Se dio vuole, ci siamo messi dietro le spalle il referendum costituzionale che ha diviso il paese, il centrosinistra, il PD, le famiglie. E anche il mondo cattolico. Per un verso, lo si può considerare normale: è nella natura duale del referendum ed è giusto che da una comune ispirazione cristiana possano sortire diverse opzioni pratiche, come nel caso dei modelli istituzionali. Sta scritto chiaramente nella enciclica sociale “Centesimus Annus”: la Chiesa non si lega ad alcun modello istituzionale. Ferma restando la propria contrarietà ai regimi che manifestamente violino la dignità e la libertà della persona.
Sul punto ho avuto modo di esprimere il mio amichevole dissenso da Raniero La Valle che si è battuto per il no “in quanto cattolico”. Ciò detto, non va però sottaciuta la circostanza che, non fosse altro che per ragioni storiche legate al decisivo, qualificante contributo dei costituenti di parte cattolica alla elaborazione della nostra Carta fondamentale, i cattolici italiani, pur di diverso orientamento, hanno sempre coltivato uno speciale attaccamento ad essa. Riconoscendovi il segno di una ispirazione personalistico-comunitaria e dunque vitalmente cristiana.
Merita chiedersi il perché della divisione che si è prodotta. Dal mio punto di vista, dichiaratamente di parte (mi sono speso per il no), sorprendente è stata la circostanza che una parte cospicua e forse maggioritaria dell’universo cattolico si sia schierata per il sì, nonostante che i più autorevoli costituzionalisti di parte cattolica che ci sono stati maestri (Casavola, Onida, De Siervo, Flick, Mirabelli, Zaccaria….) si fossero espressi in senso contrario. Di Leopoldo Elia che già ci aveva lasciato naturalmente non possiamo dire. Posso solo testimoniare che la moglie Paola, figlia del suo maestro Esposito, poco prima della morte, mi confidò la sua angoscia e la convinzione che il marito si sarebbe energicamente battuto contro la riforma. La stessa convinzione mi è stata manifestata dalla figlia Federica. Così pure non possiamo spendere il nome di Dossetti, ma mi sembrano eloquenti i suoi interventi tra il 1994 e il 1995 la cui nota dominate sta nel rafforzamento di contrappesi e garanzie riconducibili al profilo liberale del costituzionalismo dopo l’introduzione della legge elettorale maggioritaria. Inoltre, disponiamo della testimonianza-documento del dossettiano don Giovanni Nicolini che si è detto certo del contrasto della riforma con il lascito del monaco-costituente. Mi sono interrogato sulle ragioni di tale scostamento di settori del mondo cattolico. Ne accenno cinque.
In primo luogo, un certo approccio idealista, tipicamente cattolico, associato a un deficit di cultura istituzionale. La circostanza che non si sia posto mano alla prima parte della Costituzione, ove sono scolpiti principi e diritti, ha come oscurato la percezione del nesso intimo tra le due parti di essa. La riforma, dichiaratamente ispirata al mito della democrazia decidente, di sicuro non andava nella direzione della valorizzazione della partecipazione, delle autonomie sociali e territoriali, dei corpi intermedi. Della sussidiarietà orizzontale e verticale. Sorprendentemente quel nesso è sfuggito alle stesse organizzazioni del “sociale bianco” (Cisl e Acli) storicamente sensibili a tali istanze autonomistiche, ma oggi piuttosto dimentiche di quel loro retaggio. Forse anche perché si è oscurata la loro ragione sociale e, su di essa, fa premio l’apparato dei servizi sussidiato dallo Stato, tipo i patronati. Da quel mondo, solitaria e inascoltata, si è levata la voce critica di Pier Carniti.
In secondo luogo, un certo endemico irenismo, un moderatismo in senso lato filogovernativo. Incline più al sì che al no. Alla ipostatizzazione del sì. Refrattario al conflitto. Quasi che il sì stia per definizione dalla parte della virtù. Semmai incline a un pragmatismo, a mio avviso, improprio trattandosi della Costituzione. Quello del “meglio qualcosa che niente”, “la riforma non è perfetta ma rappresenta un primo passo”, “poi la si potrà correggere”…. Persino Romano Prodi, con la sua metafora contadina, “meglio succhiare l’osso del bastone” è sembrato sposare quella logica minore (il suo sì critico è stato corredato da giudizi quali: riforma “modesta”, in deficit di “chiarezza e profondità”). Buon senso, intendiamoci, ma che forse sottostima la specialissima rilevanza dell’oggetto e comunque dall’orizzonte angusto.
In terzo luogo, appunto, il difetto di quella “coscienza costituzionale” tanto cara a Dossetti. Cioè la consapevolezza del senso/valore della Legge fondamentale che presiede alla vita della casa comune. Una idea alta e pregnante di Costituzione che forse avrebbe consigliato – anche a chi non avesse padroneggiato il merito (complesso) della riforma e, oso dire, perfino a chi l’avesse apprezzata – di non avallarne il varo da parte di una ristretta, contingente maggioranza. Dopo che fu approvata da un parlamento icasticamente diviso a metà, con i banchi vuoti di mezzo emiciclo. Nonostante tutti (a cominciare dal PD, nella cui Carta fondativa è scolpito a chiare lettere un solenne impegno) avessero giurato che mai più si sarebbe ripetuto l’errore di riforme costituzionali a colpi di maggioranza di governo. Mettendo a verbale l’ennesimo, insidiosissimo precedente (possiamo escludere, per un domani anche ravvicinato, che una maggioranza illiberale, invocando il precedente, si riscriva la Costituzione a modo suo?). Eppure il vecchio Dossetti suggeriva alle stesse comunità cristiane di coltivare e promuovere l’etica costituzionale umano-universale, specie quando – è una sua colorita espressione – “la morale cristiana fa cilecca”. Un impegno evidentemente trascurato.
Qui forse – quarto elemento – si sconta lo smodato e invasivo interventismo ecclesiastico di ieri in nome dei cosiddetti “principi non negoziabili”. Dal troppo al niente. Neppure la sollecitazione a prendere sul serio la riscrittura della Carta fondamentale, a domandarsi se oltre l’enfasi posta sulla efficienza delle istituzioni non fossero in gioco altri valori che quelle istituzioni sono chiamate a presidiare. Sul punto meriterebbe rileggere un importante discorso alla città del cardinale Martini per la festività di Sant’Ambrogio sul valore del consenso largo intorno ai principi e al metodo democratico-costituzionale. Un discorso, lo rammento, concepito in sottile polemica con due fronti: con la pretesa ecclesiastica di inscrivere forzosamente nelle leggi civili principi non negoziabili non mediati politicamente; e con gli strappi della stagione berlusconiana, contrassegnata dalla sua refrattarietà alle regole e alle istituzioni di controllo e di garanzia. Si potrebbe dire: un discorso di stampo liberal-democratico.
Infine, pesa un problema connesso alla qualità del personale politico di estrazione cattolica in senso lato. Quello genuinamente cattolico-democratico è sostanzialmente estinto. Anche dentro il PD residuano ex Dc (più che cattolici democratici) e una pattuglia di cattolici liberali che hanno fatto del maggioritario una sorta di religione e che, in nome di esso e di una politica centripeta che converge al centro, sembra abbiano smarrito la tensione egualitaria e critica verso l’establishment e gli interessi forti. Alludo a quanti propugnavano che il PD, nel 2013, facesse addirittura dell’ “agenda Monti” (oggi demonizzato da Renzi) il proprio programma elettorale. Dunque su posizioni da centro moderato o tecnocratico confinante con la destra liberale. Con un deficit di sensibilità sociale che, pur se in forma temperata, contrassegnava la stessa sinistra Dc e, ancor più, la sinistra sociale cattolica.
Sarebbe interessante scavare nelle radici culturali della subalternità al paradigma neo liberale della generazione fucina degli anni ottanta, che orecchiava certe correnti di pensiero luhmanniano di stampo funzionalista (Niklas Luhmann, sociologo e filosofo tedesco, teorico dei sistemi sociali). Personalmente rammento la diffidenza verso quegli schemi culturali da parte di Giuseppe Lazzati che pure seguiva con paterno affetto i giovani fucini.
Franco Monaco
10 Dicembre 2016 at 10:32
Caro Franco smetto per un momento i panni del coordinatore di C3dem, e, siccome ti stimo, e più che stimo i nomi dei grandi saggi che citi, spiegami perché la riforma “di sicuro non andava nella direzione della valorizzazione della partecipazione, delle autonomie sociali e territoriali, dei corpi intermedi.”.
Sono cresciuto con il punto di riferimento della partecipazione e del valore dei corpi intermedi e riscontravo nella legge l’inserimento di ben tre nuovi istituti di democrazia diretta (propositivo, consultivo e abrogativo a quorum più basso); e una revisione del meccanismo di proposta delle leggi di iniziativa popolare che obbligasse il Parlamento a prenderne atto e decidere in merito. Davvero non vedo perché sostenere il contrario.
O forse non ho capito bene e ti chiedo di spiegarmi la tua tesi. Anche se forse è inutile. Ormai la decisione del popolo sovrano non può essere cambiata. Ma almeno bisogna evitare di continuare la narrazione che questa riforma restringeva gli spazi di democrazia. Solo per l’elezione indiretta dei senatori?
Continuare su questa linea darebbe ai sostenitori del SI una “patente” non voluta di demolitori dei principi fondanti della democrazia costituzionale e in particolare di quella fondata su alcuni valori forti del cattolicesimo sociale e democratico. Non credi?
Con immutata stima
Vittorio Sammarco
10 Dicembre 2016 at 14:43
Caro Vittorio,
ti ringrazio perché mi dai modo di chiarire. Penso non sia inutile, perché le questioni da te sollevate sopravviveranno all’esito del referendum. Io non ho mai sottoscritto la tesi della riforma quale minaccia alla democrazia. Più semplicemente l’ho giudicata un disegno malcongegnato che non avrebbe conseguito gli obiettivi di semplificazione e di efficienza dell’assetto istituzionale che mirava a perseguire. Al contrario foriero di confusione e di conflitti. Tuttavia, questo sì, certo semlificando, la sua cifra sintetica mi sembrava quella della verticalizzazione e centralizzazione del sistema politico-istituzionale. Ancora: ho sempre riconosciuto che, in esso, figuravano alcune (poche) cose buone (tra queste le novità relative ai referendum cui tu fai cenno, nonostante io non sia un fan di tali istituti), dentro un quadro il cui saldo, ai miei occhi, era e resta decisamente negativo. E noi sul saldo eravamo costretti ad esprimerci. Aggiungo: non ho mai centrato la mia critica sulla elezione di secondo grado dei senatori. Ci poteva stare in una Camera delle regioni e delle autonomie degna di questo nome. Cioè in un Senato tipo Bundesrat tedesco. Ma il nostro era tutt’altra cosa. Un non senso nella composizione addirittura bizzarra e nelle competenze. Tu mi chiedi di meglio precisare la ragione del mio appunto critico circa la mortificazione della “cultura delle autonomie” singolarmente cara alla sensibilità cattolico-sociale. Alludo in primis alla revisione del titolo V. In essa è evidentissima la esorbitante ricentralizzazione in capo allo Stato di competenze e poteri (oltre alla clausola di superiorità che autorizza lo Stato a intervenire sempre e quando crede nelle residue competenze esclusive delle regioni, quelle assegnate in esclusiva allo Stato passano da 30 a 50). Se ne sono occupati in particolare De Siervo, Onida ed Emanuele Rossi. Per inciso, notiamolo autocriticamente, noi che ci riconosciamo nel centrosinistra: possibile che, nel giro di pochi anni, noi si passi dal mantra e dalla retorica federalista a uno smodato centralismo statale? Una sorta di schizofrenia e di leggerezza della nostra cultura costituzionale che non rassicura….
Sin qui la mortificazione delle autonomie territoriali.
C’è poi quella che ho chiamato spinta alla verticalizzazione. Alludo al rapporto tra parlamento, governo e premier. Qui sì entra in gioco il combinato disposto con la legge elettorale allo stato vigente, con il suo cospicuo premio alla prima lista della quale va depositato – così sta scritto – il “nome del capo della forza politica” palesemente destinato a fare il premier (con tanti saluti al potere di scelta e di conferimento dell’incarico, una delle sue principali prerogative, del Presidente della Repubblica). Del resto, i più schietti fautori della riforma lo hanno enunciato apertamente: l’ispirazione è quella di passare a una democrazia governante e decidente, che non è una bestemmia, lo si può sostenere, avendo tuttavia cura di riconoscere che un tale obiettivo comporta qualche costo sul piano dei poteri del parlamento.
Infine, le autonomie sociali. Equivocando, mi è stata attribuita la difesa del CNEL. Ho dovuto precisare che esso si è reso indifendibile, una sorta di cimitero degli elefanti. Tuttavia mi hanno fatto impressione due cose: 1) che esso, pur riguardando uno solo dei 47 articoli, abbia avuto gli onori del titolo della legge costituzionale e una immeritata centralità nella campagna del sì, ennesima concessione al tenore demagogico della campagna anticasta; 2) che, fermo restando il consenso alla sua soppressione, nessuno si sia peritato di rammentare – non fosse altro per amore di verità storica e per non fare passare i costituenti (soprattutto quelli di parte cattolica) come degli scriteriati inventori di carrozzoni – che esso fu ideato appunto quale luogo istituzionale privilegiato di raccordo tra parlamento e governo da un lato e rappresentanze sociali e professionali dall’altro. Insomma espressione proprio di quella sensibilità/cultura cara alla tradizione cattolica e, segnatamente, al “sociale bianco”. Come non bastasse, Cisl e Acli hanno schierato sul sì le rispettive organizzazioni. Io rammento che esse, un tempo, in giusta polemica con la Cgil (che a sua volta avrebbe fatto bene a non schierarsi per il no, ma non ci sorprende perché è nella sua tradizione, che non è la nostra), rivendicavano la propria gelosa autonomia politica e organizzativa da partiti, governi, schieramenti.
In sintesi, come non vedere che il segno dominante di tale riforma si inscrive dentro la cifra della cosiddetta “disintermediazione” tra governo e società, tra leadership e popolo, che è l’opposto di una ben intesa mediazione politica, sociale, istituzionale?
Infine, due domande. La prima: perché non si è dato adeguato ascolto al punto di vista del meglio della comunità dei costituzionalisti, a cominciare da quelli alla cui scuola ci siamo formati, e li si è da subito liquidati come fastidiosi e barbogi professoroni? Contentandosi di ascoltare quelli impegnati a dare sempre ragione al governo? Dopo il terremoto, Renzi ha fatto appello ai “migliori” per progettare la ricostruzione (Renzo Piano, il rettore del Politecnico). Non lo si poteva fare anche per quel bene delicato e prezioso che è la Costituzione? Anche quella è una costruzione…..Seconda domanda, che noto esorcizzata da chi ha sostenuto il sì: quella, a mio avviso, decisiva assai più del giudizio sul merito. Alludo alla Costutuzione di parte, espressione del governo. Vedi, caro Vittorio, sul merito potremmo discutere all’infinito senza metterci d’accordo. Io stesso, che pure ho girato per sostenere che si trattava di una cattiva riforma, lo confesso, non ne ho la matematica certezza. Mi potrei sbagliare, come penso potrebbero sbagliare i sostenitori del sì. Come usa dire con una metafora corrente, se fosse buona, come il budino, la si sarebbe dovuta mangiare/sperimentare. Ma ovviamente non ci era dato. Per me, restava e resta pregiudiziale e decisiva la questione di metodo: per definizione (e per prudenza pensando al domani) non si riscrivono 47 articoli della Legge fondamentale da parte di una contingente maggioranza di governo.
Con te, invece, sono assolutamente d’accordo quando, su c3dem, accenni con finezza ed equilibrio agli impegni che ci attendono per il domani, per una opera di lunga lena di ricucitura e di ricostruzione di una coscienza democratica e costituzionale. Che forse conta di più dei nostri contingenti dissensi sulla riforma della quale ci siamo occupati. Non a caso il mio motto, nel portare intorno le ragioni del no, suonava così: “NonbastaunNo”, anche per distinguermi dal “Bastunsì”.
10 Dicembre 2016 at 15:22
Grazie caro Franco, adesso mi è più chiara la tua posizione; che – come puoi immaginare – condivido in parte, nel senso che invece io credo che gli istituti referendari (in specie propositivi e di indirizzo) e il rafforzamento dell’iniziativa di legge popolare possono “educare” alla pratica democratica e quindi allo spirito, che è una grave lacuna di questi tempi. Ma di certo non erano questi gli aspetti principali della riforma.
Anche io non sono certo che avrebbe funzionato in toto. Credo solo che la democrazia della rappresentanza se non si traduce nella capacità di decidere e di risolvere i problemi (almeno tentare) va in crisi ugualmente. Anche al meglio della rappresentatività.
Ma non è questo più il problema. Ora bisogna ricostruire: a partire dai giovani? Difficile ma non impossibile, anzi necessario. Temo soltanto che i “fautori del SI”, ora, possano essere in qualche modo tacciati come quelli che “avrebbero voluto stracciare” la Costituzione, quindi “condannabili a prescindere”….
Sono certo che è un atteggiamento che non ti appartiene. Ma vedo il Movimento per il No, che si sta organizzando su base politica (quale poi?), dare qualche segnale in questo senso. Ce ne faremo una ragione. Anche perché il problemi del Paese (e soprattutto della “povera gente”) sono ben altri.
Saluti e buone Feste
Vittorio
10 Dicembre 2016 at 15:06
Relativamente all’articolo di Franco Monaco, persona che apprezzo molto da lungo tempo, mi limito a rilevare – come uomo della strada, quale io sono – che la manifesta ostilità verso la “democrazia decidente”, come si dice nel testo, mi sembra sbagliata. Faccio solo presente, in proposito, che Mattarella tra ieri ed oggi ha incontrato 23 (ventitrè !!!!) gruppi parlamentari che verosimilmente, fatto ormai fuori l’italicum, ci ritroveremo anche nei prossimi mesi ed anni. Mi dite come si governa un Paese disastrato come l’Italia dovendo mettere d’accordo almeno una parte di tanti gruppi “politici” ( “politici”:si fa per dire…); quanti compromessi (al ribasso) saranno necessari? quante “promesse” dovranno essere fatte per assicurarsi una manciata di voti che risulteranno decisivi? Continueremo a tenerci governi deboli, scarsa considerazione internazionale, riforme rinviate per mancanza di condivisione, decine di partiti che con l’1% potranno far cadere il governo, politiche di basso profilo volte ad accontentare tutti (e nessuno) . Ma questo era un lusso che ci si poteva permettere quando c’era il “muro”: le decisioni, allora, – che venissero prese in una settimana o in un anno, che rispondessero a criteri di razionalità o di mercanteggiamento – era difficile che potessero impattare molto negativamente sul Paese: facevamo parte di un blocco le cui opzioni fondamentali, nolenti o volenti, dovevamo comunque adottare (anche se,magari, all’italiana…): eravamo eterodiretti (dall’Europa, dalla Nato, dagli USA). Oggi non è più così, oggi dovremmo cavarcela da soli in un mondo sempre più spietato e in cui l’economia di mercato la fa da padrona (e questo lo dico con grande amarezza perchè, personalmente, ritengo il capitalismo un sistema insoddisfacente; ma abbiamo forza e capacità per uscirne? E fino a quando ci siamo dentro non dobbiamo, purtroppo e sottolineo purtroppo, tenerne conto?) In questa ottica, quale senso hanno due camere che fanno le medesime cose non solo, ma poi si palleggiano con sconcertante nonchalance, senza alcuna cura per i tempi di approvazione, qualsiasi provvedimento? Ha senso che su materie strategiche per l’avvenire delle prossime generazioni ci siano tante competenze confliggenti (Stato, Regione, Comune , ora probabilmente anche di nuovo le Province…) che, in concreto, portano al blocco di ogni iniziativa?
Ora che abbiamo dissolto il pd, unico raggruppamento che potevamo definire “partito” (almeno nel senso classico della parola), a chi ci affideremo? a Brunetta, a Meloni, a Fratianni, a Di maio (che non sa manco chi era Pinochet!), a Salvini, a Cirino pomicino, a Dalema (che ha detto di aver salvato l’Italia e se ne è tornato Bruxelles?). Il “Fronte del no” – con amarezza riconosco che un merito l’ha avuto: è la prima volta che il popolo italiano si è mostrato compatto: da Casa Pound ai Centri Sociali passando per tutti i gruppi intermedi – che proposte può offrire?Speriamo almeno di non dover tirare a campare, con governi che una volta si definivano “balneari”, fino all’ottobre 2017, mese in cui oltre 600 parlamentari matureranno il loro vitalizio… E poi, le schifezze, le menzogne, la violenza contro chiunque non la pensasse come loro che ha contraddistinto i blog fiancheggiatori del no e che tanto hanno contribuito alla sua vittoria! Su questo una riflessione non la vogliamo fare? Trump ha vinto le elezioni scatenando un inferno di violenza e di menzogne contro la Clinton; speriamo di non dover percorrere la stessa strada anche in Italia
Scusate se mi sono dilungato, il fatto è che lo scoramento è tanto e ho davvero paura che il nostro Paese farà la fine della Grecia
Comunque, spes contra spem! e un sincero saluto affettuoso a tutti . Buon Avvento! lucio croce
10 Dicembre 2016 at 20:08
Caro Franco,
qualche argomento da uno che ha sostenuto e votato il “sì”.
http://www.landino.it/2016/12/una-risposta-a-franco-monaco-che-si-chiede-perche-tanti-cattolici-hanno-votato-si-al-referendum/
Un abbraccio,
Luca Diotallevi
10 Dicembre 2016 at 21:25
Dal mio punto di viste segnalo che la riflessione è più debitrice di Duverger e della riflessione della sinistra non comunista francese (compresa quella personalista) sulla crisi della Quarta Repubblica e sull’impossibilità di governare uno Stato sociale moderno (quello che delinenano le partidi principio di entrambe le Costituzioni) con istituzioni deboli e partiti deboli:
http://www.landino.it/2015/01/maurice-duverger-e-la-fuci-un-incontro-non-casuale-e-fecondo-pubblicato-dalla-commissione-per-la-formazione-alla-politica-della-fuci/
La cosiddetta prima Repubblica aveva partiti forti che compensavano istituzioni deboli.
Un sistema può vivere così come, al suo opposto, può vivere con istituzioni forti e partiti deboli (la Francia della Quinta Repubblica).
Non si può invece vivere con partiti deboli e istituzioni deboli, come la Francia della Quarta Repubblica e l’Italia odierna. Da questo punto di vista è vero che la crisi di questi giorni ci riporta alla cosiddetta Prima Repubblica perché si tratta in questo momento di decidere come si chiude la legislatura dentro una maggioranza che c’è. Invece, senza forti ma difficili correttivi maggioritari, la formazione del primo Governo della prossima legislatura rischierebbe di essere ben peggiore.
11 Dicembre 2016 at 16:36
I miei genitori mi hanno insegnato tanti anni fa, che nella vita quello che bisogna tenere presente sono le buone e le cattive compagnie. Bene nel caso in discussione, al di là di tante parole, ci si deve chiedere: è più giusto e corretto stare con D’Alema e Storace, Fassina e Di Maio, Bersani e Berlusconi, Grillo e Alemanno, Meloni e Salvini o con Renzi e Prodi, Treu e Rutelli? La mia risposta è stato un bel Si di cui resto orgoglioso.
12 Dicembre 2016 at 09:48
Qualche nota sulle fascinazioni liberiste e luhmaniane.
Un caro saluto.
Giorgio Armillei
12 Dicembre 2016 at 09:49
http://www.landino.it/2016/12/palude-populismo-e-si/
12 Dicembre 2016 at 12:08
Per quanto può contare il parere di un cittadino normale, senza incarichi pubblici nè di rappresentanza associativa, condivido pienamente tutto quanto Monaco sostiene (anche nella risposta a Sammarco). Inoltre, non credo ci sia da preoccuparsi per l’eventuale giudizio negativo (“demolitori dei principi fondanti della democrazia costituzionale e in particolare di quella fondata su alcuni valori forti del cattolicesimo sociale e democratico”) che verrebbe attribuita a chi ha sostenuto il Sì; mi pare, invece, che si continui ad esprimere giudizi pesanti su chi – da appartenente al centro sinistra, al cattolicesimo democratico, al mondo cattolico impegnato – ha lavorato e votato per il No (l’ammucchiata innaturale, l’appoggio al disegno antigovernativo, l’irenismo di chi perde l’occasione storica di svecchiare le istituzioni, il fare blocco contro gli interessi di riforma soprattutto di quelle a favore dei giovani, conservatori, ecc.). Se questi giudizi continuassero non si sarebbe capito nulla, almeno da parte del PD e dei media che erano a favore del sì, dei motivi di fondo che continuano a tenere cittadini (credenti o meno) in posizione di difesa di istituzioni che non permettano a nessuno di diventare leader indiscusso e potente, e che anche in un sistema elettorale maggioritario debbano rispettare il pluralismo presente nel Paese (23 gruppi saranno anche troppi, ma non penso che gli italiani abbiano solo 2 massimo 4 o 5 posizioni politiche). Le sfumature devono essere tenute presenti, anche se non devono trasformarsi in ingombri e ostruzionismo. E le autonomie locali devono continuare ad essere valorizzate e rispettate. Inoltre, e concludo, le riforme devono rispondere ad un disegno equilibrato e utile alla partecipazione e alla governabilità, ma non devono dipendere principalmente dal discorso del taglio dei costi della politica: non si riducono o si eliminano istituti solo per risparmio, ma se ciò è utile!
12 Dicembre 2016 at 17:01
E’ una rappresentazione davvero impietosa quella fatta a proposito dei cattolici del Si alla riforma costituzionale: idealisti, privi di cultura istituzionale, privi di coscienza costituzionale, ruffiani nei confronti del governo, moderati per definizione. E già, perché se fossero stati progressisti avrebbero senz’altro espresso una posizione di ……conservazione! Di contro, immagino che il cattolico che ha votato No sia stato concreto, ispirato da coscienza costituzionale, sostenuto da una cultura istituzionale e soprattutto da una coscienza critica. In questa visione, decisamente ex cattedra, i cattolici schierati con il Si innanzitutto si sarebbero macchiati di lesa maestà nei confronti dei Saggi Maestri costituzionalisti. La sorpresa da una parte e la colpa dall’altra consisterebbe, in sostanza ,nell’aver contraddetto il principio di autorità. Come questi cattolici abbiano potuto farlo è il primo motivo di scandalo. Un tipico atteggiamento censore. Questo si che è sorprendente in un area culturale che ha sempre fatto del primato della coscienza e della libertà di pensiero i propri pilastri fondamentali. Volendo essere più chiari, questo atteggiamento tradisce un vizio abbastanza diffuso in ambienti radical chic di sinistra, quello di ritenersi i migliori, i più saggi, i più intelligenti e guardare gli altri, quelli del popolo, figli di un dio minore, incapaci di esercitare la propria libertà di pensiero e quindi bisognevoli di una guida. Un vizio speculare a quello dominante in ambienti cattolici conservatori pre-conciliari che si guardavano bene dal considerare “il popolino” come soggetto capace di autonomia e di intelligenza. Quando, poi, il massimalismo si accompagna al paternalismo si assiste ad un insopportabile saccenza. Bisognerebbe essere più umili e riconoscere che “ereditare non significa acquisire passivamente ciò che è stato, ma riconquistare il passato”. Si rimane davvero fedeli ad una ispirazione non perché si assume nei suoi confronti un rapporto di venerazione immobile, ma perchè si è capaci di innovare. Naturalmente si fa fatica a considerare i propri maestri non come icone da contemplare, ma come punti di riferimento, come “testimoni”, per dirla con Lazzati, di una “eredità generativa”. E’ un esercizio che tuttavia occorre fare se si vuole essere contemporanei alle attese di una comunità.
Sul merito delle questioni hanno scritto benissimo Diotallevi, Ceccanti ed Armillei.
15 Dicembre 2016 at 06:21
-sarebbe bello se i cattolici aiutassero a ricondurre il confronto in un solco di civile dibattito,partendo dalle piccole cose ( ad esempio, gli articoli proposti per il cambiamento erano 47, come hanno detto quelli del no, o sostanzialmente 6, come ha detto Cassese?);
– è stato citato il Cnel come segno di insensibilità del Governo verso i corpi intermedi: le parti sociali sono intervenute talune a sostegno del Sì e talaltre a sostegno del No. Così stando le cose sarebbe bello se esse sentissero il dovere di presentare un Parere comune (secondo l’acquis comunitario) in cui prendano partito sul tema o in senso confermativo (indicando funzioni, compiti e finanziamento) o abrogativo del Cnel medesimo.
Cioè sarebbe bello se riuscissimo a passare dai concetti generali alle cose concrete (ricordo il pensiero di Paolo VI sulla preferenza dell’uomo contemporaneo per i testimoni, o per i maestri che siano testimoni: prova difficilissima per ciascuno di noi). Altrimenti come possiamo credere che in tre mesi il Parlamento approvi la legge elettorale che aspettiamo dal 2006 ?