Il testo è la relazione che l’autore ha presentato sabato 15 marzo a Milano ad un convegno dei Comitati Dossetti e dei Cattolici democratici lombardi sulla formazione politica
Non mi scoraggia la sensazione che proporre in questa fase una sorta di esame di coscienza sullo stato della formazione politica possa apparire l’iniziativa di un gruppo di simpatici alcolisti anonimi in un Paese se non ubriaco almeno alticcio da tempo. Né diminuisce il disagio se provo criticamente a invertire la metafora: saremmo noi gli abituati a un vino robusto e pregresso, mentre da qualche tempo va di moda una bevanda insieme energetica ed analcolica i cui effetti collaterali non sono tuttavia stati testati… Ma il riproporsi degli interrogativi e il prolungarsi del disagio né convincono né aiutano a vivere. Da qui l’iniziativa di guardare dentro al problema mentre mettiamo sotto osservazione le nostre esperienze.
Sappiamo anche che non è più tempo di manifesti, ma di umili (non modesti però nel livello e nell’ambizione) e volenterosi cenacoli.
Ovviamente le decisioni passano altrove ed abitano le immagini della pubblicità che, anche nell’agone politico, ha sostituito la propaganda. E il primo interrogativo è se abbia un senso pensare politicamente senza preoccuparsi immediatamente della decisione conseguente, ed anzi inseguendo i meandri e le pause del pensiero che sempre più raramente viene a noi e che ha tutta l’aria di perdersi nei suoi labirinti gratuiti.
C’è un interrogare politicamente la storia e la contingenza che eviti non soltanto l’inefficienza ma anche l’insensatezza? C’è una politica in grado di prescindere dalla valutazione critica e dalla ruminazione di chi medita?
Sono questi soltanto una piccola parte degli interrogativi che ci sospingono ad una riflessione sulla formazione politica e più ancora sulla latitanza di una cultura politica, che è la condizione più evidente di questa stagione senza fondamenti.
Oltre una divisione del lavoro generazionale
Parrebbe stabilita una divisione generazionale del lavoro: alle nuove generazioni l’ossessione del fare (che si presenta come l’ultima versione del riformismo); agli anziani il rammemorare nostalgico, sconsolato e non raramente brontolone. È una condizione tale da impedire se non un lavoro almeno un punto di vista comune?
È risaputo che il realismo sapienziale afferma che comunque ogni generazione deve fare le sue esperienze. E tuttavia è il processo storico a tenere insieme e concomitanti le diverse generazioni. Lo evidenziava Palmiro Togliatti ricordando don Giuseppe De Luca a un anno dalla sua morte: “Una generazione è qualcosa di reale, che porta con sé certi problemi e ne cerca la soluzione, soffre di non averla ancora trovata e si adopra per affidare il compito di trovarla a coloro che sopravvengono. E in questo modo si va avanti”.
È in questa prospettiva che ci pare abbia senso riferirsi a quello che vorrei chiamare il guadagno del reducismo. Purché il reduce abbia coscienza d’essere tale, sappia cioè che il suo mondo è finito e non è destinato a tornare. Troverà ancora in giro tra i vecchi compagni e militanti il richiamo della foresta, ma le foreste sono tutte disboscate, non ci sono più, nessuna foresta, per nessuno.
Il reduce ha anche il vantaggio di osservare come la storia abbia rivisitato le contrapposizioni del passato, rendendole meno aspre e consentendo meticciati un tempo impensabili.
Le distinzioni ovviamente non vengono meno, ma diverso è l’animo e diversa l’intenzione di chi, pur avendole vissute, le misura oggi con il senno di poi. Vale anche in questo caso l’osservazione di Le Goff e Pietro Scoppola: la storia discende dalle domande che le poniamo.
E tuttavia, reduci da che? Può dirsi in sintesi e alle spicce, dal Novecento.
È il Novecento un secolo che non fa sconti, né a chi lo giudica “breve”, alla maniera di Hobsbawm, né a chi lo giudica invece “lungo”, come Martinazzoli e Carlo Galli. Per tutti comunque non si tratta di un secolo dal quale sia facile prendere congedo.
Possiamo infatti lasciare alle nostre spalle il gettone e perfino il glorioso ciclostile, ma sarebbe imperdonabile scialo non mettere nel trolley Max Weber e Carl Schmitt, La montagna incantata e i Pisan Cantos, e quel patriottismo costituzionale, non ostile alle riforme della Carta, che resta probabilmente l’ultimo residuo di un idem sentire di questa Nazione rigenerata dalla Lotta di Liberazione e distesa su una troppo lunga penisola.
Gli esiti
Diceva il cardinal Martini con l’abituale ironia: “La politica sembra essere l’unica professione che non abbia bisogno di una preparazione specifica. Gli esiti sono di conseguenza”.
Anche la politica cioè nella stagione dei populismi non può prescindere dalla ricerca di radici fondanti e di un progetto in grado di costituire una terrazza sull’avvenire. Di preparazione, training e selezione dei gruppi dirigenti.
Per dirla alla plebea, anche in politica non si nasce “imparati”. Una condizione che costringe altrimenti a prender parte e partito alla maniera del tifoso piuttosto che del cittadino come arbitro (chi ricorda più Roberto Ruffilli?) o del militante: nel senso che lo schierarsi viene prima della critica e della valutazione, con una implementazione massiccia delle spinte emotive che si accompagnano ai poteri mediatici. Una condizione non più concessa neppure ai più assennati tra i tifosi del vecchio Torino… Una condizione costretta ad attraversare lo stretto sentiero che separa ed unisce oggi dovunque la governabilità e la democrazia.
I conti con il ruolo della cultura politica e di una formazione specifica incominciano inevitabilmente qui. Ed è qui che il confronto con Giuseppe Dossetti torna utile al di fuori e lontano da ogni inutile intento agiografico.
Vi è infatti un’espressione, opportunamente atterrata dai cieli tedeschi nel linguaggio giuridico e politico italiano, che definisce l’impegno dossettiano dagli inizi negli anni Cinquanta alla fase finale degli anni Novanta: questa espressione è “patriottismo costituzionale”.
Dossetti ne è cosciente e la usa espressamente in una citatissima conferenza tenuta nel 1995 all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli: “La Costituzione del 1948 – la prima non elargita, ma veramente datasi da una grande parte del popolo italiano, e la prima coniugante le garanzie di eguaglianza per tutti e le strutture basali di una corrispondente forma di Stato e di Governo – può concorrere a sanare ferite vecchie e nuove del nostro processo unitario, e a fondare quello che, già vissuto in America, è stato ampiamente teorizzato da giuristi e da sociologi nella Germania di Bonn, e chiamato ‘Patriottismo della Costituzione’. Un patriottismo che legittima la ripresa di un concetto e di un senso della Patria, rimasto presso di noi per decenni allo stato latente o inibito per reazione alle passate enfasi nazionalistiche, che hanno portato a tante deviazioni e disastri“.
Vi ritroviamo peraltro uno dei tanti esempi della prosa dossettiana che ogni volta sacrifica alla chiarezza e alla concisione ogni concessione retorica. Parole che risuonavano con forza inedita e ritrovata verità in una fase nella quale era oramai sotto gli occhi di tutti la dissoluzione di una cultura politica cui si accompagnava l’affievolirsi (il verbo è troppo soft) dell’etica di cittadinanza della Nazione.
Non a caso la visione dossettiana è anzitutto debitrice al pensare politica dal momento che uno stigma del Dossetti costituente è proprio l’alta dignità e il valore attribuito al confronto delle idee, il terreno adatto a consentire l’incontro sempre auspicato tra l’ideale cristiano e le culture laiche più pensose. Avendo come Norberto Bobbio chiaro fin dagli inizi che il nostro può considerarsi un Paese di “diversamente credenti”.
Dove proprio per questo fosse possibile un confronto e un incontro su obiettivi di vasto volo e respiro, e non lo scivolamento verso soluzioni di compromesso su principi fondamentali di così basso profilo da impedire di dar vita a durature sintesi ideali.
Il secondo lascito dossettiano lo troviamo quasi al tramonto della sua esistenza terrena: “Ho cercato la via di una democrazia reale, sostanziale, non nominalistica. Una democrazia che voleva che cosa? Che voleva anzitutto cercare di mobilitare le energie profonde del nostro popolo e di indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico sostanziale”.
Dossetti si confida al clero di Pordenone in quello che mi pare possibile considerare il suo testamento spirituale: la conversazione tenuta in quella diocesi presso la Casa Madonna Pellegrina il 17 marzo 1994 e pubblicata con il titolo Tra eremo e passione civile. Percorsi biografici e riflessioni sull’oggi, a cura dell’associazione Città dell’Uomo.
E il mezzo individuato come il più adeguato per raggiungere il fine è per Dossetti l’azione educatrice: “E pertanto la mia azione cosiddetta politica è stata essenzialmente azione educatrice. Educatrice nel concreto, nel transito stesso della vita politica. Non sono mai stato membro del Governo, nemmeno come sottosegretario e non ho avuto rimpianti a questo riguardo. Mi sono assunto invece un’opera di educazione e di informazione politica.”
Dunque un’azione politica educatrice nel concreto, nel transito stesso della vita politica. Un ruolo e un magistero al di là della separatezza delle scuole di formazione, nel concreto delle vicende e del confronto.
La formazione di un punto di vista
Quel che non cessa di apparire urgente è la formazione di un nuovo punto di vista.
Il processo di rottamazione ottiene una sua plausibilità dal trascinarsi di inerzie in grado di impedire ogni riforma, ma è costretto a non ignorare due circostanze dirimenti.
In primo luogo, la velocità introdotta nei processi politici in nome di una governabilità in conflitto con una democrazia incapace di decidere ha finito per attraversare tutto il quadro democratico e quello che un tempo si era usi chiamare “l’arco costituzionale”.
In secondo luogo, se provvedimenti intesi a promuovere e garantire democraticamente il ricambio non verranno tempestivamente varati, si assisterà al rapido ricrearsi delle condizioni di riproduzione di una nuova casta.
Eroi non si rimane, sta scritto nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza Europea. Probabilmente non è neppure un destino quello di restare riformatori in eterno.
È a questo punto che il ruolo della cultura politica ridiventa strategico. E quello della formazione indispensabile a garantire la “plasticità” e l’ascolto democratico di un nuovo personale politico. Ed è ancora a questo punto che la creazione di un punto di vista comune e condiviso chiede di essere valutata e messa alla prova: altro del resto non chiede questa convocazione milanese.
Un lavoro ed un cenacolo (consapevole del proprio peso) che, come il buon scriba, tragga dalla cultura politica le cose utili e buone del passato per confrontarle con il presente e il futuro. Un ambito dove la vecchia generazione non faccia senza discernimento carta straccia di tutte le posizioni lungamente studiate e consenta alle nuove di appropriarsene per volgerle in decisione ed azione. Senza confusione di ruoli e furbate reciproche.
Spetta ai “reduci” sottoporre a giudizio le antiche posizioni. Spetta alle nuove generazioni l’azione riformatrice.
È palese l’esigenza di confrontarsi senza remore pregiudizievoli con lo spirito del tempo, ma anche di additare gli strumenti della critica al medesimo spirito del tempo. Tutto può fare il nuovo riformismo tranne che astenersi da una critica costruttiva. Il nuovo non è allontanamento dal vecchio e dall’antico, ma critica e superamento – non solo innovazione, ma trasformazione – di alcune tra le cose antiche e instaurazione delle nuove.
Qualora dimenticasse a casa le armi della critica, cadrebbe inevitabilmente nella sostituzione del vecchio con il vuoto e si esporrebbe al patetico della ripetizione sotto forme diverse.
Prima che un problema di ruoli, riflettere sullo stato della formazione politica vuol dire chiedere se essa sia oggi possibile e a quali condizioni. Vuol anche dire mettere in campo, magari a tentoni, nuovi tentativi e nuove esperienze.
Perché il coraggio della politica non può essere inferiore a quello della cultura.
Due elementi di prospettiva
Esiste un orizzonte di breve termine? Due indicazioni mi paiano in questo senso utili.
La prima riguarda l’inarrestabile sviluppo delle tecnologie della comunicazione, in particolare quelle elettroniche. Una democrazia postmoderna ed efficiente non può semplicemente ripararsi da esse. Le frizioni tra governabilità e democrazia trovano anche su questo piano le occasioni di confronto così come le modalità delle soluzioni partecipate.
Si tratta di fare conti inevitabili con la cultura delle reti, che riguarda più da vicino la politica rispetto alle altre discipline. In particolare non sono pensabili la comunicazione politica e la partecipazione, anche sul territorio, a prescindere da un confronto serrato, critico e creativo con le nuove generazioni dei media. Esse non possono pensare di consistere al posto della democrazia rappresentativa, ma la democrazia rappresentativa non può ostinarsi ad ignorarle.
In secondo luogo penso vadano positivamente valutate le iniziative recenti che sembrano rompere un lungo indugio – addirittura uno stallo – per mettere testa e mano alla riorganizzazione del partito. Considero infatti tali gli incontri che dichiarano di avere come scopo la costruzione di nuove correnti intorno a un idem sentire e a un nucleo culturale condiviso.
Credo rappresentino l’occasione per riaffrontare il tema della partecipazione e dell’organizzazione politica, in un Paese che – unico in Europa e al mondo – ha azzerato dopo Tangentopoli tutto il precedente sistema dei partiti di massa.
Oltre la pratica opportuna delle primarie, che comunque hanno costituito la surroga di un mito originario, l’organizzazione partitica ribussa alla vita democratica quotidiana. Il partito cioè torna ad essere lo strumento intorno al quale si riorganizzano la ricerca, la partecipazione, la formazione della classe dirigente. In una prospettiva che, in sintonia con le dichiarazioni dei padri fondatori – qualcuno di loro arrivò a dire che la nostra era una Repubblica fondata sui partiti – riproduce la fisiologia costituzionale e rimette al centro dell’attenzione i corpi intermedi.
Il partito moderno (e anche postmoderno) infatti si costruisce attraverso le correnti. Correnti in grado pluralmente di alludere e lavorare oltre se stesse alla strutturazione di una comune compagine. Con la coscienza diffusa che, così come il partito è parte di una democrazia complessa e dialettica, la corrente è parte di un partito plurale ma unitario.
Riempire di contenuti e senso il contenitore partito è un modo per andare oltre i populismi che si sviluppano nelle politiche senza fondamenti. Non per fermare il vento con le mani, ma per tornare a far viaggiare venti – condivisi – di speranza.
marzo 2015 Giovanni Bianchi
19 Marzo 2015 at 09:50
Il problema del rapporto tra formazione politica e tecnologie della comunicazione pone in modo nuovo il problema dei processi e dei contenuti della formazione politica. La quale, a sua volta, è propedeutica a una efficace formazione “alla” politica.
I partiti potranno tanto meglio sviluppare la loro formazione alla politica, quanto più diffusa e radicata sarà la formazione politica.
Se non si fa della scuola (pubblica e paritaria) il centro primo della formazione politica (senza circoscriverla alla sola educazione civile), ogni formazione alla politica sarà sempre monca e problematica.
Purtroppo, non mi pare che questa prospettiva sia presente nel progetto per la “Buona Scuola”. Per la quale, assieme alla nuove tecnologie, servono soprattutto nuovi docenti e nuovi programmi.