di Alberto Guariso
Merita una riflessione il breve dibattito – certo non nuovo – sorto a seguito dell’Italia “interetnica” che ci ha entusiasmato e rappresentato intanto che per 12 volte saliva il tricolore e risuonava l’invito a “stringerci a coorte”. Possiamo prendere spunto dal noto post di Bruno Vespa, secondo il quale essere nere, italiane e campionesse rappresenterebbe un bellissimo esempio di “integrazione vincente”. Cui ha fatto seguito, a fronte delle critiche, il paludamento “di sinistra” del medesimo post, cioè la giustificazione secondo cui, siccome “il mondo è più razzista di quanto si immagini” (testualmente), il riferimento alla integrazione sarebbe giustificato dalla necessità di superare gli atteggiamenti razzisti come quelli che dovettero superare i meridionali arrivati a Milano o Torino negli anni ’50.
La tesi richiama vagamente il dibattito sull’uso del termine “razza” che secondo alcuni andrebbe espunto dal linguaggio e dalla legislazione perché implica il riconoscimento di razze diverse. Secondo altri, andrebbe mantenuto per il suo evidente uso “difensivo” di contrasto al razzismo. Così, anche il noto giornalista pensa che l’esigenza di integrazione nasca dal riconoscimento che taluni (non lui, ovviamente) pensano che talaltri siano portatori di caratteristiche (compreso il colore della pelle) che li rendono meritevoli di emarginazione e stigma o comunque di trattamenti svantaggiosi: dunque chi deve affrontare tali ostacoli deve appunto affrontare un percorso di “integrazione”.
La questione potrebbe essere cestinata in un attimo, solo osservando che, per restare in ambito pallavolistico, anche la mitica schiacciatrice (italiana) Ecaterina Andropova, con i suoi 202 cm di altezza non ha “tratti somatici che rappresentano la maggioranza degli italiani” (per usare le parole usate da un noto generale nei confronti della Egonu), essendo le restanti italiane notoriamente più basse. Eppure nessuno, per lei, ipotizza che ciò possa essere ragione di emarginazione e nessuno si sogna quindi di parlare, per lei, di “integrazione”, riuscita o non riuscita.
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