Aldo Moro: il tempo vissuto e il tempo sognato

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C’è un angolo di Piazza San Francesco a Pistoia in cui un osservatore attento può fermarsi e leggere nella pietra questa frase: “Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà”.

Qualcuno fra i tanti ragazzi e ragazze, all’uscita delle scuole, che, aspettando la corriera, incontrano queste parole, magari stringendo un panino nelle mani, si è certamente chiesto chi fosse quell’Aldo Moro, autore di questa riflessione.

Quaranta anni sono tanti. I giovani dell’epoca cominciano ad essere nonni, e il terrorismo, sempre presente nella società, prende forme completamente diverse rispetto al tempo di allora.

La tragedia di Aldo Moro e, insieme, di un intero paese, con le tenebre della storia in cui è avvolta ancora oggi, non è cancellabile, scalfibile, mentre il rischio degli anniversari, delle commemorazioni superficiali è quello di comprimere una figura così significativa, come la sua, solo in quei terribili giorni di marzo, aprile, maggio 1978.

Giorni iniziati con il sangue versato degli agenti della scorta e terminati agghiaccianti e decisivi, in una Renault 4 rossa, parcheggiata beffardamente nel cuore di Roma, dell’Italia, tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista Italiano.

Aiutato da un libretto bellissimo: “Aldo Moro e Vittorio Bachelet. Memoria per il futuro”, edito, esattamente dieci anni fa, dalla Casa Editrice Il Margine, provo a strappare al tempo dell’oblio alcune parole di un giovanissimo Aldo Moro, non ancora trentenne, in cui, all’inizio della sua esperienza di impegno civile, si cimenta su: “che cos’è la politica, al di là della politica”.

“… l’esercizio delle attività politiche è fecondo, a patto che sia a servizio della causa dell’uomo e pronto perciò a riconoscere i propri limiti, ad inchinarsi alle realtà anguste e sacre della vita. Le quali si riproducono, moltiplicate, nell’esperienza sociale ed animano ed elevano l’attività politica che ne garantisce il libero svolgimento, sempre che non sia esaurita la persona umana nella sua individualità originale, nella sua ricchezza di valori, nel segreto fermento della sua esperienza esclusiva.” (Aldo Moro, Al di là della politica, pag.82)

Nel segreto fermento della sua esperienza esclusiva… Non sono parole qualsiasi, non stanno ferme, immobili un in tempo, in uno spazio, ma riguardano ogni uomo, ogni donna, ogni stagione, ogni vita.

Il giovane Moro, in un contesto di ideologie totalizzanti e divisive, ci regala pagine davvero senza tempo, allarga lo spazio della coscienza e la misura del respiro.

E’ utile proseguire, sempre nel libretto citato, con testi di Moro, scelti da Pietro Scoppola:

“Il gioco instabile degli equilibri politici, gli urti, aperti o velati, degli interessi, i compromessi inevitabili con la forza son cose certo necessarie, ma che si arrestano dinanzi alla soglia inviolabile dello spirito umano, il quale conosce gli eroismi della vita morale, le creazioni fantastiche, le estasi religiose, gli ardimenti del pensiero.

Bisogna che la politica si fermi in tempo per non guastare queste cose; bisogna che essa, riconoscendo volenterosamente i suoi limiti, lasci all’uomo il possesso esclusivo di questo suo mondo migliore, intimo e originale. Essa è soltanto strumento di questa elevazione ed è nel suo essere subordinata e pronta a servire efficacemente la totalità complessa e misteriosa della vita la sua innegabile grandezza.

Perché senza politica, senza sana e libera politica, manca all’uomo, l’ambiente nel quale costruire il suo mondo, manca la libertà necessaria per essere libero. Ma se la politica vuole essere tutta la vita, se una sola, e sia pure essenziale, libertà lavora per esaurire le altre, più vere e sostanzialmente costruttive, l’uomo è finito e la vita perde la sua chiarezza e ricchezza”. (ibidem).

Libertà che lavora per esaurire altre libertà…

Nel tempo vissuto, nelle stagioni o, per usare un termine a lui caro, nelle “fasi” della vita, Aldo Moro ha potuto misurare, fino all’estremo, lo stringersi dello spazio della coscienza e l’allargarsi della follia dell’ideologia che, mischiata ad altre trame oscure, risucchia prima la libertà e poi la vita, le vite, in un’illusione totalitaria che ruba il tempo e il respiro, uccide ogni possibile mediazione e produce sterile deserto.

Il tempo sembra scadere. La corriera sta per arrivare, a Piazza San Francesco.

Quella pietra rischia di tornare un appoggio niente più. Sovrastata, una volta all’anno, da una corona di fiori distratti.

Non è più il tempo totalizzante del “Noi”, che ha travolto Aldo Moro, ma il tempo totalizzante dell’“Io”, non è più il tempo dell’orizzonte di senso che risucchia coscienza e libertà, ma il tempo dell’espulsione dell’orizzonte di senso.

Eppure, forse, non è del tutto così.

Come in un sogno altre parole di Aldo Moro correggono queste troppo facili conclusioni, questa corriera così inesorabilmente in orario.

Aldo Moro questa volta non sussurra, ma alza la voce, ci raggiunge, ci richiama…

“Come siamo facili tutti alla condanna! Come ci piace straniarci dal nostro tempo, per scuotere da noi pesanti e fastidiose responsabilità! Non amiamo il nostro tempo perché non vogliamo fare la fatica di capirlo nel suo vero significato, in questo emergere impetuoso di nuove ragioni di vita, in questa fresca e misteriosa giovinezza del mondo.”  (Aldo Moro, Il nostro tempo).

In questa fresca e misteriosa giovinezza del mondo…

Come ricordava Pietro Scoppola, solo cinque anni più tardi rispetto al tempo delle pallottole e della fine del tempo vissuto di Aldo Moro, occorre tenere a mente il senso profondo della parola commemorare: “non solo ricordare insieme, ma ricordare rendendo nuovamente attuale”.

E allora, come in un sogno, dalla pietra allo smartphone, dall’aratro alle stelle, all’Ipod (come scriveva Paolo Giuntella…) prima dell’arrivo di quella corriera, mi piace immaginare come rimangano di fronte a noi un tempo vissuto e un tempo sognato che si intrecciano.

C’è tempo.

C’è ancora tempo per parlare con quel ragazzo o quella ragazza che, incuriositi dalla frase scolpita di Aldo Moro, scopriranno in quella pietra il segno di una speranza che sfugge alla morte e che trasforma la politica, se all’interno dei propri limiti, in uno straordinario deserto da abitare, una periferia, forse non un centro, a volte debordante come quarant’anni fa, in cui è ancora la “distanza tra giustizia ed ingiustizia” a fare la differenza.

Immagino quel ragazzo e quella ragazza ascoltare una canzone, mentre leggono le parole di Moro nella pietra, con occhi diversi…

“Dicono che c’è un tempo per seminare
E uno che hai voglia ad aspettare
Un tempo sognato che viene di notte
E un altro di giorno teso
Come un lino a sventolare (…)

È tempo che sfugge, niente paura
Che prima o poi ci riprende
Perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo
(…).

E da un anno non torno 
Da mezz’ora sono qui arruffato
Dentro una sala d’aspetto
Di un tram che non viene (…)

C’è un tempo bellissimo, tutto sudato
Una stagione ribelle
L’istante in cui scocca l’unica freccia
Che arriva alla volta celeste
E trafigge le stelle
È un giorno che tutta la gente
Si tende la mano
È il medesimo istante per tutti
Che sarà benedetto, io credo
Da molto lontano
È il tempo che è finalmente
O quando ci si capisce
Un tempo in cui mi vedrai
Accanto a te nuovamente
Mano alla mano
Che buffi saremo
Se non ci avranno nemmeno
Avvisato

Dicono che c’è un tempo per seminare
E uno più lungo per aspettare
Io dico che c’era un tempo sognato
Che bisognava sognare.”

 

E in cui, nel sogno come nel vissuto, Aldo Moro, il suo sogno di giustizia e di politica, di democrazia compiuta fino al sacrificio più grande, sono ancora con noi, senza nemmeno essere obbligati ad avvisarci tramite un troppo consueto ed abitudinario anniversario.

 

Francesco Lauria

 

 

 

 

 

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