“Oggi viviamo un momento politico molto difficile, assai tosto. Ma non rassegniamoci!”. Lo ha detto Pierluigi Castagnetti, qualche giorno fa, presentando un libro che raccoglie le lettere scritte da Francesco Luigi Ferrari, uno dei principali esponenti del Partito popolare italiano e leader della corrente della Sinistra, a Lina Filbier, sua fidanzata e poi sua moglie, dal 1919 al 1933, anno nel quale egli morì, a soli 44 anni. Il libro si intitola La politica fa parte anche del nostro amore e lo ha pubblicato l’editrice Studium nella collana della “Biblioteca della Fondazione Fuci”. E, della Fuci, Francesco Luigi Ferrari è stato presidente nazionale dal 1910 al 1912.
Oltre che dirigente fucino, impegnato a marcare l’autonomia del laicato cattolico dal rigido controllo ecclesiastico e a far avanzare il riconoscimento dei valori della democrazia moderna, in quegli stessi anni Francesco Luigi Ferrari fu leader, a Modena, dove nacque e dove si laureò in Giurisprudenza, del movimento contadino cattolico, in conflitto con i proprietari terrieri, clericali e laici. Eletto, nel 1914, nel consiglio comunale di Modena in una lista di cattolici e liberali, partecipò per intero alla guerra, e nel ’19 si iscrisse al nascente Partito popolare italiano divenendone l’esponente di maggior rilievo nella provincia di Modena. Di qui in poi Ferrari fu sostenitore di una linea politica e programmatica radicale, unita però ad una forte capacità di analisi politica e di interlocuzione con le altre forze politiche. Contrastò il fascismo incipiente sia sul piano culturale, dando vita nel 1922, dopo la marcia su Roma, al settimanale “Il Domani d’Italia” insieme a Guido Miglioli, sia sul piano politico, insistendo perché si tenesse a Torino nel 1924 il IV Congresso nazionale del Partito popolare e si arrivasse finalmente alla rottura definitiva con Mussolini.
L’invito a non rassegnarsi, oggi, nel difficilissimo momento politico che stiamo vivendo, Castagnetti lo ha poggiato sulla testimonianza di quest’uomo, che, costretto a lasciare l’Italia nel 1926, quando ormai il regime fascista aveva fatto terra bruciata (ed egli subì anche un’aggressione fisica nel 1923 che compromise per sempre la sua salute), visse anni di instancabile impegno politico e intellettuale, prima in Belgio e poi a Parigi. A Lovanio ottenne il dottorato in scienze sociali con una tesi sul regime fascista italiano. Collaborò con Luigi Sturzo alla costituzione di un Segretariato Internazionale dei partiti democratico-popolari di ispirazione cristiana, di cui divenne, dopo Sturzo, il rappresentante italiano, ma senza riuscire a spingerlo ad un coerente impegno antifascista. Nel ’28, insieme al liberale Zanetti e a Arturo Labriola, fonda “L’Observateur”. Poi, insieme a Salvemini, Turati, Sturzo, Sforza e Trentin, fonda un nuovo giornale, “Il Rinnovamento”, unendo per qualche tempo tutta l’opposizione antifascista non comunista, dai liberali ai repubblicani ai socialisti. Ma la stipula dei Patti Lateranensi, nel ‘29, raffreddò la collaborazione tra laici e cattolici. Ferrari non si rassegnò, appunto, e collaborò ancora con Carlo Rosselli e con Salvemini, fino alla morte che sopraggiunse nel ’33 per il riacutizzarsi di un trauma polmonare, cercando di delineare i caratteri di una democrazia politica matura e di chiarire le ragioni della necessaria autonomia politica dei cattolici.
A presentare, presso l’Istituto Sturzo, a Roma, le Lettere di Ferrari a Lina Filbier, insieme a Castagnetti c’erano Paolo Tomassone, presidente del Centro culturale di Modena intestato a Francesco Luigi Ferrari (e membro della rete c3dem), Nicola Antonetti, docente di Scienze politiche a Parma e presidente dell’Istituto Sturzo, Paolo Trionfini, storico e curatore del volume, Gianpietro Cavazza, vicesindaco di Modena dal 2014 e per molti anni presidente del Centro Ferrari di Modena, Luca Rolandi, presidente della Fondazione Fuci, Giuseppe Ignesti, storico e tra i primi a dedicare studi alla figura di Ferrari, e Francesco Marsico, responsabile dell’area nazionale della Caritas.
Dall’incontro, oltre all’appello a non rassegnarsi mai, anche nelle condizioni peggiori, e quelle che hanno segnato la vita dei democratici cattolici negli anni Venti e Trenta del secolo scorso sono state certo pessime, è emerso – sempre in riferimento alla persona di Ferrari – una sorta di nostalgia e di rimpianto. Con più chiarezza lo ha detto Giuseppe Ignesti, secondo il quale la scomparsa prematura di Ferrari ha contribuito non poco alla mancata trasmissione ai cattolici italiani, nel secondo dopoguerra, della cultura del popolarismo e, con essa e prima di essa, della stessa cultura cattolico-liberale che il popolarismo aveva ereditato. Quella a cui De Gasperi e Montini si sono ispirati, e che, a detta di Ignesti, fu ripresa da Nino Andreatta, quando in Italia il sistema politico sembrò prendere la via dell’alternanza.
Non che del popolarismo di Ferrari si sia persa del tutto la memoria. Nei primi anni Ottanta, per iniziativa di Ermanno Gorrieri e di Luigi Paganelli, fu messo insieme un comitato scientifico, presieduto da Gabriele De Rosa, con la partecipazione di Scoppola, Traniello, Malgeri, Rossini, Ruffilli, e altri, e si pervenne, nel giro di una quindicina di anni, alla pubblicazione dell’opera completa di Ferrari nelle Edizioni di Storia e letteratura di Roma. Uscirono numerosi volumi: “Il Domani d’Italia” e altri scritti del primo dopoguerra (1919-1926), a cura di M.G. Rossi; Il regime fascista italiano, a cura di G. Ignesti; Lettere e documenti inediti, a cura di G. Rossini, in due volumi; “L’Azione cattolica e il regime” e altri saggi editi e inediti sui rapporti Chiesa-Stato, a cura di M. C. Giuntella; Una democrazia senza democratici, a cura di G. Ignesti; Saggi di politica internazionale e scritti sull’Italia fascista, a cura di S. Trinchese. A questi volumi si deve unire almeno la pubblicazione degli Atti del Convegno nazionale di studi tenutosi nel maggio del 1983 a Modena, curati da Giorgio Campanini: Francesco Luigi Ferrari. A cinquant’anni dalla morte. Ma quel che l’incontro romano ha voluto dire è che sarebbe molto utile, proprio ora, impegnarsi a una migliore divulgazione della vita e del pensiero di Ferrari. Perché questo potrebbe articolare e arricchire la cultura politica dei cattolici, e far loro recuperare una dimensione storica e culturale di cui sembra si siano perdute le tracce.
Quando Ferrari morì, nel ’33, in esilio, la collaboratrice di Sturzo ebbe a dire “Povero don Sturzo!”. Lo ha ricordato Castagnetti. Perché non fu soltanto una perdita dell’amico a lui più vicino. Ferrari era anche, come ha ricordato Giuseppe Ignesti, l’uomo politico cattolico su cui don Sturzo contava di più per la rinascita politica dei cattolici nell’ora in cui la dolorosa parabola del fascismo avrebbe raggiunto trovato la sua fine. È stato Nicola Antonetti a sottolineare come Ferrari fosse davvero l’erede di Sturzo. In un libro di Gabriele De Rosa che raccoglie alcune sue conversazioni con Sturzo, il fondatore del popolarismo dice esplicitamente che Ferrari sarebbe stato “il migliore dei nostri” per la ricostruzione del dopoguerra. Ferrari si era nutrito del popolarismo sturziano, e diceva di esso che era “un vangelo di politica democratica”. Ma, a sua volta, Ferrari aveva, forse più di Sturzo stesso, una profonda capacità di lettura e di interpretazione degli eventi politici e storici. L’analisi che egli condusse del totalitarismo fascista sta al pari, secondo Antonetti, di quella di Hannah Arendt. Del resto Norberto Bobbio riconobbe in lui uno dei più lucidi interpreti del fascismo. E di questa sua capacità analitica, della sua conoscenza profonda dell’ordinamento fascista, ci sarebbe stato bisogno nel nostro secondo dopoguerra. Né Moro né Tosato né Mortati – ha rilevato Antonetti – avevano del fascismo una conoscenza approfondita come la sua. Non solo, ma Ferrari aveva anche avuto, fin dal ’29, la convinzione della necessità, per i cattolici, di riconoscere il valore del pluralismo politico. Che del popolarismo di Sturzo e di Ferrari si sia raccolto poco lo testimonia – è ancora Antonetti a rilevarlo – il fatto che la loro opera all’Università cattolica, nel secondo dopoguerra, era del tutto assente.
Il volume che raccoglie le lettere di Ferrari alla sua fidanzata, prima, e alla sua sposa, poi, segna il completamento della pubblicazione dei suoi scritti. Ma il suo valore non sta in ciò che aggiunge alla sua biografia e al suo pensiero politico, benché Paolo Trionfini, curatore del volume, abbia rilevato che alcuni aspetti della sua figura vengono messi in particolare rilievo dalle lettere, ad esempio l’acutezza del suo sguardo su quello che pensava del futuro dell’Italia. Sta, piuttosto, nel portare una nuova testimonianza del nesso tra l’amore e la politica, tra la vita privata e la vita pubblica, tra l’impegno nella costruzione di una vita di coppia e di famiglia e l’impegno nella vita politica. Di qui il titolo del volume, La politica fa parte del nostro amore, che è un’espressione che si trova in una delle lettere di Ferrari a Lina. “L’amore – scriveva in un altro passaggio – si rinnova nel nostro dovere per gli altri”. Su questa unità di vita si è soffermato in particolare Gianpietro Cavazza, che si è detto “innamorato di Francesco Luigi Ferrari”, proprio per quella unità vitale, di corpo e di mente, che nelle lettere così bene risalta. Non per nulla il Centro culturale intestato a lui, di cui Cavazza è stato per molti anni presidente, ha promosso qualche anno fa, nel 75° della sua morte, un progetto che ha chiamato “Il potere dell’amore”, con l’intento di portare dentro le scuole, a Modena, la testimonianza di Ferrari, la testimonianza della forza dell’amore e, insieme, del valore dell’impegno politico, e del loro nesso talvolta indissolubile. Nesso che emerge, in modo particolare, nella lettera forse più significativa dell’intero volume, significativa anche per la tragicità del momento in cui è scritta. È una lettera dell’11 luglio 1923, scritta da Roma, dopo le dimissioni di Sturzo da segretario del partito popolare e dopo che Ferrari, saputane la vera ragione, prese una coraggiosa (e per lui fatale) decisione. La riportiamo per intero.
Linetta cara, non ti so dire quanto desidererei che tu mi fossi quest’oggi qui vicina. Desidererei di stare per un po’ di tempo senza fastidi e guardandoci, per leggere nei tuoi occhi il tuo amore per me e ritrovare in questo tuo amore il consiglio che da alcune ore a questa parte ricerco in me e che domattina ricercherò e ritroverò dal Signore, il quale mi farà sentire anche la tua voce. Lontana di corpo, ti sento però tanto, tanto vicina in spirito e perciò a te mi confido in questa tarda ora di notte pensando di averti vicina insieme coi nostri angioletti e colla mamma. Avrai letto nei giornali delle dimissioni di don Sturzo. Non ti dirò lo strazio, è la parola adatta, che queste dimissioni forzatamente imposte hanno prodotto nell’animo mio e di tutti coloro che con me parteciparono a quella storica seduta del consiglio nazionale.
Quello che non puoi sapere è la ragione, il motivo di tutto ciò. Eccolo, Mussolini per ottenere che dal Vaticano partisse, diretto a don Sturzo, l’invito, che per un prete era un ordine, di dimettersi da segretario politico del partito popolare ha minacciato alla chiesa le più gravi e severe rappresaglie. E in Vaticano hanno dovuto cedere, e don Sturzo ha dovuto piegare il capo a questa nuova prepotenza, che non colpisce più soltanto un partito politico, ma la libertà della chiesa, l’indipendenza del papa. Siamo a questo punto: non soltanto agli uomini si vuol comandare ma anche al vicario di Cristo in terra! Tuuto questo io so, tutto questo deve essere detto per difendere la libertà della chiesa, per riaffermare di fronte ai cattolici italiani e di tutto il mondo il diritto della indipendenza del sommo pontefice. Vi sarà quel deputato coraggioso che oserà portare la questione della libertà della chiesa al Parlamento italiano? Vi è[1].
Sono stato con lui fino a mezz’ora fa. È necessario però che un altro, prima del suo discorso, osi gettare in pubblico la notizia di questo vergognoso ricatto e deve essere questi in posizione tale che le sue affermazioni possano essere credute, in modo che quegli che parlerà alla Camera si appoggi alla pubblica denunzia di uno che non sia l’ultimo venuto. Questi dovrei essere io. Altri hanno il mio stesso coraggio e più ancora, ma non la stessa posizione. Altri hanno questa ma non quello. Domattina il Signore dirà a me e al deputato, del quale non ti faccio il nome, quale sia il suo volere. Se farò ciò che questa sera penso di fare, non so, ben comprendi, che cosa possa succedere.
Colui che le mie parole inchioderanno di fronte al mondo intero alla gogna dei ricattatori sa troppo bene come ci si possa a questo mondo vendicare. Temo questo, te lo confesso. Vedo in questo momento qui presso a me la mia Lina e i nostri due angioletti e spasimo per tutti loro. In questo caso vi è però in giuoco qualcosa che vale di più del partito politico, che vale di più della stessa libertà della patria: vi è in gioco la libertà della religione!
Tu comprendi che cosa voglia dire ciò. In questo momento Mussolini non è più per me l’uomo che alla patria italiana ha tolto il decoro di tutte le civili libertà: è l’uomo che osa negare alla religione, alla chiesa, al pontefice la libertà che a loro non gli uomini ma Cristo ha dato. Questa lettera, scritta nella tarda notte, non la imposterò prima che il Signore m’abbia detto come decidermi. SE tu la riceverai vorrà dite che il Signore m’avrà data la forza di vincere tutto ciò che fa ripugnare all’uomo il sacrificio. La tua preghiera, perciò, sia diretta al Signore, perché mi continui la sua assistenza e perché la dia a te e a tutti noi. Partendo da casa la sera di domenica, ero agitato più di quanto mai lo fossi stato. Sentivo che qualcosa di impreveduto e imprevedibile doveva accadere. Per questo avevo sperato di potere nel pomeriggio di domenica correre a Formigine per baciare te e Carluccio con un trasporto che mai così forte avevo sentito nel cuore. Per questo ora ti bacio con tutta l’anima mia. Per questo ti sento così vicina a me in questo momento e ti sentirò sempre vicina, assieme a quegli angioletti che, carne della nostra carne, il nostro amore ha portato ad allietare la nostra casa, e alla mamma, cui debbo la forza di potermi oggi rimettere alla sacrosanta volontà del Signore.
Addio, amor mio. Il Signore ci benedica, ci perdoni le nostre colpe e ci assista oggi e sempre colla sua infinita bontà.
Giampiero Forcesi
[1] Sarà Angelo Mauri a farlo.