Appunto per tracciare lo scenario di una cultura politica nuova. L’impegno della rete c3dem

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La rete c3dem intende impegnarsi in un percorso di ripensamento della cultura politica che ha costituito, per i gruppi che vi aderiscono ma anche per il ben più vasto mondo di forze sociali e politiche d’ispirazione cristiana, il bagaglio di convinzioni, giudizi, attese, obiettivi che ci ha sin qui guidato. Un ripensamento, e cioè un rinnovamento che sia frutto del misurarci, con coraggio, con quanto sta cambiando in alcuni nodi decisivi della vita sociale, qui nel nostro paese e nel mondo.

Sandro Antoniazzi ha steso, come lui lo ha chiamato, “un appunto” per consentire alla rete c3dem di avviare questo percorso di riflessione e ricerca – per singoli aspetti, come per nodi più di fondoe più generali –  che ci si augura sia davvero partecipato, in primo luogo da tutte le componenti della rete stessa, ma anche da persone che sono vicine e in sintonia con il cammino che le associazioni della rete hanno fatto negli anni e decenni scorsi.

Sandro Antoniazzi, classe 1939, laureato in Economia e commercio alla Cattolica, è stato per oltre trent’anni dirigente della Cisl a Milano e nella Lombardia, poi membro della Commissione “Iustitia et Pax” della diocesi di Milano e di consigli d’amministrazione di alcune banche popolari (la Popolare di Milano, la Banca Popolare Etica), e fino a poco tempo fa presidente della “Fondazione San Carlo” per la promozione dei diritti alla casa e al lavoro di immigrati e di italiani in difficoltà. Sandro è anche tra gli animatori dell’associazione Comunità e Lavoro, ed è con essa che ha aderito alla rete c3dem.

Nel suo “Appunto”, che è davvero ad ampio raggio, spiccano alcuni temi che sono particolarmente legati alla sua esperienza diretta: i mutamenti profondi del lavoro (con uno sguardo sul mondo, e non solo sul nostro paese), l’approccio sociale all’economia, l’idea di una democrazia che sia sostanza vera di partecipazione oltre il voto, un rinnovamento del cristianesimo che passi anche per il definitivo incontro tra il filone del cattolicesimo democratico e quello del cristianesimo sociale.

Sono alcuni dei nodi, non i soli,  sui quali  cercheremo di portare elementi di riflessione. (red.)

 

Le certezze cadute, l’orizzonte incerto

La politica sta attraversando una fase storica particolarmente difficile, trovandosi in un frangente in cui sonno venuti meno i fondamenti e le certezze di ieri e dove del tutto indeterminati appaiono gli orizzonti verso cui procedere.

I problemi più rilevanti da affrontare rivestono ormai tutti una dimensione globale e spesso anche un carattere tecnico-scientifico complesso (biotecnologie, sistemi informatici, clima), problemi sui quali decisamente ardua e limitata appare la competenza e la capacità di influenza della politica.
La debole capacità di intervento e di significanza contrasta col fatto che, all’opposto, questi problemi concernono in modo diretto e concreto la vita delle persone. E’ opportuno ritornare un momento sulla nostra storia per meglio comprendere la situazione attuale.

Nel dopoguerra si è verificato uno sviluppo economico elevato ( i “trenta anni gloriosi”) che hanno comportato un benessere diffuso, di cui hanno beneficiato ampie masse di lavoratori.
Questo sviluppo è noto come “modello socialdemocratico”, perché allora i maggiori partiti socialisti europei (contrariamente ai comunisti) decisero l’accettazione del capitalismo in cambio del progresso sociale, cioè della partecipazione dei lavoratori al benessere generale.

La sua affermazione fu particolarmente favorita all’epoca dalla concomitante competizione nei confronti del comunismo: Occidente e capitalismo unirono le loro forze per contrastare l’avversario comune, praticamente non distinguendosi, apparendo come una cosa sola.
Questo modello è oggi totalmente e definitivamente esaurito: sono venute meno le condizioni che lo sostenevano e sono scomparse le motivazioni che ne hanno fatto la sua fortuna.

Ora lo sviluppo economico è più limitato, il pericolo comunista si è dissolto, non esiste più la necessità di difendere l’Occidente, il sistema economico diventato mondiale perde i legami coi territori e coi paesi e con essi ogni debito e responsabilità di carattere sociale.
Ciò significa che, a differenza di ieri, non esiste più in Occidente un equilibrio accettabile che orienti il nostro sistema economico: lo sviluppo sociale, l’inclusione delle masse, della gente, dei lavoratori non è più “garantito”, non è più considerato perseguibile e da perseguire.

Per il nostro paese si tratta di una modifica radicale della “costituzione materiale”.

E’ il motivo sostanziale dello sviluppo delle proteste populiste: il fine dell’inclusione di tutti è stato cancellato; sono peggiorate le condizioni di tanta gente; è diffusa una grande preoccupazione verso l’avvenire, non si vedono prospettive rassicuranti, non si vedono orizzonti in cui riporre la propria fiducia.

E’ evidente come da questo derivi un “vulnus” profondo alla democrazia: la democrazia è partecipazione popolare, che negli Stati moderni si esprime attraverso il consenso a forze e leader capaci di offrire delle prospettive di soluzione.
E poiché le prospettive da offrire oggi non ci sono, sono lontane e sono da costruire, prevalgono coloro che propongono facili soluzioni illusorie, a cui la gente vuol credere pur di credere in qualcosa.

Costruire un nuovo equilibrio tra economia e politica

Il problema reale di oggi consiste dunque nel costruire una nuova prospettiva, un nuovo equilibrio, che deve tenere insieme democrazia, economia e sociale; e nel contempo avere una dimensione mondiale  e possedere un robusto fondamento etico-culturale, trattandosi di impresa durevole.
Problema certamente immenso e da tempi lunghi, però è importante sapere per che cosa ci si impegna e in quale direzione ci si deve muovere.

Questo problema è il medesimo che si dibatte a livello politico sui rapporti tra capitalismo e democrazia. Se ieri sembrava che potessero stare bene assieme o addirittura che l’uno presupponesse e rafforzasse l’altro, ora le strade si sono divaricate: il capitalismo (l’economia) si muove in modo indipendente dalla democrazia e spesso rischia di soverchiarla determinandone la crisi.
(Il fatto che spesso siano paesi non democratici – si veda la Cina – a crescere di più, oltre che a far dubitare delle idee passate, genera fascino e attrazione in molti altri paesi: non è necessaria la democrazia per crescere e l’ obiettivo della crescita prevale su quello della democrazia).

Se non possiamo aspettarci che lo sviluppo capitalistico comporti automaticamente benessere sociale (il famoso “trickle down”) allora diventa necessario affrontare il capitalismo nel suo funzionamento e nelle sue scelte.

Ciò richiede una chiarificazione preliminare sul capitalismo.

In Italia, la parola capitalismo è praticamente bandita dai dibattiti, perché troppo carica del passato uso antagonista da parte della sinistra; ma mentre è giusto criticare quella visione, è sbagliato rinunciare al termine che, distinto esplicitamente da quell’uso, si rivela un termine analitico che bene esprime il carattere del sistema  economico (e non solo economico) attuale.
E’, ad esempio, usato normalmente nell’ambiente americano dove non si sono avute presenze rilevanti di sinistra antagonista; là dove il capitalismo regna non ci sono riserve a chiamarlo col suo nome.
Parlare di capitalismo dunque non significa pensare di abbatterlo, di superarlo, di fuoriuscirne e altre fantasie illusorie e incredibili di questo genere; significa invece studiare e comprendere bene il sistema per individuare come e dove si possa cambiarlo e migliorarlo.

Intanto, contrariamente alla critica superficiale di certa sinistra, è bene affermare che il capitalismo è un sistema positivo: ad esso dobbiamo lo sviluppo del nostro paese e il benessere raggiunto.
L’avvento della dimensione  mondiale avvenuta all’insegna della politica liberista ha provocato uno sviluppo molto diseguale e ha distrutto l’equilibrio positivo di un tempo; la maggiore difficoltà attuale consiste per questo nell’impossibilità di ripristinare un equilibrio senza tener conto della dimensione mondiale o, meglio, senza che si realizzi anche qualche forma di equilibrio mondiale.

Lo squilibrio economico tra Nord e Sud è tale da determinare una situazione permanente tanto ingiusta quanto difficilmente sopportabile: in pratica il Nord vive in modo relativamente agiato sulla base dei salari irrisori pagati al Sud e ciò anche grazie al dominio delle multinazionali che hanno potuto espandersi in mancanza di regole e di un controllo politico.
Regole internazionali e crescita delle economie e dei redditi del Sud sono pertanto le due condizioni fondamentali di un nuovo equilibrio mondiale più giusto. Con molto ritardo se ne sono accorti anche l’ONU e le altre organizzazioni mondiali, fino a ieri anche loro prigioniere dello scontro occidente/comunismo.

Per quanto riguarda il nostro paese non possiamo pensare di ritornare al tempo passato.

La fine del lavoro a tempo pieno e la necessità si sviluppare una “seconda economia”, l’economia sociale

Il lavoro in questi anni si è ridistribuito sull’intero mondo e il mito del lavoro a tempo pieno e indeterminato per tutti sta alle nostre spalle. Si svilupperanno forme molto diverse di lavoro, di cui il precariato sembra essere l’avvisaglia, per le quali dobbiamo prepararci. Sarà molto importante in futuro stabilire delle condizioni minime di diritti uguali per tutti a prescindere dal tipo di lavoro.
Occorrerà pensare anche a forme diverse di economia: nel sistema capitalistico/democratico, oltre all’economia più propriamente concorrenziale e rivolta al profitto, può esistere e convivere anche una “seconda” economia sociale, solidale e indipendente; non un’economia marginale, ma un’economia valida, riconosciuta, auto-sostenibile (che non si riduca all’appalto al ribasso a cooperative sociali).

E’ necessaria contemporaneamente una profonda riflessione sul ruolo e sul posto che il lavoro ha nella società; è nota la difficoltà del mondo del lavoro a causa della delocalizzazione, delle tecnologie e della concorrenza al minor costo (“race to bottom”).
A questo bisogna aggiungere che oggi un’ampia parte del valore non deriva dallo “sfruttamento” del lavoro, ma deriva dalla “estrazione” della rendita, dalla finanza, e dal basso costo dei prodotti fabbricati nel Sud e venduti a prezzi ben superiori nel Nord: dunque non è più nell’azienda che si distribuisce la maggior parte della ricchezza.

Qui sta la causa tanto  del diminuito potere del sindacato, quanto del continuo ampliarsi delle diseguaglianze. Il sindacato, ma anche la società e la politica, devono avere una visione più ampia del lavoro, comprensiva di ogni tipo di lavoro (dipendente e indipendente, produttivo e riproduttivo, materiale e immateriale) e per far questo si deve superare una visione troppo esclusivamente rivendicativo-centrica. I lavori di oggi richiedono di essere compresi e valorizzati nella loro specificità e per la loro qualità: professionale, tecnica, sociale, di cura, intellettuale, morale. Il sindacato non deve avere al centro il salario, o perlomeno accanto al salario deve dare altrettanta importanza alle finalità, al senso del lavoro, proprio perché il lavoro sarà sempre meno materiale e più di cura, di relazioni, intellettuale.
In questo campo deve esserci una vera e propria riconversione del sindacato, perché l’apporto del lavoro sarà sempre più considerato per la sua qualità, da cui dipenderanno poi le condizioni materiali.

Per combattere le disuguaglianze, promuovere una democrazia sostanziale

Se quando vivevamo in un periodo di sviluppo non si guardava molto alle differenze perché comunque tutti miglioravamo, ora invece le differenze balzano all’occhio, diventano motivo di confronto se non di contrasto. Emergono anche problemi strutturali annosi che non possiamo pensare che si risolveranno da soli col passare del tempo: così è la questione delle donne che, sia nel mondo del lavoro che nella società, hanno sempre conosciuto una condizione di inferiorità.
Un’altra condizione di inferiorità, che da noi si è manifestata in tempi relativamente recenti, è quella vissuta dagli immigrati i quali, anche quando superano le difficoltà iniziali dell’accoglienza, rimangono cittadini di serie B, su cui pesa il retaggio del colonialismo e di una storia carica di razzismo e di oppressione.
Le cause di queste situazioni sono profonde, storiche e attinenti alla natura umana, e pertanto richiederanno molto tempo per essere rimosse, ma proprio per questo motivo devono stare al centro di una visione democratica (sostanziale).

E poi vi sono problemi vecchi e nuovi che riguardano tanto il lavoro quanto la vita personale e sociale, che ormai sono indissociabili da qualunque prospettiva di innovazione e di miglioramento: ci riferiamo ai temi ambientali (Laudato si’) e a quelli della digitalizzazione e dell’informatica che sono questioni con cui abbiamo a che fare quotidianamente.

Anche solo il ricordare questi problemi maggiori rivela come la nostra società sia un “sistema”, nel senso che tutto questo costituisce un insieme connesso e che si può appunto chiamare “capitalistico” perché il fattore economico e la ricerca del profitto sono centrali nel suo funzionamento.

E dunque la battaglia diventa culturale e politica, oltre che economica e sociale.

E’ evidente che la risposta sta nel rafforzamento della democrazia e nella sua capacità di intervento: lo sviluppo della democrazia è volto sia ad accrescere le forze necessarie per affrontare i molti problemi che si prospettano, sia a contrastare la deriva populista (che alimenta una pseudo partecipazione del popolo).
Questo potenziamento della democrazia deve andare al di là dei problemi di rappresentanza istituzionale e individuare nuove forme di “democrazia sostanziale” e di partecipazione.

Democrazia sostanziale significa partecipazione dei lavoratori nelle aziende, nuovi modelli di impresa, una seconda economia sociale autonoma, forme assembleari nei comuni minori e dovunque sia possibile, proposte costanti progressive per le donne, cittadinanza piena per gli immigrati, almeno un canale della RaiTv indipendente e gestito dalla società civile, ricreare un rapporto diretto formativo tra intellettuali e base, un serio ripensamento della forma partito, e così via.

( L’ idea della democrazia sostanziale era tanto di Dossetti che di Togliatti: la Costituzione era il programma che avrebbe dovuto incarnare quella visione della democrazia. E’ un programma che non ha potuto realizzarsi per il sopravvento della guerra fredda. Occorre oggi riprenderlo in termini aggiornati).

Questo impegno per un nuovo grande impulso all’allargamento della democrazia, che deve rappresentare un vero salto di qualità, deve accompagnarsi all’impegno economico-sociale, che deve avere come obiettivo la ricomposizione dell’economico col sociale, dunque un’economia che “includa” tutti  (principio irrinunciabile, tanto cattolico quanto democratico, dunque cattolico democratico). In questo senso, riconnettendo l’economico e il sociale, in forme nuove rispetto al passato dei trenta anni gloriosi e che necessariamente dovranno essere più attuali e avanzate, si realizza un’opera veramente popolare, per il popolo reale, per il paese.

Qui realtà economico-sociale e democrazia sostanziale si congiungono, perché la soluzione economico-sociale non è una semplice distribuzione di benefici dall’alto dovuti a uno sviluppo elevato, ma frutto di uno sforzo condiviso che richiede una fattiva partecipazione.

Sarà forse una realtà economico-sociale meno ricca, ma più partecipata e dunque più democratica.

Prediligere l’impegno a livello locale

Questa battaglia non parte dal livello nazionale e dalle istituzioni, perché oggi non ne abbiamo le forze e perché non è da qui che dobbiamo partire per cambiare le cose: la battaglia deve partire dai problemi reali e dal livello locale.
Partire dal livello locale vuol dire partire dalla gente, con la gente, e dai loro problemi; significa poter fare esperienze nuove di politica che cambino e rinnovino gli attuali partiti e il modo di fare politica che non è più adeguato.

E’ illusorio pensare di rivolgersi indistintamente a un pubblico cattolico; l’individualismo, la mancanza di coesione sociale, la superficialità con cui si aderisce a questo o a quel richiamo politico, l’attuale assoluta mancanza di ogni formazione politica, richiedono una paziente opera ricostruttiva che non può che partire dal basso. Si parte da lì per risalire e porsi i problemi ai livelli più alti, che non vanno dimenticati, ma che al momento possiamo solo seguire e stimolare.

Possono naturalmente presentarsi  problemi nazionali per i quali vale la pena di impegnarsi, ma non costituiscono oggi l’ impegno prevalente e prioritario.

Affrontare i problemi del mondo con l’ispirazione della nostra fede

Oggi i cattolici democratici e sociali devono innanzitutto ricostruire le proprie forze, se intendono interessarsi seriamente di politica.
Per rendere possibile tutto questo è ineludibile affrontare il tema della situazione della comunità cristiana, che richiede una seria valutazione.

Nella società complessa in cui viviamo la religione rappresenta una sfera dell’attività umana accanto ad altre sfere, tutte importanti e dotate di proprie regole e di propria autonomia (politica, economia, scienza, cultura,ecc); la religione non è più un riferimento universale, un centro unificante delle diverse esperienze umane.
Qui si  pone il problema fondamentale della religione oggi (il medesimo che si poneva Lazzati al rientro della prigionia ne “Il  fondamento di ogni ricostruzione”): dobbiamo vivere la religione come una sfera separata o dobbiamo invece pensare che il cristianesimo informi tutta la vita e non ci sia separazione tra la vita spirituale e l’impegno politico sociale? Molti preferiscono la prima soluzione: la religione è una realtà separata, a sé stante, ben distinta  dalle cose terrene, il regno dello spirituale; per il resto dei problemi basta comportarsi moralmente.
E’ la soluzione di un tempo che dava anche un potere privilegiato alla gerarchia come detentrice della gestione del sacro, ma è anche la comoda visione della maggior parte dei cristiani attuali per cui la religione è un momento, una parentesi domenicale, per poi dedicarsi alla vita quotidiana con altri riferimenti.

La seconda strada è quella del Concilio (a cui si riferiscono i C3dem), quella di papa Francesco e quella che dobbiamo assumere: la vita è una sola, non esistono separazioni, il cristianesimo ha a che fare con tutta la nostra vita e dobbiamo affrontare i problemi del mondo con l’ispirazione della nostra fede.
Se l’enunciazione è facile, complessa ne è l’attuazione; d’ altra parte, facile o difficile, è ciò che è chiesto ai cristiani.

Noi dovremmo comportarci di conseguenza e dovremmo così portare nella chiesa questa esigenza che richiede riflessioni serie sullo stato delle parrocchie, delle associazioni, di questioni morali e teologiche, ecc…
Il cattolicesimo italiano è fermo; perde dei pezzi e perde di significanza, ma, essendo tuttora  diffuso, non avverte a sufficienza l’esigenza del cambiamento.

E’ fermo soprattutto per la contraddizione di fondo di cui sopra; ha indubbiamente bisogno di un serio rinnovamento e di un nuovo slancio. Stando fermi si rischia di immiserirsi, di rinsecchirsi, di ridursi sempre agli stessi problemi (è un segnale l’atteggiamento sulla omofobia). Ormai i problemi di morale sessuale (o, in termini più elevati, i problemi della vita) costituiscono l’ ultima trincea in cui i vescovi hanno posto la loro linea di difesa; linea che però la società ha già da tempo travalicato.

Non sarebbe ora di cambiare impostazione su questi temi? Come non prendere atto che ormai il matrimonio religioso è diventato una realtà di minoranza e che ormai è spesso trascurato dagli stessi cristiani?

Cattolici democratici e cattolici sociali finalmente insieme

La proposta qui tratteggiata ha anche un importante risvolto positivo: essa supera l’antica divisione tra cattolici democratici e cattolici sociali.
Lo supera sul piano politico sociale perché i problemi da affrontare oggi sono contemporaneamente economici-sociali-democratici (politici), lo superano nella visione cristiana, perché non si tratta di agire nel campo sociale attraverso una dottrina morale (la dottrina sociale della chiesa) che i cattolici sociali portavano avanti come fosse un programma.

Si tratta di affrontare i problemi politici e sociali non con una visione morale (che viene dopo, in modo subordinato), ma col principio primo della fede.
Dunque, si presenta la possibilità di unire le forze ieri separate per ridare vita ad un’unica nuova forza di ispirazione cristiana conciliare, con una fede adulta e con la libertà necessaria per impegnarsi ad affrontare i problemi del tempo.

 

Sandro Antoniazzi

 

 

 

 

 

 

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  1. Una prima reazione all’importante articolo dell’amico Antoniazzi, che ringrazio, riservandomi in seguito eventuali riflessioni più distese. Io credo che in generale – e anche nel nostro “mondo cattolico” – non abbiamo saputo valutare con la sufficiente attenzione e senso critico l’esplodere di una finanza fine a se stessa e di un’accumulazione di capitali improduttiva che è tra l’altro fra le cause dell’allargamento della forbice tra super-ricchi e “gli altri” , seppur in un quadro di generale miglioramento delle condizioni minime di vita delle persone nel mondo. Da tempi lontani, ma più recentemente tra fine ottocento e metà circa del novecento, varie forze sociali, tra cui anche i cattolici, hanno creato banche, casse di risparmio, cooperative, mutue, insomma hanno operato sul piano della “finanza buona” , quella che serve a sostenere l’economia reale, a consentire, tramite la condivisione di strumenti e di rischi, l’evoluzione di piccoli produttori, a difendere e se possibile incrementare in modo modesto ma certo i risparmi, a intervenire dove nascevano difficoltà, a sostenere il welfare locale e così via. Molte di queste esperienze, se non quasi tutte (resiste ancora il mondo cooperativo e sono state “salvate” le fondazioni bancarie) si sono perse per strada e forse anche nella coscienza profonda del popolo italiano (noto per essere risparmiatore e prudente), cattolici compresi, si è fatta avanti la tentazione di far soldi con i soldi (non in modo esclusivo magari, ma complementare al reddito da lavoro forse sì), senza troppo interrogarsi in che modo venissero usati per poter rendere, da dove venissero gli interessi maturati, se quella finanza sosteneva l’economia reale o quella speculativa, magari a danno di popoli o persone lontane da noi – o anche più vicine di quanto pensiamo. La stessa educazione economica e finanziaria è sempre piuttosto superficiale e carente e anche nei nostri appuntamenti formativi o convegnistici non è che si metta molto in evidenza che sono anche i nostri comportamenti a questo livello, individuali e collettivi, a orientare il modo con cui chi opera nella finanza si muove. Sarà che parlare di soldi è sempre inelegante… (ma Gesù ne parlava eccome…). Detto ciò, non sottovaluterei i segnali di cambiamento che si stanno evidenziando, ancora timidi ma che possono essere incoraggiati e valorizzati: non è più un tabù, nemmeno nelle grandi compagnie, parlare di etica, c’è un orientamento sempre più deciso verso la finanza a sostegno di obiettivi sostenibili (pur con qualche doverosa attenzione alle operazioni di greenwashing) e dell’economia reale, soprattutto se, appunto, sostenibile; c’è Banca Etica, Banca prossima (due cose molto diverse, ma comunque ognuna interessante da vari punti di vista), esperienze di microcredito, il ritorno a forme di lavoro comunitario e cooperativo, per ora di nicchia, il tema dell’economia civile… Insomma, accanto a tutti i temi che pone Antoniazzi, credo importante sottolineare che le forme e gli strumenti con cui i soldi vengono guadagnati, investiti, spesi, distribuiti, in che rapporto sono con l’economia reale e di quale economia in specifico, sono elementi a mio parere rilevanti nel quadro che lui ha tracciato. E se finalmente gli stati del mondo decidessero di mettere fine per sempre al vero e proprio scandalo etico ed economico delle società off shore e dei paradisi fiscali, staremmo tutti un po’ meglio.

  2. Bellissima riflessione da leggere e rileggere perché tocca temi diversi, tutti da maturare nella diversa prospettiva dell’oggi.
    Personalmente sono colpita dall’appunto sul sindacato e sul mondo del lavoro. Occorre cambiare le nostre chiavi di lettura dell’oggi e forse dobbiamo farlo presto. L’impegno si deve tradurre anche nei luoghi a noi più vicini dove la concretezza, la vicinanza si fanno comunità. Un’idea di comunità più ampia probabilmente di quella consueta per noi cattolici. Un respiro diverso e uno sguardo che deve andare oltre il nostro mondo.

  3. Quando è iniziata la globalizzazione la si è maledetta perché il capitale aveva approfittato della necessità di internazionalizzare per finanziarizzare l’economia. In realtà era tardi per capire che il mondo imponeva l’internazionalismo (Marx lo pensava “proletario”). Il ritardo non ha ovviamente giocato a favore dei lavoratori e dobbiamo provvedere per prevenire danni. L’Italia è un paese ricco (il 7° industrializzato), ma di beni privati: lo Stato è povero e indebitato. Per non svolgere l’intero capire de doléance penso che – soprattutto perché il governo lo trascura, sia importante rifare i conti con l’evasione. Abbiamo fin da giovani sentito ripetere che sarebbe anche un peccato, ma non so quanti benestanti che hanno la barca immatricolata in Croazia per non pagarne le tasse e rinfaccerei alla “frugalità” degli olandesi la loro connivenza con l’impoverimento generale per ospitare l’evasione delle multinazionali informatiche.
    Giancarla Codrignani

  4. Pur apprezzando lo spirito del discorso di Antoniazzi, e senza avere particolari competenze in materia,non posso fare a meno di manifestare il mio radicale dissenso a proposito della sua opinione sul capitalismo. il capitalismo è un sistema positivo: ad esso dobbiamo lo sviluppo del nostro paese e il benessere raggiunto.Afferma che ” il capitalismo è un sistema positivo: ad esso dobbiamo lo sviluppo del nostro paese e il benessere raggiunto.” Non c’è dubbio che il capitalismo abbia portato sviluppo (economico) e benessere (materiale) nel nostro paese. Ma anche tralasciando gli aspetti di consumismo e di disuguaglianze anche nei paesi ricchi, non possiamo trascurare il fatto che questo è stato ottenuto saccheggiando le risorse del terzo mondo e non facendosi carico delle diseconomie esterne dovute all’inquinamento, ai rifiuti e ai cambiamenti climatici. Il capitalismo produce benessere solo dove e fino a quando gli conviene.
    Il male radicale del capitalismo non sta nella ricerca del profitto, ma nel fatto che in economia solo il capitale decide. E proprio per questo non mi pare proprio che la dottrina sociale della chiesa e l’insegnamento dei papi dia del capitalismo un giudizio positivo.
    Antoniazzi sostiene anche che “Parlare di capitalismo dunque non significa pensare di abbatterlo, di superarlo, di fuoriuscirne e altre fantasie illusorie e incredibili di questo genere”. E dove sta scritto? Antoniazzi stesso sostiene che va sviluppata una “seconda economia solidale”. E perché questa seconda economia non dovrebbe poter diventare la prima? Non è questo che chiede papa Francesco?
    Certo, è tutt’altro che facile. Ma se continuiamo a ripeterci tutti che “non c’è alternativa” rele al capitalismo, questa diventa una profezia autoavverantesi.
    Forse sarebbe bene che cominciassimo anzitutto a non subire l’egemonia culturale di questo pensiero dominante. E magari guardassimo con un po’ più di attenzione a quanto su questa questione sta succedendo da anni in sud America, sul piano ideologico, accademico e – sia pure ancotra molto limitatamente – sul paino pratico.

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