In questi giorni si discute sui giornali, in televisione, sulla rete, intorno alle cause che hanno spinto il Regno Unito ad uscire dall’Unione europea. Si costata come il nazionalismo, nel campo europeo, abbia per l’ennesima volta combinato disastri, come nella prima e nella seconda guerra mondiale e stia per insabbiare il progetto dell’Unione (l’assassino, il nazionalismo, torna sempre sul luogo del delitto!). Un progetto istituzionale, quello dell’Unione europea, tra i più innovativi nel corso del XX secolo, che ha fatto fare passi da gigante nel nostro continente alla pace, alla giustizia, ai diritti umani, e, nell’era della globalizzazione, ci ha permesso di competere con le altri grandi aree economiche del pianeta senza soccombere. La domanda delle domande alla fine è questa: come mai grosse frange della popolazione dei vari stati che compongono l’Unione europea ritengono l’ideale europeista un’ideologia fredda, non l’hanno sposata, non l’hanno fatta propria e vorrebbero lasciarsela alle spalle, con una deriva eurofobica preoccupante? Nel mio piccolo, vorrei dare un semplice contributo alla riflessione, mettendo in luce un pezzettino del problema che ritengo decisivo e poco problematizzato.
Negli ultimi decenni alle fratture politiche tradizionali, chiesa –stato, centro- periferia, capitale-lavoro, elite ricca-popolo, comunismo- anticomunismo, se ne è aggiunta un’altra molto pregnante, ed è quella tra chi riesce a collocarsi nella globalizzazione e chi ne rimane tagliato fuori. Questa nuova frattura attraversa tutti i fronti, quello padronale diviso tra imprese che riescono a misurarsi con la globalizzazione (spesso abbassando i salari , impoverendo vasti strati sociali) e quelle che non ce la fanno e devono chiudere; percorre i partiti tradizionali, ed è significativa la polemica tra Renzi e i sindacati che, con tutto il loro immobilismo e le pesanti clientele che li caratterizzano, comunque si stanno facendo carico di chi fa fatica a misurarsi con la globalizzazione; marca il sindacato che spesso tutela i forti e si cura poco di chi è colpito duramente dai processi di mercato. Tuttavia, se apriamo bene gli occhi, ci accorgiamo di come le nostre città, i nostri paesi siano attraversati da questa frattura e come questa stia ridisegnando tutto il contesto sociale. Dietro alla Brexit, ai Cinque stelle, ai vari populismi c’è questo problema, di cui nè l’Unione europea, nè i vari stati europei si sono fatti carico fino in fondo, facendo crescere l’euroscetticismo. Chiediamoci: per l’operaio, l’impiegato esecutivo, il precario che vivranno di salari bassi per tutta la vita (nuova forma di schiavitù), per il disoccupato, per i piccoli imprenditori, gli artigiani, i commercianti che hanno chiuso a causa della globalizzazione, quale può essere la presa dell’ideale europeista?
Come cristiani democratici, comunque, non dobbiamo cambiare rotta, non dobbiamo prestarci a lavorare a fianco di chi non ha posizioni aperturiste nei confronti di un’Europa unita, perché è in certe congiunture che si capisce di che pasta sono fatte le classi dirigenti. Il fronte progressista, se è battagliero, non deve stare con le mani in mano ma proseguire la sua marcia verso un’Europa federale, facendosi carico dei più deboli non in modo attendista, ma spendendosi per far capire loro la grande posta politica in gioco.
Infine, c’è un rilevante lavoro culturale che non va disatteso ed è quello di far crescere, in queste fasce fragili della popolazione l’ideale europeista, avvertiti del fatto che spesso i poveri riempiono la loro vita di televisione, internet, sport, canzonette, lisciate dalla mano interessata dei padroni e dei potenti che li trattano come massa di manovra e sono facile preda del modello consumista. La partita è fare capire come l’Europa sia una risposta ai processi giganteschi legati alla globalizzazione. La classe politica sarà all’altezza della possente sfida? Non è un caso che chi si muove senza problemi nella globalizzazione, nel Regno Unito, abbia votato a favore dell’Unione europea e le persone fragili che faticano ad affrontarla abbiano votato contro. Una buona classe dirigente non può aggirare il problema e non misurarsi seriamente su quanto sta succedendo in Europa, senza scandalizzarsi della febbre antieuropeista serpeggiante nel tessuto sociale che, se non adeguatamente contrastata, potrebbe affossare l’ideale europeista, il grande lascito delle classi riformatrici migliori che ci hanno preceduto.
Molli Mario Giuseppe