queste opzioni poco dicono sui contenuti.
2. Che fare, allora? Credo che di fronte a domande tutte inedite, nuove, si debba ripartire dai fondamentali e cioè a quale umanesimo noi vogliamo ispirarci. Certo non esiste una natura umana immutabile, essa va sempre storicizzata, ma chiediamoci quali ne siano oggi le fondamenta. La difesa dell’umano (anche se spesso a scapito della libertà del singolo) è stata una priorità per la sinistra del dopoguerra, che per essa era disposta a sacrificare persino la lotta di classe (pensiamo alla campagna internazionale contro la bomba atomica). Oggi l’emergenza di trovare un umanesimo condiviso ha una priorità ancora maggiore.
Attraverso quali priorità? La prima è la difesa della dignità dell’uomo, il che vuol dire prima di tutto il lavoro. Quindi il lavoro non come fatto contingente, legittimamente dovuto alle emergenze della disoccupazione, non come esperienza leggera – anche se ne sono cambiate irreversibilmente le forme – ma lavoro inteso come luogo di realizzazione e di identità. Di riconoscimento sociale e di trasmissione di vita, famiglia, affetti. Questa non è roba vecchia: è quanto di più moderno ci sia. Certo non nei termini di un obsoleto assistenzialismo statalista con tutte le infinite varietà del caso. Ma attraverso le forme più nuove che la crisi economica globale ci impone: alleggerimento dello stato, sussidiarietà, corpi intermedi, cooperazioni e ruolo delle famiglie e delle comunità nel disegno di una società civile organizzata e più compenetrata con la società economica. E il tutto per garantire una dimensione nazionale non contrapposta al mercato globale. Qui c’è innovazione, ricerca, respiro e aperture per il coinvolgimento delle donne e dei giovani.
3. Sulla donna il discorso della sinistra dovrebbe essere molto più attento ed elaborato di quanto non abbiano fatto affermazioni e anche azioni concrete (il 40% delle donne nelle liste). Non bastano dichiarazioni dimostrative, al limite della demagogia e del conformismo. Sia sul piano decisivo del rapporto maternità-lavoro, cura e servizi, sia sul piano delle grandi trasformazioni delle identità del soggetto maschile e femminile, sulle difficoltà “strutturali” delle relazioni affettive e di coppia. E’ evidente allora che il discorso sulla donna non è un pezzo da aggiungere, ma una realtà che innerva l’economia e la sfera privata, la cura e la visione del mondo. La libertà di potere procreare, il futuro dei giovani…
Infine il tema della scienza: come piegare i grandi successi della scienza ai fini di sviluppo della persona, di più eguaglianza e dignità di cui abbiamo parlato. Le nuove tecno-scienze applicate alla vita e alla morte ci aprono campi inediti di libertà di scelta ma anche nuove e più difficili soglie di responsabilità, e ci sollecitano ad una consapevole cultura del limite che non sia punitiva e restrittiva delle libertà individuali. Ma come fare sì che questo sia possibile? Attraverso quel discernimento dei criteri di ciò che resta permanente dell’umano, cioè del nuovo umanesimo di cui parlavo.
Una visione così unitaria di un nuovo umanesimo condiviso (che unisce ragioni economiche ma anche affettive e morali) non mette su diversi piani le contrapposizioni tra questioni etiche e questioni economiche, tra diritti civili (divisivi) e diritti di una maggiore giustizia sociale (contrappositiva), e acquista così davvero senso parlare di bene comune.
4. Quali strumenti per intervenire senza ricadere in una politica per troppo tempo onnipotente, pervasiva e autoreferenziale? Il suo mancato senso del limite l’ha condannata definitivamente e le ha contrapposto una “società civile” ancora più “barbarizzata”. Per questo cambiare la politica, i partiti, le istituzioni con riforme coraggiose non è accessorio, “perché non se ne può fare a meno”, ma diventa, é già, un vero e proprio imperativo morale per una cultura di sinistra; non è appiattimento a un banale riformismo, ma quanto di più rivoluzionario si possa fare per cambiare l’Italia oggi. Perché rivitalizzare un’idea di futuro che non c’è più vuol dire stare dentro al presente con totale pienezza, affrontando i suoi problemi e le sue miserie, vuol dire non vivere in un messianismo moralista e astratto, ma calarsi nella pesantezza dell’attuale palude cambiando il presente. A contatto veramente empatico con le persone i loro problemi.
Conclusione (amara)
Non sono più le tradizioni confluite nel PD a costituire il problema, semmai i loro simulacri, utilizzati impropriamente per altri scopi dalle varie correnti.
Eppure, come è evidente, esistono delle differenti visioni, che non vengono bene evidenziate nei contenuti, per prudenza, per immiserimento del dibattito interno (la mancanza di contenuti precongressuali che molti lamentano attribuendoli sempre allo schieramento opposto), molte volte perché è davvero difficile in una situazione così radicalmente drammatica tenere insieme prospettive e visioni di lungo respiro con programmi necessariamente emergenziali e infine, soprattutto, per la fine della politica, che accompagna una crisi della democrazia forse irreversibile. Sicuramente per come l’abbiamo conosciuta.
Sì, fine della politica novecentesca, indubbiamente, non solo dei partiti tradizionali (meno in crisi in Europa dove hanno avuto tutta un’altra storia, ma in crisi anche lì), e di quello che la politica ha veicolato nel secolo scorso, quell’impasto di interessi e valori, di lotte e di conquiste, che hanno fatto grande la storia del nostro continente.
Oggi questa crisi la chiamiamo populismo, leaderismo, crisi di rappresentanza…, in realtà si tratta di una vera e propria crisi sistemica perché crisi di legittimità.
Come scrive bene Agamben: “se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave, è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità; non soltanto, come si ripete troppo spesso, le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e lo legittima.
I poteri e le istituzioni non sono delegittimate perché sono caduti nell’illegalità; è vero piuttosto il contrario, e cioè che l’illegalità è così diffusa e generalizzata perché i poteri hanno smarrito ogni coscienza della loro legittimità. Per questo è vano credere di potere affrontare la crisi delle nostre società attraverso l’azione – certamente necessaria- del potere giudiziario: una crisi che investe la legittimità non può essere risolta soltanto sul piano del diritto”[1].
Emma Fattorini
[1] Giorgio Agamben, Il mistero del male: Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Bari-Roma 2013