Sabato 31 gennaio 2015: il parlamento elegge Sergio Mattarella presidente della Repubblica. Una buona giornata per la politica e per le istituzioni. Mattarella è un galantuomo, persona schiva, riservata, riflessiva. L’opposto del portato dei tempi, cioè dell’ossessione della visibilità, del protagonismo, della frenesia. All’atto della sua elezione, gli operatori dell’informazione hanno avuto un bel daffare nel reperire negli archivi notizie su di lui e sue dichiarazioni recenti, dopo la nomina a giudice della Corte costituzionale. Salvo due scritti occasionali e tuttavia utili a farsi un’idea di come egli potrà esercitare il suo mandato al Quirinale. Il primo è il ricordo di un amico e maestro di Sergio, Leopoldo Elia, ove egli faceva sua l’idea di un presidente della Repubblica che si attiene ai precisi limiti delle sue prerogative costituzionali, senza sconfinamenti. Il secondo, un saggio giuridico, nel quale Mattarella rammenta il clima politico dei primi anni novanta nel quale maturò la legge elettorale che porta il suo nome, una legge d’ispirazione maggioritaria, tesa a promuovere più governabilità e a dare più potere decisionale ai cittadini-elettori, contrastando le degenerazioni del parlamentarismo. Un saggio che tuttavia conclude – siamo nel 2011 – con la tesi che ora si pone una esigenza di un nuovo equilibrio tra parlamento e governo, la cui centralità, il cui attivismo legislativo (abuso di decreti e di voti di fiducia) ha finito per mortificare le assemblee elettive. Bastano questi due piccoli indizi a rassicurare che Mattarella accompagnerà certo il processo riformatore di regole costituzionali ed elettorali, con la cura tuttavia di vigilare sui delicati equilibri di cui si nutre il costituzionalismo democratico. Dunque, si può ragionevolmente prevedere che egli svolgerà il suo mandato in stretta coerenza con l’attuale dettato costituzionale. Facendo il supremo arbitro della vita politico-istituzionale, assicurando una sua terzietà, ripristinando quella normalità costituzionale auspicata dallo stesso suo predecessore Napolitano. Con l’implicito riconoscimento della espansione, da parte di quest’ultimo, sino all’estremo limite (talvolta anche oltre …) dell’esercizio dei poteri conferiti dalla lettera della Costituzione. Mattarella prevedibilmente non si spingerà oltre quei limiti e non solo perché, si spera, non si riproporranno “stati d’eccezione”, perché si auspica che la politica, partiti, parlamento e governo, riprendano a fare intera la loro parte. E’ bene che se ne convincano, sia coloro che immaginano un presidente che contrasti premier e governo, sia coloro che, sul fronte opposto, lo vorrebbero ridurre a docile e grigio notaio. Per come lo conosco, Mattarella farà esattamente ciò che compete al presidente della Repubblica, nulla di più, nulla di meno. Giustamente, a mio avviso, egli vigilerà con rigore sulla legalità costituzionale e farà “moral suasion” quale saggio arbitro tra le parti e garante di tutti.
Mattarella è uomo mite. E tuttavia la vita gli ha riservato prove dure nelle quali egli ha dovuto reagire esercitando la virtù cardinale della fortezza. La prova più tragica, notoriamente, è l’uccisione del fratello per mano della mafia. Il suo ingresso nella vita politica segue a quel delitto. Una vocazione politica adulta quale reazione, ispirata a senso civico, alla violenza e all’oppressione che affliggono la sua terra di Sicilia. Un bel messaggio per i giovani. Ma posizioni forti egli assunse anche nella sua vita politica: commissario della Dc siciliana con il compito di bonificarla dalle commistioni mafiose e di propiziare la primavera di Palermo del sindaco Leoluca Orlando; l’opposizione ferma allo strappo con cui Buttiglione cercò di portare a destra il Partito Popolare dopo le dimissioni di Martinazzoli; le note dimissioni da ministro del governo Andreotti all’atto del varo della sciagurata legge Mammì sulle tv ritagliata sulle esigenze di Mediaset; la vibrante censura all’ammissione di FI nel Partito Popolare Europeo. Non c’è bisogno di dipingere Mattarella come un guerriero, basta notare che egli è uomo capace di pagare un prezzo alla coerenza, per il quale vi sono principi laicamente non negoziabili.
Si diceva, una bella giornata per la Repubblica. Anche per il largo consenso alla base della sua elezione. Una buona premessa per fare il garante di tutti. Di più: anche chi non lo ha votato, da FI ai 5 stelle, ha riconosciuto le sue qualità personali e il suo adeguato profilo istituzionale. Si è parlato di un capolavoro di Renzi. Forse è troppo. Il premier è stato abile e accorto. Tuttavia, a ben riflettere, a fronte delle candidature in campo, non era difficile intuire che quella di Mattarella era la più unitiva o la meno divisiva. Rispetto ad altre tra loro decisamente diverse: o figure minori magari più malleabili perché vicine al premier, o troppo organiche al patto del Nazareno, gradite a Berlusconi e dunque sgradite alle minoranze PD, o troppo legate alla vecchia “ditta” Pci-Ds a sua volta attraversata da rivalità e vecchi rancori.
Si è parlato di revival o addirittura trionfo della Dc, a motivo della presenza di due personalità come Mattarella e Renzi ai vertici dello Stato. E’ una semplificazione. Intanto Renzi ha poco a che fare con la Dc, per ragioni generazionali e per stile politico, agli antipodi del moderatismo. Al più, si tratta di un riconoscimento non alla Dc, ma ai democristiani o meglio a un pezzo della sua classe dirigente. Più esattamente a figure del cattolicesimo democratico, che è solo una parte e non il tutto del cattolicesimo politico e della stessa Dc. Meriterebbe chiedersi perché. Azzardo una ipotesi: quella cultura politica si segnala per due attitudini, la mediazione e il senso delle istituzioni, compresa la loro ben intesa laicità. Qualità preziose specie per ruoli e figure di garanzia, in quanto unitive, a servizio di tutti.
Infine, una parola sul quadro politico sortito dalla elezione al Quirinale. Quattro telegrafici spunti. Primo: una (provvisoria?) ricostituita unità del PD, la cui centralità/protagonismo escono rafforzati. Non mancheranno altre, nuove occasioni di confronto interno, ma sarebbe bene e utile che tutti ne facciano tesoro: Renzi nel ricercare una sintesi e non indulgere a forzature verso le minoranze; queste, a loro volta, nel non operare distinguo artificiosi e a dispetto, magari associati a pratiche consociative (chiedendo posti in segreteria, nel governo, ai vertici dei gruppi parlamentari). Secondo: la disarticolazione di FI. E’ da sperare che, dopo venti anni, maturi la consapevolezza che quella che è stata la sua forza, Berlusconi e i suoi ingenti mezzi extra politici, sempre più ora si risolve nella sua debolezza. A lui ora, chiarissimamente, premono solo due cose: la riabilitazione e la “roba”, non la competizione politica per il governo. Non si spiega altrimenti la sua remissività sulle riforme, specie su quella elettorale, ritagliata su misura per il PD, con il premio al primo partito e non alla coalizione. Se si considera che il Cavaliere ha vinto sempre e solo quando si è proposto quale federatore di un campo di forze nel centrodestra, davvero non si capisce perché mai egli abbia ceduto al premio al primo partito anziché alla coalizione. Mentre si capisce benissimo perché Fitto, il suo oppositore interno, abbia parlato di suicidio di FI. Un macigno da rimuovere, la leadership di Berlusconi, pena una democrazia monca, priva di alternanza, e la deriva verso una destra lepenista, populista e antieuropea egemonizzata da una Lega riconvertita nazionalista e sovranista.
Terzo: la lacerazione del Ncd di Alfano, consumatasi nel contrastato voto per Mattarella. Esso dovrà decidere del proprio destino, già a partire dalle prossime elezioni regionali: o di nuovo con una FI debilitata ed egemonizzata dalla Lega o partitino subalterno e quasi annesso al PD, una sorta di Psdi del nuovo pentapartito con il PD nei panni della Dc.
Quarto: in tale quadro caratterizzato da un PD posto al centro del sistema politico, circondato da una pluralità di partiti minori non competitivi sul governo – uno scenario che l’Italicum sanzionerà e acuirà – si fa strada il rischio di regredire a una democrazia bloccata. Alla retorica renziana del bipartitismo rischia di corrispondere, per paradosso, l’affossamento del bipolarismo competitivo. Che era l’orizzonte sistemico del progetto dell’Ulivo, ove i partiti nazionali a cosiddetta vocazione maggioritaria dovevano essere due, non uno solo. Con una metamorfosi/snaturamento del profilo del PD quale partito centrista “pigliatutti”, anziché partito di centrosinistra nitidamente alternativo a un centrodestra. Sarebbe una semplificazione rappresentarlo come nuova Dc (trattasi di realtà non paragonabili), ma è ad essa assimilabile per posizionamento e funzione. Dentro un assetto che, esso sì, richiama la prima Repubblica. In un tempo che usa deprezzare la seconda, taluni, un po’ immemori, la rimpiangono. Non però, spero, nel suo connotato meno apprezzabile: quello di una democrazia difficile, bloccata, incompiuta, espressioni care ad Aldo Moro, il quale si prodigò (e forse ci morì) perché se ne uscisse, a valle della “terza fase” da lui patrocinata.
Franco Monaco