“Il principio di sussidiarietà, soprattutto nella sua dimensione orizzontale, – scrive Carlo Borzaga, docente di Politica economica all’Università di Trento, in un articolo su www.labsus.org del 2 aprile 2012 – ha certamente potenzialità inesplorate e può dare un contributo importante per superare in positivo una crisi che sembra non avere fine. Ma ad una condizione: che si vada fino in fondo nella sua declinazione e che si metta davvero in discussione in tutti i suoi aspetti il modo di concepire l’attività umana organizzata e le sue istituzioni che oltre cent’anni di modello bipolare (cioè di soli Stato e Mercato, ndr.)ci hanno consegnato”. Questo di Borzaga è un intervento molto utile per dare sviluppo ai percorsi di sussidiarietà orizzontale, oltre lo Stato e il Mercato, senza assumere però una visione ideologica antistatalista e senza enfatizzare il tema, pur importante, dei beni comuni.
Si sta progressivamente affermando la convinzione che per superare la crisi in corso non bastono più né il rafforzamento delle politiche pubbliche, né l’ampliamento dell’azione del mercato e sia invece necessario che i sistemi economici e sociali si organizzino in modo deciso e consapevole secondo il principio di sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà può dare un contributo per uscire dalla crisi. Sono infatti sempre più numerosi coloro che ritengono che per rilanciare una crescita sostenibile e in grado di garantire la soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni sia indispensabile poter contare su un impegno maggiore e diretto dei cittadini, su iniziative dal basso finora ritenute marginali o al più integrative. Ma perché questa svolta si verifichi realmente, a vantaggio di tutti, occorre andare oltre le interpretazioni, ancora troppo timide, delle stesso principio di sussidiarietà, rilanciando la riflessione sul suo significato e sui suoi ambiti di applicazione. Tre sono, in particolare, le direzioni lungo cui questa riflessione dovrebbe muoversi.
Non solo cittadini “organizzati”
Va innanzitutto chiarito meglio di quanto non sia stato fatto fino ad ora quali siano gli attori della sussidiarietà. Non bastano più i cittadini genericamente “organizzati” che attraverso forme organizzative leggere e informali realizzano interventi meramente integrativi di quelli proposti da Stato e Mercato o che sviluppano azioni di pressione perché essi facciano di più e meglio. Occorre riconoscere in modo esplicito che, poiché il principio di sussidiarietà favorisce tutte le iniziative della società civile volte a risolvere qualsiasi problema di una comunità, tra gli attori della sussidiarietà devono essere incluse anche le imprese che operano senza fini di lucro, in particolare quelle conosciute come imprese sociali. Un insieme di imprese ormai presenti e riconosciute in molti paesi, in particolare nei paesi europei dove in questi anni si sono diffuse con una velocità notevole, e che sono di recente state riconosciute anche dalla Commissione Europea. E la cui rilevanza economica e sociale prescinde dal fatto che in alcuni casi siano finanziate anche con risorse pubbliche, perché ciò dipende dal tipo di servizi erogati più che dalla loro natura. E che in ogni caso hanno dimostrato di essere la risposta efficiente più vicina ai cittadini. Esse non sono classificabili, come alcuni sostengono, semplicemente come soggetti della “sussidiarietà privatistica” o peggio come causa di processi di esternalizzazione di servizi pubblici che hanno peggiorato la qualità dei servizi e dei posti di lavoro. Questa interpretazione, oltre che ad essere storicamente sbagliata, soprattutto in Italia dove le imprese sociali erogano per gran parte servizi che gli enti pubblici non hanno mai e forse non avrebbero mai fornito, è più coerente con il modello bipolare che con quello sussidiario.
La ridefinizione del ruolo dello Stato
La seconda riflessione, forse ancora più significativa, riguarda la ridefinizione del ruolo dello Stato in una società organizzata secondo il principio di sussidiarietà. La domanda fondamentale è: fino a che punto deve arrivare l’azione dello stato e da dove deve iniziare il ruolo dei cittadini singoli o organizzati? La risposta a questa domanda è ancora poco precisa, per non dire ambigua. Si sente spesso affermare, anche da parte dei sostenitori del principio di sussidiarietà, che l’intervento delle organizzazioni della società civile non deve essere usato come alibi per ridimensionare l’intervento pubblico o per consentire allo Stato di venir meno ai propri doveri. Di qui una forte critica al maggior coinvolgimento di organizzazioni non profit da parte degli enti pubblici nella organizzazione di servizi sociali, educativi o sanitari. Senza però una adeguata riflessione sulle ragioni di questi processi. Una riflessione che non può non partire da una domanda: se si ritiene quello della sussidiarietà un principio fondante dell’organizzazione sociale, quali sono i doveri e i compiti istituzionali da cui lo Stato non si deve ritirare? Tutti quelli assunti in questi anni o solo quelli fin qui effettivamente realizzati, o, ancora, anche quelli a cui non ha ancora dato risposta e difficilmente riuscirà a darla in futuro? A me pare che se vale il principio di sussidiarietà non esista più un livello predefinito e immutabile di intervento pubblico e quindi non ci sia neppure un limite all’impegno della società civile. Porre un limite invalicabile, soprattutto con riferimento all’offerta di servizi, significa ricadere ancora nella logica bipolare e continuare ad assegnare alla società civile un ruolo integrativo. L’equilibrio tra intervento pubblico e dei cittadini singoli e organizzati va piuttosto trovato di volta in volta, su basi empiriche più che ideologiche, a seguito di considerazioni di efficacia e di efficienza, e dipende dal grado di sviluppo della stessa società civile, dalla disponibilità effettiva di risorse e dalla qualità dell’intervento pubblico.
Le “attività di interesse generale”: quale significato?
La terza riflessione riguarda infine la definizione di “attività di interesse generale”. Nella letteratura più recente sulla sussidiarietà mi sembra che sia venuta formandosi la convinzione che queste attività coincidano con i cosiddetti “beni comuni”, cioè, stando alla definizione più diffusa, con beni non suscettibili di appropriazione privata ed esclusiva. Anche questa mi pare una definizione riduttiva del campo di azione della società civile, anche se di moda. Molti beni socialmente rilevanti, dai servizi sociali a quelli culturali, sono infatti intrinsecamente privati ed escludibili. Essi contribuiscono però quanto e forse più dei beni comuni a creare una società buona, in cui tutti possono godere di ciò che è necessario ad una vita decente. Se si condivide il principio di sussidiarietà essi non possono quindi restare fuori dal raggio dell’azione dei cittadini. Perché sono a tutti gli effetti “di interesse generale”. Se i concetti contano, e credo che in questo caso contino molto, mi pare più corretto il temine di “beni di merito” che indica quei beni di cui tutti i cittadini devono poter disporre, almeno in una certa misura, indipendentemente dalle loro condizioni personali e di reddito. Ed è proprio nella produzione di questi beni che le organizzazioni della società civile sono oggi impegnate e saranno ancor più chiamate ad impegnarsi nel prossimo futuro.
Il principio di sussidiarietà, soprattutto nella sua dimensione orizzontale, ha certamente potenzialità inesplorate e può dare un contributo importante per superare in positivo una crisi che sembra non avere fine. Ma ad una condizione: che si vada fino in fondo nella sua declinazione e che si metta davvero in discussione in tutti i suoi aspetti il modo di concepire l’attività umana organizzata e le sue istituzioni che oltre cent’anni di modello bipolare ci hanno consegnato.