La concezione del popolo di Bergoglio, oltre ad essere alla base della sua denuncia delle disuguaglianze sociali, è essa stessa la più grande sfida alla democrazia rappresentativa di oggi. Questa la tesi centrale di un piccolo, interessante, libro di Dante Monda che ricostruisce per sommi capire il retroterra culturale di papa Bergoglio e le caratteristiche della sua concezione di popolo, per poi cercare di dimostrare quanto questa concezione sia una sfida alla crisi attuale della democrazia e, forse, l’indicazione di una sua possibile rigenerazione
Un giovane ricercatore, Dante Monda, ha compiuto un interessante itinerario di ricerca su un aspetto centrale della visione politica e religiosa di papa Bergoglio: la sua concezione di “popolo”. Ne è uscito un piccolo libro (120 pagine), edito dalla Morcelliana lo scorso maggio, con una prefazione di padre Antonio Spadaro e una post-fazione di Andrea Riccardi. Entrambi sono rimasti positivamente colpiti dall’analisi del giovane Monda. Titolo del libro: Papa Francesco e il “popolo”. Una sfida per la Chiesa e la democrazia. Titolo forse ambizioso; ma vale la pena di ricostruire l’itinerario che Monda ha seguito per valutarne la pertinenza.
Spiega nell’Introduzione l’autore: “Il concetto di popolo è stato individuato come filo rosso e fondamento alla base della visione politica dell’attuale pontefice”. E aggiunge: “L’attualità di papa Francesco risulterà evidente nel suo indicare una via d’uscita alla contrapposizione tra élite e popolo nell’ascolto paziente del popolo”. Qui il succo della lettura che Monda fa del pensiero politico di Bergoglio. Ma vediamo come ci arriva e come lo sviluppa.
Il libro si compone di tre capitoli. Nel primo Monda ricostruisce per sommi capi quali siano stati i fattori storici e gli apporti culturali che hanno portato Bergoglio a elaborare la sua idea di popolo. I riferimenti (e anche i condizionamenti…) sono, in primo luogo, all’Argentina del secondo dopoguerra, al suo contesto sociale ed economico, caratterizzato dal suo nazionalismo, da una concezione della democrazia incentrata più sulla dimensione sociale che su quella istituzionale, dalla prevalente ostilità verso il mercato, dal considerare il Paese una “nazione cattolica”, dai suoi tragici conflitti. In secondo luogo, al particolare sviluppo post-conciliare argentino, legato a varie personalità (Lucio Gera, Amelia Podetti, Rafael Tello, Juan Carlos Scannone, Carlos Galli) che hanno elaborato, fin dalla fine degli anni ’60 la cosiddetta “teologia del popolo”, una sorta di terza via, alternativa sia alla lotta dl classe (fatta propria dalla teologia della liberazione) sia all’individualismo liberale, e che valorizzava la cultura e la religiosità del “pueblo fiel”. Nota Monda che ha influito su Bergoglio anche il teologo francese Yves Congar con il suo libro del 1950 Vera e falsa riforma della Chiesa, dove si sostiene che la vera riforma è quella radicata nei fedeli comuni, nel popolo delle periferie.
Un altro pensatore che ha fortemente influito sulla concezione di popolo di Bergoglio è stato il teologo italiano, naturalizzato tedesco, Romano Guardini (1885-1968), al quale aveva persino deciso di dedicare il suo dottorato in teologia in Germania, cosa che poi non portò a termine. Due elementi, in particolare, del pensiero di Guardini lo hanno influenzato: la concezione dell’opposizione polare – nella storia e nella realtà i poli si oppongono e si richiamano l’un l’altro senza annullarsi – e la concezione del popolo come “mito”. La teoria dell’opposizione polare fu accolta da Bergoglio con interesse perché gli consentiva di mantenere aperta, nella sua stessa attività pastorale negli anni difficili del episcopato argentino, la tensione della dialettica tra le diverse posizioni in campo senza essere costretto a una sintesi, che sarebbe stata astratta, e che avrebbe ingabbiato quello che Guardini chiama il “concreto vivente”. La concezione del popolo come mito, come essere mitico, ha trovato consonanza in Bergoglio nella disposizione ad accostare la nozione di popolo non con la logica, ma con l’intuizione, perché popolo è una “unità vivente”, dice Guardini (e Bergoglio lo segue), “è più che massa”; popolo è “unità viva di sangue, suolo, destino, tradizione”. E governare il popolo così inteso significa, per chi ha responsabilità politica, dover costruire “l’edificio della totalità”, riconoscendo nella parte avversa “l’antitesi necessaria” (qui la citazione è da R. Guardini, Lo Stato in noi, in Scritti politici, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana 2018).
Segue un secondo capitolo, dedicato a passare in rassegna le caratteristiche dell’idea di popolo in Bergoglio. Innanzitutto c’è un nesso, in lui, tra l’idea di popolo di Dio e l’idea di popolo. Dice Bergoglio (in uno dei suoi discorsi più significativi rispetto alla sua visione politica, il Messaggio alle comunità educative, del 2006): “Dobbiamo trovare il coraggio di recuperare il potenziale liberatorio della fede cristiana, in grado di arricchire la convivenza democratica, grazie alla carica di fraternità vissuta che la caratterizza”. In secondo luogo, Bergoglio sottolinea, in un popolo, la sua dimensione culturale, il suo ambiente culturale, cioè anche il suo spazio, il territorio che abita. Dice: “Essere un popolo vuol dire abitare insieme lo spazio”; e, per questo, esorta: “dobbiamo aprire gli occhi su ciò che ci circonda e su coloro che vivono accanto a noi”. E’ proprio la dimensione territoriale quella che Bergoglio apprezza nei Movimenti popolari che, anche da papa, ha più volte incontrato: “avere i piedi nel fango e le mani nella carne”, questo egli individua e ammira nella loro esperienza (lo dice nel 2014, a Roma, nel primo incontro con loro da papa). Perché è sulla terra che il popolo costruisce la sua identità: identità che risulta personale, ma in quanto però è condivisa con gli altri; identità che è il contrario dell’identitarismo, che ha confini chiusi, mentre l’identità di un popolo, per Bergoglio, è un’identità aperta, che si costruisce nell’incontro . Terza caratteristica è la storicità: il popolo è un “soggetto storico”; la storia la costruiscono le generazioni che si susseguono nell’ambito del cammino di un popolo. Il popolo, poi, come abbiamo visto, è un’idea mitica, non può essere spiegato solo in maniera logica, contiene un di più di significato che ha bisogno di altri modi di comprensione. Qui Monda accenna alla questione del populismo (su cui tornerà): Bergoglio è populista? No, non lo è, sostiene Monda. In un’intervista a padre Spadaro del 2016 Francesco dice di rifiutare di considerare il popolo una “categoria angelicata”, come se tutto quello che fa il popolo sia buono.
Quinta e penultima caratteristica: per accostarsi al popolo, per capirlo (e rappresentarlo), ci vogliono discernimento e realismo. Discernimento, cioè non la pura razionalità ma quella particolare facoltà (cara a Sant’Ignazio) che consente di leggere dentro l’esperienza concreta senza razionalizzarla ma ascoltando le mozioni interiori dello spirito. Perché è solo da dentro la realtà concreta del popolo, delle “viscere” del popolo, che si può discernere la sua “forza nascosta” (Messaggio alle comunità educative). Per capire un popolo bisogna starci immersi dentro, “accompagnarlo dall’interno” . Come si vede, Dante Monda, nell’illustrare le caratteristiche dell’idea di popolo di Bergoglio, già indica a più riprese anche i consigli che Bergoglio rivolge ai politici per imparare a rapportarsi con il popolo. E il primo, e cruciale, è proprio questo: esserci dentro. E poi realismo, che è frutto della sua convinzione (tratta anch’essa da Guardini) che la realtà è superiore all’idea. Bergoglio, che guarda all’illuminismo come al fumo negli occhi (credo con qualche esagerazione), ritiene che se si parla di popolo con schemi logici si finisce per cadere in un’ideologia di carattere illuminista, oppure anche populista, e non si è più in grado di “rispettare la realtà concreta”. Infine, Monda indica nella concezione di popolo di Bergoglio la nozione di “prassi performativa”, che vuol che, di fronte al popolo, ai suoi bisogni, uno è l’approccio necessario: rifondare incessantemente i legami sociali. Questo dice con forza nel Te Deum a Buenos Aires nel 2000: vi è “la necessità imperativa di convivere per costruire insieme il possibile bene comune”; appartenere a un popolo è un imperativo. Essere cittadini, dirà in un’altra occasione (Noi come cittadini, noi come popolo, discorso del 2010), significa essere chiamati a vivere nella concreta comunità “che ci convoca”; significa essere chiamati per una scelta, quella di appartenere a una società e a un popolo; di lottare per questo. Dunque, l’azione di farsi popolo è una prassi incarnata e comunitaria, la quale, secondo Bergoglio, può giovarsi di alcuni criteri per affrontare le tre principali tensioni dialettiche a cui si va incontro: quella tra pienezza e limite, quella tra idea e realtà, quella tra globale e locale. Dice Monda che Bergoglio non si schiera mai a priori da una parte o dall’altra, ma mantiene sempre aperta la tensione, riconoscendola ma evitando di esserne risucchiato. Si colloca fuori dal conflitto fra le parti (perché – un altro dei suoi criteri di giudizio – l’unità è superiore al conflitto). Ma su questo bisognerebbe andare più a fondo (si pensi, ad esempio, all’attuale posizione di Francesco sul conflitto in Ucraina…)
Il terzo capitolo, che conclude l’itinerario di Dante Monda, ha per titolo “Sfide alla democrazia”. Da quanto detto sin qui sono già chiare le linee generali dell’analisi che Monda fa del pensiero politico di papa Bergoglio. Inizialmente, Monda torna a chiedersi se Borgoglio sia populista, e afferma che no, è popolare, non populista. Intanto, dice, Bergoglio non è un leader politico, il suo popolo non è una realtà omogenea, come è per i populisti, ed è aperto all’integrazione con altri popoli. Poi perché è il farsi prossimo che, per lui, costruisce la dinamica del farsi popolo. A Palermo, nel 2018, ricordando l’uccisione di padre Pino Puglisi, dice che esiste un unico populismo possibile, il populismo cristiano. Rivolto all’uditorio dice: “Senti la vita della tua gente che ha bisogno, ascolta il tuo popolo (…) Questo è l’unico populismo possibile: ascoltare il tuo popolo; l’unico populismo cristiano: sentire e servire il popolo”. E aggiunge che tutto questo lo si deve fare “senza gridare, accusare, suscitare contese”. Inoltre Bergoglio, dice Monda, quando parla di politica ne parla solo per indicare delle linee di orientamento morale, utili ad indirizzare l’agire politico. Ai partecipanti al II Incontro mondiale dei Movimenti popolari (in Bolivia nel 2015) dice: “Vogliamo un cambiamento (…). Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento (…), il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e giustizia che ci aspettiamo (…). In tal senso, non aspettate da questo papa una ricetta”. Del resto, aggiunge, “né il papa né la chiesa hanno il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale, né la proposta di soluzione ai problemi contemporanei”. E ancora: “Oserei dire che non esiste una ricetta”. Né ricette, né risultati da raggiungere nel breve tempo (come i politici populisti promettono). Per Francesco l’impegno politico animato dalla fede evangelica produce effetti che maturano nel tempo: “Non sappiamo – aveva detto nel citato discorso alle Comunità educative argentine – quando le nostre azioni aiutano davvero gli altri”. L’amore cristiano “diventa efficace a lungo termine”.
Perché Monda dice che Bergoglio sfida la democrazia? Lo dice perché, a suo giudizio, la concezione del popolo di Bergoglio, oltre ad essere alla base della sua denuncia delle disuguaglianze sociali, è essa stessa la più grande sfida alla democrazia rappresentativa di oggi. In Bergoglio egli vede una critica generale del sistema democratico, oltre che socio-economico. Cita, ad esempio il discorso di papa Francesco al III Incontro dei Movimenti popolari Roma 2016): “Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri, e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i poveri, mi sembra tante volte – dice – una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema”. Ma “così – conclude Francesco – la democrazia si atrofizza”, “perde rappresentatività, va disincarnandosi, perché lascia fuori il popolo (…) nella costruzione del suo destino”. E’ convinzione di papa Francesco che “il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli”. Nell’analizzare ciò che cospira contro la costruzione di un popolo e che crea un sempre maggiore divario tra i popoli e le attuali forme della democrazia, Francesco non indica solo le responsabilità dei grandi gruppi economici e mediatici, ma anche quelle della cultura contemporanea, della sua visione antropologica. Denuncia, cioè, la “tendenza sempre più accentuata ad esaltare l’individuo”; denuncia “il primato dell’individuo e dei suoi diritti” rispetto “alla dimensione che vede l’uomo come un essere in relazione”; denuncia la dimensione “autoreferenziale” dell’individuo che lo porta ad essere “al di sopra della stessa realtà”, disincarnato. Nel discorso già citato di Palermo nel 2018, rivolto ai giovani, dice: “Voi avete la speranza nelle vostre mani, oggi. Ma vi domando: in questo tempo di crisi, voi avere radici?”. E insiste: “Ognuno risponda nel suo cuore: quali sono le mie radici? (…) Sono un giovane con radici, o sono un giovane sradicato?”. Questa, che è una critica non politica ma culturale e antropologica, he però delle implicazioni politiche forti. Dice Francesco al II Incontro dei Movimenti popolari: vi è “una necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie”. Perché: “E’ impossibile – aggiunge – immaginare un futuro per la società senza la partecipazione delle grandi maggioranze; e questo protagonismo trascende – dice – i procedimenti logici della democrazia formale” (dove “trascende” penso vada inteso con “va oltre” e non già come “sostituisce” o “supera”…).
Perché si sviluppi questa “partecipazione”, considerata indispensabile, questo “protagonismo” senza il quale non c’è un futuro per la società, che cosa ci suggerisce Bergoglio? Nel capitolo V di Fratelli tutti, quello dedicato alla “migliore politica”, egli dice: servono “nuove forme di partecipazione (…) che animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune” (e, come già in precedenza, aggiunge: “e ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore”). Monda riassume con due parole la proposta di Francesco: rappresentanza e prossimità. E, con qualche ardimento, si chiede: se il papa fosse in politica che cosa farebbe? La risposta che si dà è che il papa si impegnerebbe a far ripartire la partecipazione popolare. “Il suo – scrive Monda – è un radicale appello alla democrazia partecipativa” (appello simile, aggiunge, a quello di Sturzo del 1905 Ai liberi e forti), una democrazia “partecipativa e sociale”. Come si realizza, allora, in questa prospettiva, la funzione della rappresentanza? “Governare – diceva già il Bergoglio di Buenos Aires nel citato discorso del 2010 (Noi come cittadini, noi come popolo) – è un’arte”, un’arte che si può imparare; ed è anche una scienza, che si può studiare. Ma, anzitutto, è “un mistero”. Termine, quest’ultimo, che rinvia alla necessità che chi governa sia dotato di capacità di intuizione, di interpretazione, e soprattutto che operi un proprio coinvolgimento esistenziale. “Il governare autentico, e la fonte della sua autorità – disse Bergoglio in quel discorso del 2010 – è un’esperienza fortemente esistenziale. Ogni governante (…) deve essere anzitutto un testimone”. La rappresentatività, per Bergoglio, è “l’attitudine a sapere progressivamente interpretare il popolo”, è “la capacità di assumere la sfida di esprimerne le attese, le sofferenze, la vitalità, l’identità”. Francesco, pertanto, non evoca la democrazia diretta; egli crede nella mediazione, nella rappresentanza, ma dice che è indispensabile la prossimità, che poi significa la solidarietà
Nelle conclusioni della sua indagine, Monda tratteggia un Bergoglio che è, insieme, “radicalmente tradizionalista e radicalmente aperto al nuovo; radicalmente patriota e radicalmente cosmopolita”. Un Bergoglio che vive appieno la dinamica tra realismo e utopia, nella convinzione che entrambi sono parti integranti della realtà storica. L’elemento prezioso dell’approccio di Bergoglio alla politica, sottolinea Monda, è la sua “apertura”, il suo appello agli uomini e alle donne oggi spaesati nella società globale a cercare nuovi modi di pensare e di vivere la democrazia, quella democrazia che è questione antica ma mai esauribile, quella democrazia che per Bergoglio può “farsi” soltanto in una dimensione di popolo, in cui – come ha osservato Andrea Riccardi nella postfazione – le libertà individuali possano maturare in una storia comune e, soprattutto, in un futuro comune.
La visione di Bergoglio sulla crisi attuale della democrazia occidentale apporta, dunque, nuove suggestioni. Il libro di Monda lo dimostra con chiarezza. “Viene da chiedersi – annota Riccardi – se sia possibile che venga proprio da un papa un contributo a pensare in modo rinnovato popolo e democrazia”. Riccardi non dà una risposta. Ma, nel porre esplicitamente l’interrogativo – “Potrebbe essere un’esortazione ai politici e alla politica?” –, egli sembra ritenere che questa esortazione abbia una qualche ragione di essere.
Giampiero Forcesi