Giuseppe Dossetti
Gli equivoci del cattolicesimo politico
Il Mulino 2015
di Giampiero Forcesi
Per non pochi, tra coloro che si affacciano sulle pagine di questo sito, Giuseppe Dossetti rappresenta un riferimento molto speciale. Visse con particolare intensità sia l’esigenza sia la difficoltà di tenere assieme fede e impegno politico. Affascina di lui l’aver cercato sempre la radicalità delle scelte che si apprestava a compiere. Il bisogno di coerenza, di limpidezza. La ricerca incessante di essenzialità, di andare al fondo delle cose. E poi, certo, la sua biografia attraversa momenti cruciali della nostra storia, dagli anni del fascismo a quelli del ventennio berlusconiano, e, in modo particolarissimo, le vicende più vitali del cattolicesimo italiano, tanto sul piano ecclesiale che su quello civile e politico. Per molti di questi momenti e di queste vicende Dossetti ha avuto, talora quasi casualmente, senza che lo cercasse, un ruolo da protagonista. Per lo più scomodo, ma protagonista. Un protagonista sempre molto netto. Ma anche un protagonista che è sempre uscito di scena dopo un tempo breve, a testimoniare, si direbbe, sia la difficoltà intrinseca di portare a compimento con piena coerenza un dato impegno sia l’inesausta ricerca di una via più fedele all’impegno che per un credente è il più decisivo.
Per questo, quando esce un libro su di lui, o, più ancora, un libro che raccoglie testi scritti di suo pugno, la curiosità, l’interesse, sono forti. A distanza di quasi vent’anni dalla sua morte (1996) ancora emergono suoi scritti inediti. Come è noto, lui non ha scritto libri, e neppure ha curato personalmente la pubblicazione dei suoi molteplici discorsi. Altri, lungo gli anni, hanno via via messo insieme alcuni dei suoi interventi, delle conferenze, delle lettere, e qua e là pubblicato libri che lo vedono come autore. Questi libri ormai sono molti, arricchiti anche da numerosi profili biografici e da saggi che ricostruiscono il suo pensiero e le sue vicende. L’ultimo si intitola Gli equivoci del cattolicesimo politico, edito dal Mulino lo scorso gennaio. Abbiamo segnalato su questo sito la recensione che ne ha fatto Agostino Giovagnoli su Avvenire (Dossetti. Dove sono i politici cristiani?). Di recente, sempre su questo sito, abbiamo recensito lo scambio epistolare da lui avuto per decenni con Divo Barsotti (La necessità urgente di parlare) e l’edizione critica di un suo celebre discorso del 1951 ai giuristi cattolici (“Non abbiate para dello Stato!”). Ma altri sono destinati, probabilmente, ad emergere dagli archivi custoditi presso la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna (da lui stesso fondato nel 1953 e ora diretto da Alberto Melloni) e presso la Piccola Famiglia dell’Annunziata a Monte Sole (anch’essa da lui fondata pochi anni più tardi, e poi guidata fino alla morte).
“Gli equivoci del cattolicesimo politico” è un libro di 250 pagine, costruito attorno alla relazione che Dossetti tenne nell’aprile del 1962 a Villa Cagnola, a Gazzada, nella diocesi di Milano, su invito di don Carlo Colombo che era allora il teologo di fiducia dell’arcivescovo di Milano, Giovan Battista Montini, e che aveva condiviso negli anni Quaranta e fino ai primi anni Cinquanta alcuni dei percorsi intrapresi da Dossetti a Milano. La relazione si inseriva nell’ambito di un convegno dedicato a “I rapporti tra Chiesa e Stato”, di cui erano relatori anche Orio Giacchi e Gabrio Lombardi, e aveva per tema “La visione religiosa e teologica dei rapporti tra Chiesa e Stato”. Sebbene si parlasse di “rapporti tra Chiesa e Stato”, il convegno si collocava in un frangente nel quale l’attenzione era rivolta in particolare ai rapporti tra cattolici e politica. Si era infatti all’epoca dell’apertura a sinistra da parte della Democrazia cristiana, una scelta vista inizialmente con qualche timore anche da Montini. Il testo della relazione di Dossetti è preceduto da un ampio saggio di Alessandro Barca, membro della Piccola Famiglia dell’Annunziata, che con accuratezza di riferimenti illumina la genesi del discorso di Dossetti e dunque il contesto politico-ecclesiale in cui si colloca. Ed è seguito sia da un altro discorso inedito di Dossetti, più breve e di qualche anno addietro (1957), tenuto alla Tre giorni diocesana dei dirigenti della GIAC (la Gioventù italiana di Azione cattolica) di Bologna, su “Cattolicesimo e laicismo nel mondo culturale e politico italiano”, e da un carteggio Dossetti-Colombo in preparazione del convegno, sia due saggi che ulteriormente aiutano a contestualizzare ma anche ad attualizzare la riflessione di Dossetti: il primo dello storico Paolo Pombeni, il secondo del teologo Fabrizio Mandreoli, entrambi ottimi conoscitori delle vicende dossettiane.
Non tento qui, anch’io, né una introduzione né una sintesi della relazione di Dossetti (che prende oltre 80 pagine del libro, circa un terzo). Mi limito a scorrerla sottolineando alcuni dei punti che mi hanno più colpito.
Intanto quello stile tipico di lui, in non poche occasioni: quel prendere la parola un po’ sotto tono, confidando di essere stato in qualche modo trascinato a parlare e di sentirsi ormai lontano dagli argomenti proposti, e dicendo di non saperne abbastanza, di non poter dire che qualcosa di molto semplice… (“Sono venuto qui per obbedienza (…) non sentivo nessun bisogno di parlarne e di pensarne (…) ci sono stato costretto”). Ma anche quel sapere, e far capire, che le cose che dirà (e che dirà “come un uomo che, in un certo senso, oramai, è fuori dal mondo”, “un uomo che non è monaco, ma che aspira in qualche modo ad esserlo”) non saranno indolori, non saranno facilmente accettate. Anche perché lui, prete da poco più di tre anni, sente di poter parlare con “una totale indipendenza interiore”. Dice infatti di sé che, se prima “era laico e perciò anticlericale; poi, diventato prete, è diventato, in un certo senso, ancora più anticlericale”.
Dossetti, poi, è spesso assai spiazzante. Non interviene per offrire una riflessione colta su un dato problema, ma per mettere in discussione qualcosa che è per lo più accettata da tutti, per aprire un varco, un passaggio nuovo rispetto al pensiero corrente. Qui ad esempio, fin dall’inizio, non solo e non tanto avanza una critica al clericalismo della chiesa e del mondo cattolico, ma quel che colpisce è che, subito dopo averlo fatto, critica anche e soprattutto “un certo tipo di laicismo”, di cui dice che hanno subito il contagio anche i cattolici più avvertiti, intendendo coloro che, sulle orme di Jacques Maritain, hanno portato avanti proprio la critica al clericalismo. Dossetti marca, dunque, la sua distanza da Maritain, dal cattolicesimo maritainiano. Non si tratta, dice, di tornate indietro; cioè si deve dare per acquisita la giusta critica di Maritain alla concezione di una cristianità sacrale. Però dall’impostazione del pensatore francese, di fatto, sta venendo fuori – nota Dossetti – “una forma di dissociazione ‘laicizzante’ della concezione unitaria della vita che il cristiano deve avere”. Come pure ne deriva “un inserzionismo oltranzista”, cioè – spiega – “un’accentuazione del compito del laico e del cristiano come destinato a operare nelle strutture, che potrebbe reintrodurre per strade impreviste una certa nuova modalità del temporalismo, ed inevitabilmente di un nuovo clericalismo”. Fin da queste prime pagine Dossetti, in sostanza, dice che nel cattolicesimo che potremmo dire progressista dei primi anni ’60, quello che politicamente si esprime nella apertura a sinistra della Dc e che ecclesialmente prepara il Concilio ormai prossimo, egli vede la perdita di una concezione unitaria della vita, cioè di una concezione autenticamente cristiana; vede l’infiltrazione di “un certo tipo di laicismo”, e insieme di un nuovo temporalismo, di una troppa forte fiducia nella politica, quasi che lì si giochi il senso cristiano della vita.
Poi Dosseti tralascia le sue annotazioni critiche al pensiero di Maritain, che riprenderà più avanti, e sviluppa il suo discorso ripercorrendo alcuni aspetti della dottrina cattolica dello Stato (con una felice intuizione sulla necessità di andare oltre il tema del rapporto Chiesa-Stato: “Ora – dice – ci avviamo verso un momento in cui l’interlocutore della chiesa è semplicemente l’umanità”). Fa cenno alle “illusioni” riposte dalla chiesa negli strumenti giuridici, quali il Concordato (“molte volte l’aver raggiunto questi strumenti è stata ragione di pigrizia (… ci è sembrato che si fosse raggiunto tutto e che non ci fosse più niente da fare”). Dice che non sono gli strumenti giuridici che possono consentire di capire e affrontare la trasformazione della società. Ma soprattutto coglie un aspetto cruciale del ritardo della chiesa nel capire il suo tempo (ritardo che il Concilio Vaticano II cercherà con forza di superare): la chiesa si pensa ancora nei termini di una cristianità “limitata all’Occidente”, e si pensa ancora come una realtà di maggioranza in un mondo in cui, invece, i cattolici sono ormai nettamente una minoranza. Egli suggerisce di cominciare ad “entrare nelle scarpe e nei vestiti di coloro che devono vivere il cattolicesimo di infima minoranza”. Di grande interesse è anche la considerazione di Dossetti che la critica che i vescovi italiani muovono allo Stato e alla classe politica per la perdita dei valori sia un errore, anzi un albi: “la classe politica italiana, grosso modo, è l’espressione della cattolicità italiana”, dice Dossetti; e i suoi limiti sono “il riflesso di una non sufficiente completa omogeneità sintetica di valori nella coscienza stessa dei nostri pastori”. Quindi, insiste, “andiamo adagio nel dissociarci, nel vederci come due cose: tu e io. Siamo tutti una sola cosa, in sostanza”. Dossetti, poi, approfondisce ancora di più il discorso: sostiene che la chiesa italiana sembra ridursi “all’anticamera del Vaticano”, invece di affiancare e aiutare il papa ad avere un’attenzione alla chiesa universale e ai problemi dell’umanità tutta, con la conseguenza, inevitabile, di un rincrudirsi e un espandersi “di un’ondata di anticlericalismo in Italia”. Giustificata, sembra dire Dossetti.
Ma è alla “ambiguità” delle categorie maritainiane che egli torna. Qui sta il cuore di quel che egli intende dire nel suo lungo discorso. Ci dobbiamo rendere conto, dice, che siamo veramente di fronte a una situazione che chiama, “proprio con le sue esigenze brucianti, ad introdurre una metodologia nuova sia nella ricerca dottrinale sia negli atteggiamenti pratici”. Si tratta, appunto, di andare oltre Maritain, oltre cioè uno dei riferimenti più rilevanti, e diremmo “progressisti”, della cultura cattolica del dopoguerra. “Adesso – dice – viene il pasticcio più grosso”. Dossetti è consapevole di dire qualcosa che dispiacerà (“Adesso mi perdonerete. Devo proprio chiedere scusa a sua Eccellenza …”, c’era un vescovo tra gli uditori). La dottrina maritainiana, da Umanesimo integrale (1936) ad oggi, egli dice, è ambigua e va superata, lasciata alle spalle. Non si tratta, no, di tornare indietro, tornare a prima. Ma di convincerci che è una dottrina che porta confusione, che rischia di creare dissociazioni nel pensiero e nella vita dei cristiani, e di produrre “scorie”. Dossetti dice questo spinto dal desiderio di vedere “un volto più luminoso della Chiesa del Signore”.
Al centro della dottrina di Maritain, e di Charles Journet, c’è la distinzione tra una concezione sacrale della civiltà cristiana e una concezione profana di essa, e c’è l’istanza di superamento della prima con la seconda. Dossetti obietta che una civilizzazione cristiana non può essere secolare. “Per me – dice – la ‘cristianità’, posto che ci possa essere, non può essere che ‘sacrale’”. Posto che ci possa essere … Questo inciso è molto importante; ma Dossetti non lo sviluppa. Tiene a insistere sul fatto che il concetto di sacralità è “coessenziale al cristianesimo”. Non la sacralità intesa come “impiego della forza per la conversione e della negazione del pluralismo”, come era nella civiltà sacrale medievale. Ma neppure una sacralità che investa soltanto l’interiorità dell’uomo, perché essa deve investire “anche tutte le sue espressioni”. “Scusate se io mi fermerò alla Liturgia – dice Dossetti – ma questo mi sta a cuore più che le formule maritainiane”. E qui c’è un’anticipazione di quello che sarà uno dei contributi essenziali del card. Lercaro al Concilio, e del Concilio stesso alla chiesa, alla sua coscienza di sé. Sarà proprio Lercaro, con il sostegno di Dossetti, che in Concilio porterà la sua profonda esperienza liturgica e una nitida ed essenziale concezione di chiesa come assemblea eucaristica riunita attorno alla Parola di Dio, libera da incrostazioni culturali improprie e da collusioni politiche, e sarà la Costituzione sulla Liturgia ad aprile il cammino del rinnovamento conciliare. Dossetti fa riferimento all’arcivescovo di Bologna e alla sua costante sottolineatura della centralità della liturgia; e ricorda alcune sue parole sul Rituale delle benedizioni, cioè sulla continua presenza di Dio in tutte le manifestazioni della vita dell’uomo. E’ su questo che Dossetti poggia la sua convinzione della “sacralità totale del cristianesimo”. Una sacralità che non può non investire tutto quello che il cristiano tocca, perché “tutto quello che lui tocca, se lo tocca con fede, con una religiosità autentica, intima e proporzionata alla carità nei confronti degli altri, non può non avere anche una necessaria espressione visibile”.
Insomma, dice Dossetti, il clericalismo deve essere superato, ma non operando delle separazioni, non distinguendo tra sacro e secolare, bensì attraverso un approfondimento del senso religioso, attraverso “un’autentica e intensa sacralità”. Quando il cristiano fa posto dentro di sé a una religiosità profonda, poi allora trova “la misura giusta” nel comportamento con gli altri (Dossetti porta qui l’esempio del cardinale Dalla Costa). “Non mi sono mai posto il problema del nome di Dio nella Costituzione italiana – dice Dossetti, però ritengo fuori discussione che ci debba essere il nome di Gesù su tutte le cose”. “Naturalmente poi io questo nome – aggiunge -, proprio per l’esigenza intima di adorazione e di rispetto verso di esso, saprò come fare ad amministrarlo, per così dire; e in certi casi anzi forse non lo pronunzierò nemmeno”. E qui, potremmo dire, c’è forse un elemento di sviluppo di quel suo cenno, che prima abbiamo ricordato, al fatto che non è detto che una civiltà cristiana ci debba essere… Dice, infatti, più avanti, che il cristiano può operare “solo con l’esemplarità della sua vita”. “Questa è la via normale, fondamentale, attraverso la quale si trasmette il messaggio, l’annunzio, e si inducono gli altri ad accoglierlo con docilità”.
Ci sono poi altre pagine intense, a partire da una seconda ambiguità della dottrina maritainiana, quella sul concetto di “fine infravalente”, e cioè sull’esigenza che il filosofo francese ha posto di distinguere tra ordine naturale e ordine sovrannaturale. Anche qui la critica di Dossetti a Maritain si muove tra il riconoscimento dell’importante passo avanti compiuto dal filosofo francese nel combattere una concezione strumentale dell’ordine naturale, che non rispetta la libertà e l’autonomia della persona e della società, e il rifiuto di una concezione che assegna un fine proprio, autonomo, alla società, allo Stato stesso. La società cosiddetta naturale o temporale, dice Dossetti, è attraversata dal mysterium iniquitatis, ha continuamente bisogno di sanazione, di una unificazione “non con la Chiesa, ma con l’ordine reale, unico, che esiste e nel quale la Chiesa è incastrata”. Dossetti poggia queste sue affermazioni su numerosi passi biblici e, più in generale, sull’Epistola agli Ebrei e sulla sua teologia dell’unica città. “E’ vero – dice – che non siamo ancora nella Patria, ma è anche vero che la Patria in una certa misura, in un certo ordine reale, è già anticipata”. E, dunque, c’è qui “un’altra unità”, che va ristabilita, “non in una misura forzata”, non con “un messianismo terreno”, ma bensì “con un rispetto della realtà delle cose”. Rispetto, dunque, dice Dossetti, ma anche, “in un certo senso fondamentale, rettamente inteso”, “l’intolleranza del cristianesimo”. Passaggio, questo, particolarmente insidioso. “Il mondo – osserva Dossetti – può essere salvato solo in quanto rinunzia a sé, in quanto cessa di essere mondo”. Si tratta di “aut aut assoluto e irriducibile”: o il mondo cessa di essere mondo, abdicando alla propria autosufficienza, o altrimenti è condannato. La salvezza non è data che nel riconoscimento del nome del Signore. “Questa è la novità del cristianesimo – insiste Dossetti -, questa è la sua intolleranza irrinunziabile”. Ma da questo non deriva un’imposizione sul mondo da parte dei cristiani. Dalla bibbia si evince, dice Dossetti, che il Signore non ha inteso organizzare intorno al suo nome la sfera della società temporale. Non ha preparato i suoi discepoli ad assumere il comando della cosa pubblica, li ha preparati ad essere perseguitati per il suo nome.
Dossetti, qui, non vuole tanto criticare la dimensione politica, l’impegno politico dei cristiani, anzi offre una interpretazione insolita del “Date a Cesare quel che è di Cesare” di Mt 22. “Cesare”, osserva, non va necessariamente identificato con lo Stato, con il potere politico, ma piuttosto con un disvalore (riferisce che secondo alcuni padri il “rendete a Cesare quel che è di Cesare” va inteso come “Date indietro a lui le cose che sono brutte”). Il Cesare in questione, annota Dossetti, ha qualcosa in comune con Mammona. “Il nostro rapporto con Cesare – dice allora – diventa più o meno pesante, più o meno condizionante, nella misura in cui noi siamo più o meno profondamente radicati nelle cose mondane”. Quel che Dossetti intende fare è relativizzare la dimensione temporale. Il mondo – dice – ha, sì, una sua consistenza, se vogliamo una sua autonomia, che noi, da cristiani, dobbiamo apprezzare; ma dobbiamo farlo con un certo “relativismo bonariamente critico”. Più siamo legati alle cose del tempo, più le cose del tempo diventano pesanti e condizionanti. Meno ci leghiamo alle cose del tempo – “e rimaniamo più capaci di ridurre i nostri bisogni, di fare a meno di tante cose, di crederci meno, di occuparcene meno, di darci meno pena, per concentrarci in altre cose” -, più si riduce lo spessore del mondano. Certo, in questo mondano da cui egli spinge a prendere le distanza quanto più è possibile, c’è anche lo Stato, di cui Dossetti dice che è una “realtà consistentissima per gli uomini, per così dire, temporalizzati”, ma “assai meno consistente per chi sa un pochino, pianino pianino, vivere un tantino, anche per una frazione di secondo al giorno, fuori del tempo, nella grazia e nella luce di Dio” (dove i diminutivi sembrano velati di una bonaria ironia).
Così Dossetti arriva alla sua conclusione. “Tutto quello che io sto dicendo non è una dissoluzione dell’ordine giuridico e dei rapporti, una specie di pneumatismo indifferenziato”. Non potrebbe essere così, dice Dossetti, visto il mio passato di studioso del diritto (e di politico, si può aggiungere). Il punto, per lui, è che “è giunta forse l’ora, una delle tante ore della storia del mondo e della Chiesa, in cui noi dobbiamo attribuire più peso ad una intrinseca religiosità, che ha la forza creativa della fede”. Questo significa, da una parte, continuare a fronteggiare le situazioni della storia come la Chiesa ci chiede di fare: “se vuole che noi facciamo la Democrazia cristiana, faremo la Democrazia cristiana”, dice; e aggiunge: “l’abbiamo fatta, in fondo per pura obbedienza”, ma anche “con una certa convinzione, con un certo slancio”. E se ci dice che “bisogna fare un concordato, faremo un concordato”, oppure l’articolo 7. D’altra parte, però, “è l’ora di una crescita nella religiosità intima”. Si debbono affrontare le situazioni “in due direzioni”: gli strumenti del diritto e della politica, e un aggiornamento attraverso la fede. Le sue ultime parole sono, semplicemente, che la “garanzia fondamentale” va cercata “in un modo sempre più religioso di vedere i problemi”.
Giampiero Forcesi
16 Febbraio 2015 at 14:46
Sono d’origine Libanese. Ho conosciuto il Padre (don Giuseppe Dossetti) per pura grazia a Gerusalemme nella primavera del 1985 all’eta’ di 17 anni e 4 mesi. A giugno dello stesso anno ho deciso di vivere nella sua famiglia monastica presso il nucleo di Main in Giordania dove ho passato 2 anni di formazione da lui proiettata nei particolari. Poi mi ha fatto venire a MonteSole nell’estate del 1987 dove ho vissuto 3 anni (Ora et Labora-Studio). Poi mi fece venire in Terra Santa dove rimasi fino alla Pasqua del 1991 quando mi chiese a sorpresa di dover tornare a vivere con i miei e proseguire la vita come tutti e così e’ stato. Solo da qualche anno ho capito il perché’ di questa sua decisione: ora sono padre di famiglia con 2 ragazzine. Ringrazio don Giuseppe perché’ e’ stato un maestro di Vita in tutto e ora e’ una guida sicura nella sua dolce radicalita’ nella Verita’. Ora vivo da 4 anni in Libano nonostante gli avvenimenti causati dal mistero dell’iniquita’ che viene continuamente annientato dal mistero Pasquale del Signore Gesu’ che i cristiani continuano a celebrare con fede in questo oriente. Amen