Enrico Peyretti, ricercatore per la pace presso il Centro studi “Sereno Regis” di Torino, fondatore e redattore del “foglio”, mensile di cristiani torinesi, interviene su “Adista – Segni Nuovi” n.11 del 24 marzo, sulla questione della Tav. Peyretti ritiene “valide e numerose” le ragioni per dire no alla Tav. Sostiene che “l’opposizione valsusina non è un localismo gretto, ma può essere un esempio ‘glo-cale’, di partecipazione concreta e motivata alla politica generale. Critica i grandi media e la loro subordinazione a “l’unica logica della crescita materiale illimitata”. Al movimento NoTav suggerisce l’uso di metodi non violenti e di una migliore capacità di informare e di convincere.
Sembrerebbe, dalle cronache dei principali media, che l’opposizione al Tav Torino-Lione si riduca a violenze o provocazioni di contestatori agitati. Le ragioni sostanziali del movimento NoTav sono rimaste piuttosto oscurate, mentre sono valide e numerose (su www.notavtorino.org se ne trova una seria documentazione). Il professor Angelo Tartaglia (del Politecnico di Torino), lo scorso 4 marzo, ha scritto al presidente del Consiglio Monti (la lettera è stata pubblicata sul manifesto del 6 marzo) che l’analisi tecnico-scientifica sui costi-benefici dell’opera non è stata pubblicata, e sarebbe strano se ciò avvenisse ora, dopo e non prima della decisione. Ha scritto anche che l’Osservatorio del 2010 (da cui Tartaglia fu escluso) si occupò delle modalità di realizzazione della nuova linea invece di accertarne l’utilità.
L’appello in rete dei “professori”, con centinaia di firme, segnala che la domanda di trasporto merci e passeggeri non sale, il progetto non prospetta convenienza economica né locale né nazionale, non garantisce il ritorno nelle casse pubbliche degli ingenti capitali investiti (manca un qualsiasi piano finanziario), può generare ingenti danni ambientali diretti e indiretti, e già genera un notevole impatto sociale sulle aree attraversate, sia per la prevista durata dei lavori, sia per lo stravolgimento della vita delle comunità locali e dei territori.
Le istituzioni locali e nazionali hanno usato l’argomento «ormai»: ormai è deciso, e si fa. Le obiezioni ambientali, sociali, sanitarie, economiche, trasportistiche, previsionali sono state scavalcate da volontà politiche e interessi di impresa. Regnano modelli di crescita materiale che si dimostrano sempre più fallimentari nella attuale crisi del sistema finanz-capitalistico: crisi radicale e non settoriale, culturale e non solo economica, crisi di razionalità. Il mito della crescita materiale è fallito per i limiti fisici del pianeta. I decisori non vogliono rendersene conto. Solo l’autonomia alimentare dei popoli della fame dovrebbe ancora crescere.
È chiaro che il treno deve guadagnare quota rispetto all’aereo, all’auto, al trasporto delle merci su gomma. Sulla Torino-Lione i critici sostengono che la linea storica in funzione, da poco rimodernata, ancora assai sottoutilizzata, sia in grado di rispondere a queste esigenze, se sostenuta da una politica che induca i tir a salire sui treni. Alle linee Tav (300mila passeggeri) sono andati 98 miliardi; per 2 milioni e 600mila pendolari solo 4 miliardi. È l’ora di una politica delle “piccole opere”, invece che delle “grandi opere”. La salvaguardia del territorio, il trasporto pendolare, i beni culturali locali, l’agricoltura e il commercio a km zero, l’artigianato, la riconversione ecologica impiegherebbero risorse produttive più aderenti alla vita reale, creerebbero maggiore lavoro e un utile meglio distribuito sul territorio. L’Italia delle cento città e delle piccole imprese si esprimerebbe creativamente in vere piccole opere di miglioramento dell’ambiente, della vita e della comunicazione-coesione sociale, aperta all’accoglienza civile: globalizzazione dei diritti e della cultura più che della finanza.
Certamente c’è un problema di decisione democratica, che contemperi le esigenze particolari-locali e quelle generali. Ciò vale per ogni decisione politica. L’opposizione valsusina non è un localismo gretto, ma può essere un esempio “glo-cale”, di partecipazione concreta e motivata alla politica generale. È una terra di frontiera, che si identifica nei colli alpini come porte aperte, capace di mentalità internazionale e interculturale, storicamente partecipe anche della cultura operaia torinese.
I media più diffusi (locali e nazionali) non sono equilibrati, calcano su episodi agitati, e hanno l’unica logica della crescita materiale illimitata. Gli interessi in gioco vogliono far apparire violenta e insensata l’opposizione al Tav. Vorremmo che la preoccupazione e l’emozione permettessero ai NoTav di tenere fuori dalle loro manifestazioni chi ne ha talvolta approfittato per sfoghi eccessivi se non violenti, magari estranei al problema, così diffamando le loro ragioni presso l’opinione pubblica.
Vorremmo che, nonostante il muro dei media, i NoTav puntassero sull’informazione nazionale e internazionale. La resistenza sarà forte se si qualificherà presso l’opinione pubblica. Ma senza questo appoggio non ha speranza. La protesta può usare mezzi sempre più positivamente nonviolenti per comunicare i suoi argomenti. Può inventare gesti tipo la “rivoluzione dei garofani” del 1974 in Portogallo, offrire generi di conforto alla polizia, dialogare senza irridere, invitare tanti giornalisti anche esteri a vedere tutto. Metodi gandhiani possono smontare la militarizzazione imposta alla valle. Bloccare le strade è controproducente, disturba tutti e danneggia il turismo locale. Vale per pochi minuti per comunicare le proprie ragioni a chi transita. È giusto che la magistratura persegua la violenza nelle proteste, ma lo stesso deve fare anche per gli indubbi abusi di forza compiuti dalla polizia (pestaggi, gas vietati). L’eccesso di una delle due parti non giustifica mai una risposta eccessiva, tanto meno da parte dei tutori della legge.