Beni comuni / bene comune: una scheda di lettura sulle diverse posizioni

Cominciamo da questo tema, oggi così rilevante e dibattuto, a fornire una serie di strumenti di lavoro utili per approfondimento e discussioni

a cura di Giampiero Forcesi

“I principi perenni del bene comune, che non sembrano stabilmente incarnarsi in una concreta comunità politica, rischiano di apparire astrazioni o, al massimo, un codice di leggi scritte in cielo e non sulla terra dei figli degli uomini”. Così osservava Vittorio Bachelet iniziando la sua relazione su Educare al bene comune nella primavera del 1964, quando si tenne a Pescara la XXXVI Settimana sociale dei cattolici italiani. E aveva perciò cercato di far riflettere sull’esigenza di una educazione che fosse “sempre più sensibile ai concreti contenuti storici che l’evolversi della convivenza umana viene dando all’ideale concreto del bene comune”, affrontando le “nuove scoperte della esperienza della società che si trasforma”, in vista di “un bene comune più compiutamente realizzato nella nuova situazione storica”.

 

Del resto, mentre in quegli anni si svolgeva il concilio Vaticano II, già papa Giovanni aveva ridato vigore alla nozione di bene comune e alla necessità di tradurne i principi nella realtà storica in cambiamento. Nella Mater Magistra, del 1960, aveva sintetizzato che “il bene comune consiste nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona”; e nella Pacem in terris, del 1963, aveva esortato a guardare “i segni dei tempi” per individuare le condizioni che possono favorire la realizzazione di quel bene comune. Rimane vero, però, che il concetto di bene comune è restato, nei decenni successivi, un codice di leggi scritte in cielo.

 

Da qualche anno a questa parte, però, il bene comune sembra essersi affacciato sulla terra dei figli degli uomini. Non solo la chiesa ha ripreso a occuparsene, con due successive Settimane sociali: “Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano”, nel 2007, e, nel 2010, “Un’agenda di speranza per il futuro del paese” (l’idea di un’agenda di speranza – si legge nel documento preparatorio del 2010 – nasce dall’interesse suscitato dalla Settimana dedicata al bene comune oggi, tema che “si è rivelato più che mai attuale e urgente” ma bisognoso “di essere declinato in rapporto ad alcuni problemi concreti del Paese”). In realtà, è tutta la società italiana nel suo insieme che ha fatto esplodere il tema del bene comune.

 

In questi ultimi anni, per lo più, l’espressione “bene comune” è stata declinata al plurale, beni comuni. O comunque la si è usata a partire dall’individuazione di elementi specifici, di singoli beni, talvolta di grande portata (l’acqua, l’aria, o la foresta amazzonica, ma anche la salute, l’istruzione, il lavoro, il paesaggio, Internet…), tal’altra di entità più ridotta e più specifica (un singolo pezzo di terra, un parco conteso, una determinata piazza oppure un certo edificio, una biblioteca; di recente, il teatro Valle, a Roma, occupato da attori, registi, uomini di cultura, è stato definito “bene comune” dagli occupanti, che hanno redatto uno statuto in questo senso).

 

Ma la nozione di bene comune è tornata a farsi sentire anche nel suo significato più complessivo, diciamo di filosofia e di etica della politica. In termini generici, ma pur sempre significativi, nel dibattito politico italiano si è cominciato a fare sempre più spesso riferimento al bene comune, all’esigenza che la politica ritrovi la strada del bene comune. Lo si è fatto a destra come a sinistra. In modo più rituale e più difensivo (talvolta ipocrita) lo si è fatto nell’area delle forze di governo; con un significato più puntuale, più gravido di implicazioni riformatrici per l’economia, e come espressione di critica alla politica dominante, lo si è fatto nelle forze di opposizione. Più in generale, per quanto riguarda la pubblica opinione e i tanti segmenti della società civile e del mondo culturale, si è come venuta scoperchiando una pietra, ed è venuto allo scoperto un malessere profondo, che era rimasto a lungo compresso. Il referendum sull’acqua è stato solo, seppure importante, un elemento di questo risveglio. Quella che appare emergere è una società in cerca di un’altra stagione della politica. Il richiamo al “bene comune”, in questo senso, sembra essere il modo più diretto e più efficace di indicare il bisogno di ritrovare serietà e equità nella vita sociale e politica del paese.

 

La connessione tra il concetto di bene comune, come la filosofia politica lo interpreta e come soprattutto la cosiddetta dottrina sociale della chiesa lo richiama, e la nozione di beni comuni non è stata per ora analizzata sul piano della riflessione teorica. Prevale, di gran lunga, la tematizzazione dei beni comuni. La nozione di bene comune è presente nel dibattito sociale e politico più che altro in termini di un’indicazione di cammino, che si vuole diverso da quello attuale della società italiana. Ma è pur vero che ci si comincia a chiedere se l’esigenza di affrontare seriamente la complessa tematica dei beni comuni, in ambiti sempre più numerosi e di fronte a politiche di privatizzazioni sempre più incombenti, non implichi di interrogarsi nuovamente sul tema di fondo del bene comune in politica.

 

Carlo Donolo, ordinario di sociologia economica alla Sapienza e autore di una serie di contributi sui beni comuni apparsi nel corso del 2010 sul sito del Laboratorio per la sussidiarietà (www.labsus.org), si dice convinto che “quelle parole (beni comuni) stanno assumendo un valore centrale per la nostra vita comune e per le prospettive della nostra società nel contesto globale”. I beni comuni, infatti, “sono centrali per ogni processo sostenibile, per lo sviluppo locale, per la coesione sociale, per i processi di capacitazione individuale e collettiva” e “la stessa sussidiarietà è in primo luogo capacitazione al governo dei beni comuni”. Per Donolo, nelle società attuali, in cui è sempre più difficile identificare elementi di aggregazione e di coesione sociale, i beni comuni sembrano essere proprio “l’elemento unificante che si andava cercando”. La loro caratteristica essenziale (tanto quelli naturali quanto quelli virtuali e frutto dell’intervento dell’uomo sulla natura, dunque l’acqua come l’istruzione) è proprio quella di essere “beni necessariamente condivisi”, di essere “il presupposto necessario per la vita sociale di tutti”.

 

I processi oggi dominanti, che tendono a sottrarre molti beni comuni alla fruizione condivisa, hanno fatto sorgere un conflitto sullo statuto stesso dei beni comuni. Al punto, scrive Donolo, che il tema dei beni comuni “ha oggi lo stesso rilievo che potevano avere a metà ottocento la lotta di classe e il socialismo”.

 

La tesi di Carlo Donolo è sostenuta con un vigore ancora maggiore da Ugo Mattei, docente di diritto civile a Torino e di diritto comparato nella University of California. Mattei ha pubblicato di recente, presso Laterza, un manifesto sui beni comuni. “Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea o la sanità, o cerca di privatizzare il servizio idrico integrato (cioè l’acqua potabile) o l’università, esso espropria la comunità (ogni suo singolo membro pro quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare – sostiene Mattei – rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un’altra opera pubblica”. Solo che, “mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell’autorità pubblica, cioè lo Stato, attraverso l’istituto dell’indennizzo per espropriazione, non esiste nessuna tutela giuridica, men che meno costituzionale, nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata”. Questa asimmetria costituisce, secondo Mattei, un anacronismo giuridico e politico che deve essere assolutamente superato, perché le sue conseguenze si sono dimostrate “devastanti”.

 

Mattei interpreta i beni comuni come “una tipologia di diritti fondamentali di ultima generazione”, che hanno urgente bisogno di un’elaborazione teorica che li riconosca come “un genere di beni dotato di autonomia giuridica e strutturale nettamente alternativa rispetto tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica”. Il principale bersaglio critico del manifesto  per i beni comuni è, dunque, “l’assetto istituzionale fondamentale del potere globale oggi dominante: la tenaglia fra la proprietà privata, che legittima i comportamenti più brutali della moderna corporation, e la sovranità statuale, che instancabilmente collabora con la prima per creare sempre nuove occasioni di mercificazione e privatizzazione dei beni comuni”.

 

La posizione di Mattei (co-redattore dei requisiti referendari per l’acqua bene comune e difensore della loro costituzionalità presso la Corte Costituzionale) è fortemente militante. Si richiama all’insurrezione zapatista in Chiapas, nel 1994, in cui vede la prima lotta politica per i beni comuni (il bene comune terra) che sia stata capace, nel dopo Guerra fredda, “di catturare l’immaginario mediatico globale”, diventando, dice, “un episodio rilevante della contro-globalizzazione”, a cui poi sono seguite le molte altre battaglie dei no global. Battaglie, scrive nella conclusione del suo libro, che “si declinano in modo estremamente diverso nei diversi contesti, ma fanno parte di una stessa decisiva guerra rivoluzionaria che ha per scopo la sopravvivenza del pianeta”; una guerra che vede di fronte due opposti paradigmi, due opposte visioni del mondo: da una parte “il paradigma dominante”, fondato su un’idea darwinista del mondo che fa della competizione e della concorrenza fra individui e fra corporations l’essenza della realtà, e poggia sulla dimensione individualistica e quantitativa; dall’altra il paradigma che chiama “recessivo”, fondato su un’idea ecologica (cioè non economica) e comunitaria del mondo, e sulla dimensione qualitativa. Volendo usare uno slogan, per Mattei si tratta di battersi per “meno Stato, meno proprietà privata, più comune”.

 

Un’eco dell’impostazione teorica di Mattei la si ritrova nei lavori della “Commissione sui beni pubblici” istituita presso il Ministero della Giustizia nel giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la riforma delle norme del codice civile in materia di beni pubblici. Di questa commissione, presieduta da Stefano Rodotà, Mattei è stato vicepresidente. I lavori si sono conclusi nel febbraio 2008, ma si attende ancora che il governo vi dia seguito. I componenti della Commissione hanno elaborato un testo normativo che prevede la soppressione delle categorie del demanio e del patrimonio indisponibile e la redistribuzione delle diverse specie di beni in nuove categorie. Tra esse spicca quella dei “beni comuni” (i cosiddetti commons).
Dai lavori della Commissione Rodotà è emerso un primo tentativo di definizione dei commons. Sono qui considerati beni comuni quei beni “a consumo non rivale, cioè non escludibili” (tutti ne possono fruire), “ma esauribile, come i fiumi, i laghi, l’aria, i lidi, i parchi naturali, le foreste, i beni ambientali, la fauna selvatica, i beni culturali, etc.”: beni  i quali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata, “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché  al libero sviluppo della persona”, e dei quali, perciò, la legge deve garantire in ogni caso la fruizione collettiva, diretta e da parte di tutti, anche in favore delle generazioni future. Nello schema di riforma si è previsto che, ove la proprietà di questi beni sia pubblica, gli stessi siano collocati fuori commercio (salvo i casi in cui la legge consenta la possibilità di darli in concessione, per una durata comunque limitata).

 

A due anni di distanza dalla conclusione dei lavori della Commissione, Stefano Rodotà è tornato sul tema, affermando che “i beni comuni sono a ‘titolarità diffusa’; appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti debbono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive”. Pertanto “devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà”. E, a questo proposito, Rodotà ha mosso una pesante critica nei confronti del “federalismo demaniale” che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, “mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati a far quadrare i conti”. E’ per questo timore, del resto, che il Movimento per l’acqua bene comune ha contestato che sia sufficiente che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga davvero salvaguardato, e ha condotto la battaglia referendaria per affermare che fosse riconosciuta la natura stessa del bene acqua come bene comune.

 

Rodotà, come Mattei, è convinto che “oggi i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali – sono al centro di un conflitto davvero planetario, che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata”. I beni comuni, osserva Rodotà, “ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato; indicano un limite”. E pongono il tema dell’uguaglianza, “perché i beni comuni non tollerano discriminazioni nell’accesso”. Non solo, “intorno ai beni comuni si propone la questione della democrazia e della dotazione di diritti di ogni persona”. Insomma, osserva Rodotà, essi sono al centro di una “ineludibile agenda civile e politica” (la Repubblica, 10 agosto 2010).

 

Tale agenda dei beni comuni non è solo italiana. L’attenzione ai beni comuni è un’istanza che riguarda tutto il pianeta. Lo testimonia l’assegnazione del premio Nobel per l’economia, nel 2009, alla statunitense Elinor Ostrom, per le sue ricerche sull’autogoverno dei beni comuni (cfr. Governare i beni collettivi, pubblicato in Italia nel 2006, ma edito negli Usa nel 1990). La Ostrom, occupandosi in particolare delle risorse naturali e della loro effettiva sostenibilità economica, ha cercato una terza via rispetto all’annoso dibattito tra il pubblico e il privato, tra chi sostiene la privatizzazione dei beni comuni per garantirne un uso più efficiente (è la tesi della cosiddetta “tragedia dei beni comuni”, che, se accessibili a tutti, si consumano presto e male) e chi ne raccomanda il controllo statale per salvaguardarne la sopravvivenza. La terza via della Ostrom è la gestione civica del bene attraverso istituzioni di autogoverno. Istituzioni che naturalmente dipendono dai singoli contesti, come ha dimostrato con le sue ricerche ventennali.

 

Se il prof. Ugo Mattei, nel suo manifesto, critica l’impostazione della Ostrom, ritenendola riduttiva rispetto alla posta messa in gioco dalla tematica dei beni comuni, e sostanzialmente impolitica, in Italia una serie di soggetti sociali si riallacciano alla esperienza della economista statunitense e cercano di ragionare su chi debba gestire i beni comuni e su come farlo, almeno per quelli a dimensione locale e meglio circoscrivibili. Secondo Gregorio Arena, direttore del Laboratorio per la sussidiarietà, l’introduzione della categoria dei beni comuni, prevista dalla Commissione Rodotà, trova una positiva connessione con l’affermazione del principio di sussidiarietà, nella sua dimensione orizzontale, introdotto dall’art. 118, ultimo comma, della Costituzione (con la riforma del 2001), il quale dice che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Gregorio Arena sostiene che per attività di interesse generale si devono appunto intendere i beni comuni.

 

I beni comuni sono beni né pubblici né privati; sono cose che esprimono utilità che sono funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona. I soggetti titolari di questi diritti sono certamente tutti i cittadini, in quanto si tratta di diritti esistenziali di ciascuna persona; ognuno deve poter godere delle utilità fornite dai beni comuni per il proprio sviluppo e benessere personale. Ma possono, e forse debbono, esservi dei soggetti – afferma Gregorio Arena – che di questi beni comuni si prendono cura, che ne sono non i proprietari ma i custodi, e che li arricchiscono e sviluppano, con vantaggio per se stessi e per gli altri. “Questi sono appunto i cittadini attivi. Che, come recita l’art. 118 della Costituzione, svolgono attività di interesse generale, prendendosi cura dei beni comuni”. Tali diritti di cura, secondo Arena, rientrano nella cosiddetta terza generazione dei diritti dell’uomo, dopo i diritti di libertà e i diritti sociali. E aggiunge che, se questi diritti fossero effettivamente riconosciuti, si potrebbe individuare una sorta di “obbligo”, da parte delle pubbliche amministrazioni, di affidare la gestione dei beni comuni all’autogoverno dei cittadini.

 

Anche per l’ambientalista Giovanna Ricoveri, in un recente contributo sul sito www.sbilanciamoci.org, “la riscoperta dei beni comuni, intesi come un paradigma di organizzazione sociale e istituzionale alternativo al mercato, dovrebbe trovar posto nell’agenda della sinistra”. Puntare, in alcuni ambiti, ad un’alternativa, non solo al mercato ma anche allo Stato, è, appunto, la tesi della Ostrom, la quale sostiene che le persone che operano all’interno di una comunità sono capaci di auto-organizzarsi e di prendere decisioni che non mirano solo al profitto. La tesi della possibilità di una società che sviluppi anche una dimensione di lavoro e di economia non a fini di profitto è fortemente sostenuta, in Italia, dagli studi di economisti come Stefano Zamagni e Luigino Bruni. E vi si richiamano studiosi come Gregorio Arena e un gran numero di gruppi sparsi nel Paese.

 

Si è concluso, ad esempio, ai primi di ottobre di quest’anno a Napoli un percorso biennale di formazione dei quadri del Terzo settore attivi nelle regioni meridionali. Il tema affrontato quest’anno è stato “Mezzogiorno e beni comuni”. “Parlando di beni comuni – si legge in un documento degli organizzatori (Fondazione per il Sud e Forum del Terzo settore) – si individuano non solo le necessità di cura e salvaguardia di risorse scarse (fonti di energia non rinnovabili, ambiente ecologico, patrimonio artistico e archeologico), ma anche beni immateriali che potenzialmente sarebbero abbondanti (conoscenza, sviluppo culturale, capacità creativa)”; e si esplorano “le nuove strade dell’economia solidale non per il profitto”. Strada, questa, che è praticabile attraverso la stipula di “patti di solidarietà” tra soggetti sociali e istituzioni, finalizzati a creare un’alternativa alle ricorrenti pratiche di esternalizzazione e dismissione dei servizi pubblici e a costruire strumenti di cittadinanza attiva e di coesione sociale con cui gestire i beni comuni, a cominciare dal patrimonio ambientale e storico, per proseguire con la cultura, la scuola, e il lavoro dei giovani.

 

“Il discorso pubblico sui beni comuni si sta facendo fragoroso”, ha commentato Giuseppe Cotturri, il “padre” dell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, sostenitore dell’iniziativa su Mezzogiorno e beni comuni, e autore con Gregorio Arena del volume Il valore aggiunto. Come la sussidiarietà può salvare l’Italia. Fragoroso, sì, ma sempre molto complesso e ancora allo stadio iniziale. Non ha torto il filosofo Roberto Esposito, in un articolo su la Repubblica del 14 ottobre a commento del “manifesto per i beni comuni” di Ugo Mattei, a notare che l’opposizione alla scesa in campo delle grandi multinazionali, che fanno politica al posto degli Stati sovrani e riducono ovunque gli spazi della democrazia, è sacrosanta, ma che, se questo nuovo antagonismo sociale si pone come alternativa globale al modello capitalistico, esso non ha speranze, “perché troppo in contrasto con le aspettative, le pulsioni, i desideri della stragrande maggioranza della gente, non soltanto in Occidente”. Non ha torto a proporre di esplorare con pazienza la strada da prendere e a dire che se, invece, questo nuovo antagonismo sociale, “senza rinunciare al conflitto politico e civile, punta alla costruzione di un sistema costituzionale triangolare in cui i beni comuni guadagnino progressivamente spazio tra quelli pubblici e privati, a partire da singole battaglie come quelle sull’acqua, sul nucleare, sulla difesa del lavoro, può allora diventare la nuova piattaforma unitaria di movimenti orientati alla trasformazione di un mondo che appare sempre meno nostro”.

 

Sembra di poter dire, in conclusione, che il discorso sul bene comune – tanto caro al pensiero cattolico (e, prima ancora, aristotelico), ma tanto poco preso in considerazione (non del tutto a torto, in verità) dalle forze politiche e culturali, se non per affermazioni retoriche o comunque molto generiche – ha oggi la possibilità di trovare un campo di applicazione parziale, di riflessione e di sperimentazione, sul terreno dei beni comuni.

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