Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma

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In occasione del centenario della nascita di Aldo Moro (23 settembre 1916) pubblichiamo le Conclusioni del libro che l’autore ha dedicato al profilo dello statista democristiano (Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Mulino 2016). Il volume è in libreria da pochi giorni.

 

Aldo Moro crebbe come un giovane intellettuale cattolico meridionale dotato di una fede cristiana convinta e di una cultura giuridica in cui spiccava una inconsueta apertura verso la moderna dimensione statuale. Intendendo lo Stato come strumento di una società articolata, si impegnò nelle organizzazioni intellettuali laicali del mondo cattolico, fino a livelli dirigenziali, che sotto il fascismo erano (anche) l’unico modo per arricchire e articolare quella società. Vi rimase legato poi nella primissima stagione dopo la caduta del regime fascista, mentre sviluppava un’attività giornalistica e in qualche modo di analista della politica, che mostrava vivo interesse e coinvolgimento umano verso la nascente democrazia. Costruiva intanto una professionalità di giurista e insegnante universitario, che non volle abbandonare per tutta la sua vita (coltivando anzi spesso l’idea di tornarvi a tempo pieno).

Entrò direttamente in politica solo attraverso l’elezione alla Costituente, in quota all’associazionismo cattolico e su spinta del suo arcivescovo, dopo un approdo tardivo alla neonata Democrazia cristiana. Doveva maturare nell’esperienza straordinaria e creativa di elaborazione della Carta fondamentale della Repubblica, in cui ebbe un ruolo di giovane ma già rilevante protagonista, il senso primario della sua progettualità politica successiva. Dalla frequentazione e condivisione delle battaglie del gruppo dossettiano maturò la convinzione secondo cui il problema politico essenziale del dopoguerra era perseguire e approssimare sempre meglio il progetto di Stato democratico e sociale delineato nella prima parte della Costituzione. Dall’ammirazione per (e dalla prima collaborazione con) De Gasperi, invece, ricavò la constatazione in qualche modo aggiuntiva che la Dc poteva muoversi in quella direzione solo portandosi dietro faticosamente la gran parte del moderatismo italiano: un concetto espresso primariamente nell’esigenza continua di unità del suo composito partito. Con il corollario di una politica di convergenze con altri partiti democratici, utile per gli equilibri con il retroterra ecclesiastico ma anche per l’allargamento progressivo dell’inclusione civile, nel quadro delicatissimo della guerra fredda.

Partecipando alla «seconda generazione» del partito, coagulata nella corrente di Iniziativa democratica, Moro fu vicino alla leadership volitiva di Fanfani e sperimentò il meccanismo delicato della guida del gruppo parlamentare, fino all’acquisizione della segreteria della Dc a seguito della rivolta antifanfaniana nel partito. Per vent’anni, dal 1959 fino alla morte, esercitò quindi un ruolo di preminenza e di guida politica nella Dc e nel paese. Nei quattro anni di segreteria politica sperimentò e affinò una sua forma di leadership avvolgente e inclusiva, mirata a sedimentare i problemi e a far emergere le soluzioni migliori perché pensate e condivise, a costo di qualche rinvio e compromesso (spesso rimproveratogli dai suoi critici e oggettivamente valutabile come l’altro lato della medaglia della sua sensibilità).

Politico della parola se mai ce ne sia stato uno, si affacciò timidamente all’era della politica e della comunicazione di massa, cercando di mantenere il suo schema logico e la sua volontà di convincere razionalmente il pubblico e l’elettorato: altro elemento che gli valse nell’opinione pubblica ampie basi di consenso, ma anche manifestazioni di indifferenza o di lontananza, estese fino al fastidio e all’insofferenza. Riuscì a ricucire con Fanfani sull’esigenza di allargare le basi dell’equilibrio democratico con l’inserimento governativo dei socialisti, lentamente usciti dallo schema frontista. Obiettivo che gli costò una durissima battaglia nel campo ecclesiastico, ma che riuscì a completare con il capolavoro di una sostanziale convergenza unitaria della Dc, rimasta per anni a forte rischio di spaccatura.

Passato alla presidenza del Consiglio dei ministri nel 1963, con il primo governo organico di centro-sinistra, dovette gestire i contraccolpi di quella vittoria, con la pressione spiccata del moderatismo democristiano, della Comunità europea e dei timorosi ceti produttivi e imprenditoriali italiani. Lo dovette fare in un clima di apprensione per il rallentamento del boom economico, per lo scarso equilibrio dei conti pubblici, per i nuovi equilibri sociali che si delineavano con la ripresa delle lotte sindacali, per la non facile integrazione governativa dei socialisti. Riuscì a guidare una politica riformatrice magari sotterranea e spezzettata, ma non del tutto priva di risultati, sia in una serie minuta di tasselli legislativi, sia per l’istruzione di qualche ulteriore riforma, che avrebbe visto la luce nella legislatura successiva. Acquisì lentamente ma sicuramente una sua statura internazionale, nell’orizzonte occidentale favorito dalla sponda positiva costruita con la leadership democratica kennedyana americana, impegnandosi nel tentativo di salvare e rilanciare il processo integrativo europeo, in uno scenario complicato dalle crisi locali e periferiche che accompagnavano il processo di distensione internazionale (dal Vietnam al Medio Oriente). La convergenza di condizioni favorevoli gli permise di rappresentare – a suo modo – il lato italiano di un grande processo internazionale di ammodernamento riformatore delle democrazie occidentali postbelliche.

Dopo il 1968, scaricato dalla guida del governo ed emarginato nel suo partito, meditò il ritiro dalla politica, ma decise invece di rilanciare un’iniziativa minoritaria e incisiva, che partiva dalla lettura del sommovimento sociale in corso (il movimento degli studenti, le rivendicazioni operaie, le istanze libertarie e secolarizzanti di una nuova soggettività umana nella nascente società del benessere). Una condizione ambivalente, aperta a una nuova stagione di crescita e articolazione della democrazia, ma anche a un pericoloso scontro tra velleitarismi rivoluzionari e reazioni conservatrici, innervate da rischi eversivi palesi e occulti. Predicò per cinque anni la necessità per la Dc di governare il problema, per non farsi travolgere. Restò minoranza nel partito, ben oltre la sua precedente immagine di mediatore assoluto piuttosto passivo, sperimentando battaglie e frustrazioni. Convergendo peraltro a sostenere gli equilibri possibili degli ultimi fragili governi del residuo centro-sinistra, in cui si ritagliò il ruolo di ministro degli Esteri. Nella politica internazionale, diede prova come sempre di lucidità di visione e anche di qualche capacità operativa, almeno al livello permesso a un paese intermedio come l’Italia, nella crescente e complessa interdipendenza internazionale.

Promosse nel 1973 un nuovo accordo di convergenza unitaria nell’oligarchia democristiana, con cui tornò al centro della scena. Dovette però raffinare il suo percorso, con una serie di laceranti andamenti divergenti tra le diverse condizioni di possibilità minimali della sua strategia: un partito in crescente sindrome da conservazione del potere e sempre più appannato nella sua legittimazione presso l’opinione pubblica, una radicalizzazione della violenza politica di minoranze che oscuravano i nuovi spazi di una democrazia partecipata, una cultura riformatrice in difficoltà a guidare la crisi economica interna e internazionale, l’esaurimento delle alleanze di centro-sinistra per una polarizzazione interna delle sue componenti, la mobilità insicura degli scenari internazionali con l’indebolimento della guida statunitense e una distensione europea fragile e ambivalente.

La tensione interna tra le diverse componenti della sua politica assunse toni di drammaticità via via più spiccata. La gestione della crescita elettorale comunista dopo il 1975, che delineava una «terza fase» della democrazia italiana, fu il suo ultimo obiettivo, parzialmente riuscito nel dare una sponda processuale al consolidamento della identità del Pci come forza inserita nella democrazia parlamentare e capace di metabolizzare i vitali e confusi fermenti di protagonismo e di cambiamento emergenti nel paese. Processo che doveva consolidare il sistema democratico e accompagnare l’evoluzione ideologica e politica del maggior partito di opposizione, senza cedere per principio a logiche strettamente consociative, oppure allo schema berlingueriano del «compromesso storico». Un processo che venne tragicamente interrotto con il sequestro e l’assassinio. La sua mite e persistente volontà di mediazione e di incontro, che si sforzava di ricondurre ogni dato rea le all’interno di un disegno evolutivo della politica democratica – a tratti raggiungendo lo sfinimento e sfiorando la passività, pur di non squilibrare il delicatissimo sistema nazionale – non poté nulla nei confronti della violenza terroristica e nemmeno dei limiti della risposta statuale a quella violenza. Il terrorismo lo colpì anzi proprio per la sua politica di consolidamento evolutivo della democrazia, nel superamento dei limiti della guerra fredda e dell’ingessatura conservatrice della società italiana: difficile ancora oggi dire se e come in quella violenza ci fosse anche il riverbero di una opposizione radicale alla sua politica di altro segno e altra matrice.

La vicenda oscura del suo assassinio non basta a obnubilare la sua parabola di politico e di statista. Ma in qualche modo ha dato il suggello definitivo a un ruolo storico che egli pensava nel senso dell’evoluzione, della crescita, del pacifico e ordinato movimento verso obiettivi condivisi. E che invece è stato segnato dalla contrapposizione aspra e dall’incomprensione sul fronte esterno. Ma anche da una interna tensione e da una drammaticità coscienziale ed esistenziale crescente, di cui abbiamo la possibilità di cogliere solo alcuni bagliori, addentrandoci con rispetto fino a dove il discorso e la comprensione diventano davvero difficili. Il giudizio sugli esiti della sua parabola esistenziale può essere anche molto diverso a seconda dei punti di vista e dei criteri storici, ma questo non dovrebbe impedire di considerare l’originalità delle sue intenzioni e delle sue motivazioni. Molti aspetti della sua esperienza e della sua biografia restano da conoscere meglio o almeno da approfondire, ma pare di poter dire che il segno lasciato dalla sua parabola umana sia stato di tutta rilevanza nella storia d’Italia e probabilmente anche dell’Europa e del mondo contemporanei.

 

 

Guido Formigoni

One Comment

  1. Leggo molto in ritardo. Mi è molto piaciuto . n.

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