Il flusso migratorio ininterrotto di persone che cercano di entrare in Europa sta diventando sempre più una pietra pesante di paragone per le politiche, le pratiche, le retoriche e fors’anche le teorie del nostro mondo contemporaneo. Siamo già intervenuti su questo portale con diverse voci, ma forse si può ancora provare a sottolineare alcune dimensioni cruciali del problema.
Non merita più di qualche parola la deriva estremista che su questa vicenda stanno prendendo le destre nostrane, capeggiate dalla Lega, ma inseguite anche dai forzisti come Toti. Siamo arrivati alla follia istituzionale, tecnicamente eversiva, delle dichiarazioni dei presidenti di regioni leghisti contro i sindaci che compiono atti dovuti rispetto alle norme nazionali di redistribuzione dei profughi. Ma l’uso abietto del tema, come sempre succede, è la spia di un problema esistente. Non si può trascurare che gli imprenditori della paura mestano nel torbido, cercando di ampliare i propri consensi, approfittando dello sconcerto e delle preoccupazioni di un ceto medio impoverito e bistrattato dalla crisi, che vede molte cose che non funzionano. Le inefficienze del sistema, le lentezze burocratiche, le insensatezze di norme proclamate e non attuate (come quelle sulle espulsioni), le cooperative disinvolte che lucrano sui fondi, l’impressione di uno spreco di fondi pubblici senza vero aiuto ai soggetti in gioco, i migranti (e infatti poi ci sono i bivacchi in stazione e le fabbriche dismesse occupate precariamente). Insomma, la destra lucra su una politica dell’immigrazione complessivamente ambigua, se non inaccettabile, e con punte francamente disastrose. Che poi la responsabilità di questo stato di cose sia in gran parte degli ultimi governi di destra (e magari delle stesse persone che oggi protestano, vedi Maroni che è stato ministro dell’Interno di questa repubblica, povero smemorato…), non risolve il problema. Nel generale oblio del passato anche prossimo, tutte le vacche sono nere.
E’ ora, quindi, di cambiare verso. Le migrazioni sono un fenomeno enorme, un sottoprodotto della globalizzazione, gravido di complessità e però anche di ricchezza umana ed economica, che va semplicemente gestito meglio. E’ del tutto evidente che la via alternativa a quella attuale non può essere improntata al semplice slogan «niente muri e niente frontiere». Questo è il valore assoluto che dovrebbe essere realizzato, l’obiettivo finale che sta davanti a noi: realismo politico vuole che per arrivarci occorra gestire il problema con gradualità e saggezza. Al momento, aprire le frontiere causerebbe solo una fila di altri problemi. Quindi, in che linea muoversi?
In un primo senso, occorre mettere alla prova l’Europa, facendo però ciascuno il proprio. Non si può piagnucolare con l’Europa e non avere una rete di centri di prima accoglienza decenti. Non si può dire che l’Italia è in prima linea quando ha un tasso di rifugiati politici (sulla popolazione) molto più basso di diversi altri paesi europei (e non diciamo delle punte alte come la Germania o la Svezia). Se si mettesse ordine a casa nostra, rendendo efficienti e corrette le risposte alle domande d’asilo (caso in cui invece si attendono mesi perché le commissioni sono poche e oberate), strutturando meglio la rete di prima accoglienza e i progetti di inserimento dei rifugiati per motivi umanitari, saremmo molto più forti nella discussione con i partner europei. La quale discussione deve continuare, certo: su questo punto ne va dell’esistenza stessa dell’Europa come progetto comune. Se il continente più ricco e prospero del mondo non riesce a integrare alcune centinaia di migliaia di esseri umani in difficoltà che fuggono dalla fame e dalla guerra, redistribuendoli al proprio interno secondo le loro richieste e le affinità esistenti (parentele e «catene migratorie»), che ne può restare del sogno europeo? Raccontatelo ai turchi o ai libanesi, che da soli hanno già numeri più rilevanti di esuli siriani da gestire… Se il continente più civile del mondo discute di affondamento di pescherecci e interventi militari, dopo aver ridotto i fondi per le missioni di salvataggio in mare, ci si può interrogare seriamente sulla sua sensatezza collettiva.
In un secondo senso, bisogna però tornare sui modelli politici e organizzativi che hanno finora gestito il problema migratorio. La distinzione tra rifugiati umanitari e migranti per motivi economici è oggettivamente importante, ma è anche sottile e difficile da utilizzare drasticamente. Spesso una persona non fugge da immediate e concrete persecuzioni, ma le condizioni che lascia sono molto vicine a una vita intollerabile, a una non vita. Quindi non ha senso dire che dobbiamo accogliere i rifugiati e respingere gli altri, che sarebbero solo dei «clandestini» in cerca di lavoro. La battuta di Renzi sui rimpatri che non sono più un tabù è una boutade inutile. Sappiamo infatti che gli stranieri in cerca di lavoro continueranno ad arrivare, al di là di ogni decreto flussi, per la semplice ragione che il mercato del lavoro italiano ed europeo assorbe ancora una loro quota significativa. Altro che «rubano lavoro agli italiani»! Quale figlio delle classi popolari italiane oggi si adatta a lavorare negli allevamenti di maiali, a sudare nelle fonderie, a raccogliere pomodori o mandaranci, ad assistere anziani non più autosufficienti? Nemmeno la crisi economica ha mutato molto lo scenario: sono tornati nel loro paese molti immigrati, ma non quelli dediti ai lavori meno qualificati. Quindi il punto non è rimpatriare i clandestini. Piuttosto, evitare di produrli. La via esisterebbe, suggerita da molti esperti del problema. Occorrerebbe semplificare le procedure per la richiesta di lavoro: invertire l’assurda logica secondo cui entra regolarmente solo chi il lavoro ce l’ha (la foglia di fico che è rimasta indiscussa, nonostante sia palesemente contraria alla realtà e per questo abbia dovuto essere aggirata da molteplici interventi d’emergenza). Dare un permesso provvisorio, a tempo, per ricerca di lavoro, magari connesso come qualcuno ha suggerito alla funzione di uno sponsor (italiano o immigrato regolare) che si impegna a contribuire al costo del rimpatrio in caso di fallimento. Anche in questo caso, le catene migratorie sono risorse da utilizzare positivamente. Si libererebbero anche i mari dagli scafisti, oltre che risorse per fare magari meglio altre cose fondamentali, che gli apparati di sicurezza dovrebbero fare: ad esempio, vigilare sul rispetto delle normative sul lavoro, impedire le forme di sfruttamento e schiavitù, organizzare una politica di alloggi popolari più sensata… E chi più ne ha più ne metta. Ancora una volta, naturalmente, per funzionare seriamente, dovrebbe trattarsi di una svolta europea, o almeno di un gruppo forte di paesi europei convinti e convergenti. Siamo davvero al banco di prova di un futuro sostenibile, e almeno un poco più equo: cominciamo a discuterne?
Guido Formigoni
30 Giugno 2015 at 22:14
Completamente d’accordo. Per cominciare si potrebbero finalmente favorire i ricongiungimenti famigliari e
parentali, sollevando così le casse pubbliche dal mantenimento di parte degli immigrati e sfoltendo i centri di accoglienza. Certamente occorre un accordo europeo, ma di questo tema non parla mai nessuno
2 Luglio 2015 at 14:33
Aggiungo alcune piccole cose all’utile e articolata riflessione di Formigoni. Al di là delle buone o meno buone intenzioni, l’accoglienza di rifugiati e immigrati è vista come un probabile danno d’immagine (oltre che un costo) dai Governi, perchè purtroppo le voci contrarie – vuoi per paura, vuoi per obiettivi disagi, vuoi per vero e proprio razzismo – sono alte e forti (anche se forse non così maggioritarie; o, almeno, è questo che spero da un paese di emigranti e di rifugiati politici…). Occorre “stanare” forze politiche e istituzioni “contrarie” (come alcune Regioni del nord) rispetto ai doveri di responsabilità e trovare una via di condivisione nella responsabilità a cui tutti si è chiamati. Capisco che ciò significa probabilmente offrire meno di quello che sarebbe dovere morale offrire, ma si eviterebbe questo ignobile gioco al massacro – ovvero a chi rimane col cerino acceso – sulla pelle di gente disperata. Poi è chiaro che se la condivisione non si trova, un Governo deve fare lo stesso ciò che è giusto ed etico anche se “impopolare”. La seconda cosa che volevo dire è l’apprezzamento per le posizioni in senso solidale assunte dal Papa, dalla Conferenza episcopale francese (un intervento quasi inedito: che sia lo spirito dell’Abbé Pierre?) e da quella ligure. Non so se è l’effetto Papa Francesco o altro, ma quando le questioni diventano così gravi e urgenti non si può essere diplomatici e ambigui: la chiesa sta dalla parte di chi ha bisogno; poi certamente occorrono politiche, organizzazione, strategie nazionali ed europee e così via ma in certi frangenti le cose vanno dette (e fatte)con la necessaria chiarezza anche se ciò dispiace a molti benpensanti. Un ultimo punto, un po’ laterale all’urgenza di questi giorni: è vero, come dice Formigoni, che gli stranieri ancora oggi occupano posti di lavoro che gli italiani probabilmente non vorrebbero e quindi non ha senso la polemica sul “rubare il lavoro”. Ma prima o poi dovremo abituarci – almeno, finora nella storia è successo così – al fatto di avere il/la professore/professoressa, il/la dirigente, l’impiegato/a, il/lacaporeparto o il medico (qualcuno c’è già) straniero/a o figlio/a di immigrati. Magari di pelle scura, di religione non cristiana, con gli occhi a mandorla… Non è questione di rubare il lavoro, è il mondo che va avanti così; del resto, se così non fosse i nostri giovani italiani non potrebbero far carriera all’estero!