“Chi fa la guerra dimentica l’umanità”

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È la fine di un’illusione. Anzi di un insieme di illusioni. La prima era di credere che Vladimir Putin dopo aver annesso la Crimea otto anni fa, dopo aver appoggiato il colpo di stato di Alexander Lukashenko in Bielorussia nel 2020, dopo aver riconosciuto le due repubbliche del Donbass, dopo aver destabilizzato l’Ucraina impedendone l’ingresso nella Nato, avesse messo un freno alla malata idea di considerare la Federazione russa come una potenza imperiale. La seconda illusione, quella più disperata, era di credere che dopo aver diviso gli Stati Uniti e l’Europa sul tema più ‘caldo’ in assoluto – quello dei rifornimenti energetici – il capo del Cremlino avrebbe bloccato i blindati ormai sul confine con l’Ucraina e si sarebbe seduto al tavolo (quale?) a negoziare. Un’altra illusione svanita in pochissimi giorni era quella di immaginare che in Europa la guerra non avrebbe più trovato spazio e – come ricorda il premier italiano – che gli orrori che hanno caratterizzato il Novecento fossero mostruosità irripetibili. «L’aggressione premeditata e immotivata della Russia verso un Paese vicino – dice Mario Draghi durante la comunicazione al Senato, martedì 1° marzo – ci riporta indietro di oltre ottant’anni. Non si tratta soltanto di un attacco a un Paese libero e sovrano, ma di un attacco ai nostri valori di libertà e democrazia e all’ordine internazionale che abbiamo costruito insieme».

È la fine di una storia. Putin non ha accettato le conseguenze della conclusione della Guerra fredda e negli anni – e ancora di più negli ultimi mesi, dopo aver captato l’incoerenza politica degli Stati Uniti e della Cina – ha portato avanti il proprio disegno per soddisfare la sua bulimia territoriale. Fino alla fase finale del conflitto, studiato quasi nel dettaglio come s’è visto in questi giorni. La guerra era il suo scopo. E per questo non si è fermato davanti agli insistenti appelli arrivati da tutto il mondo. Putin sa bene che se perderà la guerra, sarà la sua fine, perché verrà rigettato anche dai suoi; finirà una storia e ne dovrà cominciare un’altra. Ma se questa guerra la vincerà, le sue mire espansionistiche proseguiranno: c’è la Georgia, c’è la Mongolia ricchissima di materie prime, ci sono le Repubbliche Baltiche, c’è il Kazakistan che ha già visto l’intervento di un contingente militare a guida russa per porre fine ai disordini scoppiati nel paese. Non c’è diplomazia, non ci sono trattati, non ci sono incontri in cui si possa trovare una soluzione attraverso le ambasciate.

È cominciata la guerra. Una guerra che, purtroppo, mette i Paesi e le singole persone di fronte a scelte fondamentali. Tornano alla mente le parole di Giuseppe Dossetti nella sua celebre relazione al Convegno nazionale dei Giuristi cattolici (Roma, 12 novembre 1951). Per introdurre la necessità di costruire una società nuova, con il fine di difendere la libertà delle persone, diceva: «Tutti gli Stati hanno un medesimo obiettivo che è la propria conservazione. Ciascuno Stato ha poi uno scopo particolare: Roma, la conquista; Sparta, la guerra; Marsiglia, il commercio». Ora – come ricorda ancora Draghi ai parlamentari – «non è il momento di fare i conti con sé stessi e con gli altri. È il momento di fare i conti con la storia, non quella passata ma con quella di oggi e di domani».

Se ne è accorta l’Europa che al momento ha dato una risposta molto compatta: gli Stati membri ora hanno bisogno di trovare una ridefinizione ulteriore dell’Unione che deve essere a livello politico-militare e non più soltanto mercantile. Lo hanno capito gli Usa: con un paese che è in parte alla deriva per le contraddizioni interne, per gli effetti dei quattro anni della presidenza Trump e per la debolezza della presidenza Biden che si è manifestata in pieno con il ritiro tragico dall’Afghanistan, hanno bisogno ora di interpretare un nuovo ruolo.

Poi c’è il nostro paese. Uscita da problematiche (mancate) elezioni di un nuovo presidente della Repubblica con un governo indebolito, l’Italia si trova oggi in uno stato di emergenza che ridà al governo una forza che il governo non aveva. Ma soprattutto è la ridefinizione della politica internazionale dei singoli partiti a poter modificare largamente il profilo di quegli stessi partiti nella loro storia.

Non sono mancati in queste ore gli appelli al “cessate il fuoco”. Tra i tanti quello di papa Francesco, all’Angelus di domenica 27 febbraio, pare il più chiaro, inequivocabile, potente e non equidistante: «Con il cuore straziato per quanto accade in Ucraina (…) ripeto: tacciano le armi! Dio sta con gli operatori di pace, non con chi usa la violenza. Perché chi ama la pace, come recita la Costituzione italiana, “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11)». Da qui il disperato invito agli aggressori a fermare i carri armati: «Chi fa la guerra dimentica l’umanità. Non parte dalla gente, non guarda alla vita concreta delle persone, ma mette davanti a tutto interessi di parte e di potere. Si affida alla logica diabolica e perversa delle armi, che è la più lontana dalla volontà di Dio. E si distanzia dalla gente comune, che vuole la pace, e che in ogni conflitto è la vera vittima, che paga sulla propria pelle le follie della guerra».

Non v’è dubbio che l’Europa debba in queste ore perseguire l’obiettivo di far ritirare i soldati russi. Ma questo deve passare necessariamente attraverso l’invio di armi all’Ucraina? Mi pare – ma lo pongo come stimolo per un dibattito – una scorciatoia dovuta alla mancanza di una elaborazione culturale sufficiente. Se si continuano a fare profitti sulla costruzione di armi non si elabora una cultura della “nonviolenza”. E l’Europa rischia di perdere un’altra occasione per rivestire il ruolo di promotore della pace, voluto dai padri fondatori, in uno scenario mondiale che diviene ogni giorno più complesso.

 

Paolo Tomassone

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