Cattolicesimo democratico e referendum costituzionale: quale connessione?

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L’autore è professore di Diritto costituzionale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha scritto saggi di diritto pubblico, amministrativo, comparato e di storia costituzionale. Amico e collaboratore di Giuseppe Lazzati alla Cattolica, e vicino a Giuseppe Dossetti negli anni delle battaglie per la ‘difesa attiva’ della Costituzione (1994–1996), è membro della redazione di “Appunti di cultura e politica”, rivista pubblicata a cura di “Città dell’uomo”.

 

Giovanni Cominelli* mi chiama in causa su Movimenti Metropolitani nel suo commento “Valerio Onida: la Costituzione non è il Corano!” per annoverarmi tra i costituzionalisti del NO, con la precisazione che sarei, con Onida appunto, De Siervo e altri innominati, la punta di lancia del costituzionalismo cattolico, ovviamente ultraconservatore dello status quo istituzionale e nostalgico dei bei tempi andati che, in sequela dell’insegnamento di Mortati e Dossetti, elevavano sugli altari la costituzione materiale e il sistema dei partiti della prima, e unica, Repubblica.

Non è così.

Quanto all’affiliazione nel campo dei costituzionalisti del NO, questa non corrisponde al vero perché – come è facilmente riscontrabile – il mio nome non compare tra i 56 che hanno firmato il documento originale. Ciò è avvenuto, da parte mia, non per distrazione o dimenticanza. Insieme ad Umberto Allegretti abbiamo reso pubblico, fin dal maggio scorso, un documento facilmente riscontrabile sul web, pubblicato dall’Associazione costituzionalisti italiani, da Astrid e da altri, che era chiaro fin dal titolo: “Perché non ci schieriamo aprioristicamente per il SI’ o per il NO”.

Anche Umberto è, come me, un cattolico democratico, di sinistra (se si può ancora dire per coloro che perseguono l’uguaglianza in senso sostanziale), innamorato dei valori e dei princìpi scritti nella Parte Prima della Costituzione (artt. 1-54), ma, come un nostro ideale maestro, Dossetti, non rifiutiamo affatto di aggiornare e modernizzare la Parte Seconda, quella relativa all’ordinamento della Repubblica, che, ovviamente, deve stare al passo dei tempi ed accogliere in modo pro-attivo quanto di meglio il dibattito costituzionale europeo ed occidentale e la prassi mettono in campo.

Così, per essere concreti, nessuno di noi (e penso di poter aggiungere ai nomi prima citati: Zagrebelsky, Casavola, Flick, Cheli, Zaccaria… ed altri ancora) si oppone a:

  1. Eliminazione del bicameralismo perfetto e paritario.
  2. Fiducia data e revocata dalla sola Camera dei deputati.
  3. Diminuzione del numero dei parlamentari (ma, sul punto, non è un dogma il mantenimento degli attuali 630 deputati).
  4. “Data certa” a favore di iniziative legislative qualificate del Governo, a fronte di una sperabile diminuzione del numero e della eterogeneità dei decreti-legge.
  5. Rilancio della partecipazione popolare attraverso l’abbassamento del quorum di validità per i referendum abrogativi (ma perché limitarlo alla raccolta di più di 800.000 firme?) ed introduzione dei referendum propositivi e di indirizzo, nonché l’iniziativa legislativa popolare rinforzata.
  6. Introduzione del principio di efficienza ed efficacia, nonché dei costi standard e dei fabbisogni nel controllo dell’attività amministrativa, specialmente di Regioni e Comuni.
  7. Controllo preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali.

Non mi sembrano cose ovvie e potrei proseguire con ulteriori elementi positivi, dei quali non faccio fatica a dare atto al procedimento Renzi-Boschi, il quale raccoglie su tali punti molte proposte consolidate in giurisprudenza, dottrina e prassi.

Ma – mi si obietterà – se le cose stanno così e quelli indicati non sono solo dettagli, dove sono gli errori che impediscono di entrare toto corde sul terreno del Sì?

Per rispondere a questa domanda, mi rifarò ad un sentiment che i miei interlocutori potranno agevolmente annoverare tra i retaggi cattolico-ultramontani, anche se si appoggia su testimoni rigorosamente laici.

Afferma Rousseau, nelle Considerazioni sul Governo della Polonia (1782) che “è contro la natura del corpo politico di imporsi delle leggi che non possa revocare, ma non è né contro la natura né contro la ragione che non possa revocare quelle leggi se non con la stessa solemnité che ha impiegato per stabilirle”.

Riprende Ruini, nel momento solenne nel quale presenta in Assemblea costituente la sua Relazione generale (febbraio 1947), citando Stendhal, che nell’“avvicinarsi ad una costituzione si prova quasi un senso religioso”.

In estrema sintesi, l’allontanamento dal sentiment costituzionale è rinvenibile non solo nel procedimento legislativo adottato, che, pur legittimo, non ha saputo elevarsi al tono che sarebbe stato necessario, ma specificamente per almeno tre tra le principali proposte:

  1. Quelle relative alla struttura e alle funzioni del nuovo Senato, che non brillano certamente per organicità, chiarezza e coerenza interna, compreso il pasticciato sistema elettorale connesso;
  2. Quelle che si traducono in un livellamento verso il basso delle Regioni (solo quelle ordinarie, perché?), degradandole a grossi coacervi di Comuni e di ex Province, facendo di loro degli enti di amministrazione locale sottoposti a ferree regole di direzione centralista e a controlli attivabili tutte le volte che un prefetto o un ministero ritengano di rinvenire un “interesse nazionale”, essendo la residua potestà legislativa delle Regioni sottoposta all’attivazione di tale clausola da parte del Parlamento, ma su proposta del Governo.
  3. Quelle che, in forza del famigerato e pluricitato “combinato disposto” con l’attuale legge elettorale, assegnano al vincitore di un’elezione dotata di un largo premio maggioritario una posizione di dominus del sistema politico, anche se non viene modificato l’attuale art. 95 (come invece faceva la proposta Berlusconi-Bossi): di ciò posso dare volentieri atto a Matteo Renzi.

Nelle tre proposizioni che adesso ho dovuto sbrigativamente sunteggiare, e che richiederebbero certamente un approfondimento specifico che non posso fare in questa sede, è ravvisabile, a mio avviso, un netto scostamento tra i valori e i principi riconosciuti e garantiti nella Parte Prima – personalismo comunitario, eguaglianza sostanziale, pluralismo istituzionale e sociale – e le realizzazioni che adesso si preparano per la nuova Parte Seconda. Insomma: più decisionismo e meno mediazioni. Detto così suona rozzo e volgare, e sarà necessario articolare meglio questa riflessione critica.

Circa vent’anni fa, su impulso di due stimati comunisti non dogmatici e veri riformisti, Riccardo Terzi e Roberto Vitali, formammo, con Valerio Onida, Franco Monaco e altri, un gruppo di lavoro che produsse un documento riformatore volto al miglioramento dell’assetto costituzionale, nella sua Seconda Parte, senza dimenticare però la correlazione necessaria con la Parte Prima.  Noi cattolici eravamo consapevoli e fieri di proseguire l’insegnamento di Mortati e di Dossetti. Quest’ultimo, nello straordinario discorso rivolto agli universitari di Parma (26 aprile 1995), quello in cui evoca l’habermassiano “patriottismo costituzionale”, conclude così:

“Non lasciatevi influenzare da seduttori fin troppo palesemente interessati, non a cambiare la Costituzione, ma a rifiutare ogni regola. (…) Perché se mai, è proprio nei momenti di confusione o di transizione indistinta che le costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè quella di essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento.

Cercate quindi di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principi fondanti, e quindi di farvela amica e compagna di strada.

Essa, con le revisioni possibili ed opportune, può garantirvi effettivamente tutti i diritti e tutte le libertà a cui potete ragionevolmente aspirare; vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento, per qualunque cammino vogliate procedere e per qualunque meta vi prefissiate”.

Dossetti affermava allora, e ripeto io oggi, che possono esserci davanti a noi “revisioni possibili ed opportune”. Nessuna imbalsamazione coranica, dunque, nessuna nostalgia per un passato partitocratico che con i suoi errori, anche sul piano istituzionale, è ormai alle nostre spalle.

Fiducia invece in un modo nuovo di svolgere ragionamenti, elaborare testi, cercare accordi e trovare intese, senza dogmatismi e fanatismi, ma sforzandosi di fare le cose per bene: come va fatta quella cosa, un po’ speciale, che si chiama Costituzione.

 

Enzo Balboni

 

*Giovanni Cominelli è stato responsabile scuola di Pci,Pds,Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Collabora con l’Eco di Bergamo e sussidiario.net

 

One Comment

  1. Caro Balboni , con Cominelli deve avere pazienza. Non entro nel merito del Si o del NO, Ho maturato da tempo una mia opinione. Con questo commento voglio solo sottolineare l’eleganza e la sobrietà delle sue parole in risposta all’articolo avventato e polemico di Giovanni Cominelli , al solito astioso contro quel cattolicesimo democratico che conosce solo sui libri, e contro quei cattolici democratici che ne rappresentano gli epigoni, secondo lui… “ultraconservatori”. Cominelli non è nuovo alla difesa indiscutibile della governabilità : è un suo costante cruccio. Pochi riguardi invece alla rappresentatività, sempre demonizzata e confusa nelle sue frettolose divagazioni chiamando erroneamente a difesa Mortati, Dossetti e Ruffilli. Ma il linguaggio dogmatico che usa ricorda quello del centralismo democratico del Pci, in cui si è formato, che lasciava pochi spazi al dissenso e allo stesso partito politico, soprammobile silenzioso nelle mani del leader come lo voleva Togliatti. Insomma una cultura politica nel sottofondo autoritaria che lo ha spinto nel recente passato a suggerire addirittura il commissariamento di tutto il Sud Italia, perché corrotto e perché incapace di autogoverno. Grazie per aver fatto leggere una pacata e serena risposta che per contenuti e stile, merita di essere ricordata.

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