Coesione e fiducia, per riabilitare la politica e risanare il Paese
Siamo tutti un po’ scontenti di come si sviluppa la vicenda politica nel nostro Paese. Anche su c3dem sono apparse varie riflessioni, tra le più recenti quelle di Lino Prenna, di Ernesto Preziosi; e Vittorio Sammarco si chiede se le primarie fanno bene o male. Qualcosa di analogo ci si può chiedere sul tema del sistema “maggioritario” rispetto al “proporzionale”, al giochino dei “premi d’incoraggiamento a governare”.
L’impressione è che ogni soggetto cerchi di ottenere regole che lo avvantaggino piuttosto che strumenti per soddisfare il desiderio di rappresentanza dei cittadini e creare così coesione sociale. Anche il tema della stabilità viene spesso frainteso: è più stabile la governance di una minoranza che, aiutata da un “premio”, ottiene una formale maggioranza parlamentare oppure quella di una maggioranza che si crea, magari faticosamente, nel dialogo e nella convergenza responsabile di minoranze diverse ma che, trovando ragioni e programmi per stare assieme, esprimono la volontà di una reale maggioranza dei cittadini?
Certo le varie soluzioni sono opinabili e proprio perciò bisogna discutere e riflettere; avendo tuttavia presenti almeno due punti essenziali: che si dibatte e si cerca per trovare soluzioni e programmi che contengano “più verità”; e che si lavora per valorizzare, e se occorre costruire, una maggiore unità del Paese. Le vicende degli ultimi anni fanno pensare che non si sia camminato e costruito in questa direzione.
Quaranta e trenta anni fa, già al tempo della lega democratica, parlavamo sempre di “riabilitare la politica” e di “ridare una speranza alla politica”. Persino la Conferenza episcopale nel 1981 affermava solennemente “Il Paese non si salverà se non insieme”.
Io credo che lo scenario politico attuale mostri una dinamica quasi opposta. C’è una divisione crescente. Se qualche alleanza sembra crearsi è per puro interesse o necessità; ma si tratta di alleanze competitive, per sommare dei voti, e magari appropriarsene. Non c’è affatto l’idea che fare un’alleanza è anche la speranza di mettere insieme cose diverse, complementari, che arricchiscono i contraenti per creare un consenso più vasto intorno ad una verità più grande e più profonda. Io ho trovato straordinariamente interessante un ampio articolo che Marco Ivaldo ha scritto sulla rivista del “Laureati cattolici” (oggi Meic) : “Verità e democrazia” (Coscienza, aprile 2012). Citando Habermas ricorda e argomenta che “la democrazia – come forma di governo che prevede non solo l’esercizio del potere da parte del demos, cioè del popolo, secondo le leggi, ma anche la formazione della volontà politica attraverso giudizi sugli affari comuni (res publica) elaborati mediante le procedure e le regole della ragione argomentativa – la democrazia è un ordinamento politico che è essenzialmente sensibile alla verità, ha a che fare con opinioni vere, cioè vedute che elevino una argomentabile pretesa di verità”. Per esistere e sussistere come insieme di regole condivise e come forma di governo collettivo delle cose comuni, il regime democratico implica un rapporto alla verità, almeno nella forma di una seria ricerca di esso … Ciò che invece un ordinamento democratico esclude è non la (ricerca della) verità, ma che qualcuno pretenda di possedere questa verità in modo esclusivo o definitivo e tenti di imporre questa sua veduta a tutti senza passare per il “medio” della ragione argomentativa…”.
Ecco: a me sembra che sarebbe interessante avviare un dibattito più libero sulle attuali modifiche normative e pressioni mediatiche che fanno del dibattito politico sempre più uno scontro tra fazioni (con polemiche, insulti e scandali anziché argomentazioni e comportamenti esemplari). Ma soprattutto potremmo domandarci quale forma-partito (certo diversa dalle attuali!) possa essere in grado di recuperare non solo una fiducia nel “sistema” ma anche e soprattutto un po’ di coesione nazionale e di fiducia reciproca nonchè una vera e attiva partecipazione dei cittadini alla vita politica (dalla cultura politica alla definizione dei programmi e delle maggioranze e… alla selezione di una classe dirigente meno inadeguata).
Il tema coinvolge e sfida in modo specifico i cattolici, per i quali mi permetto di rimandare alla lettura del pregevole articolo di Giorgio Campanini (intitolato “Cristiani e società, cinquant’anni dopo”). In esso l’Autore auspica in particolare un potenziamento della presenza dei cattolici nei partiti e sulla scena politica e, comunque, “un rinnovato amore dei cattolici per la città” : ma questo, appunto, è il problema. I cattolici, come pressoché tutti i cittadini italiani, appaiono disamorati nei confronti della politica, e non solo nei riguardi di una classe politica di cui si chiede quasi plebiscitariamente l’uscita di scena; occorre dunque cercare e trovare nuove motivazioni all’impegno. Una fonte ricca e saporosa – da rivisitare necessariamente in questo cinquantenario – è quella del Concilio Vaticano II, con la sua grande passione per la città degli uomini: una città alla quale i credenti non possono essere estranei ma nella quale, anzi, sono fortemente sollecitati ad operare in vista della costruzione di una società più giusta e più umana nella quale, proprio per questo, più ampi spazi si aprono al Vangelo. E’ il recupero del segreto legame che intercorre (al di là di ogni collateralismo, ma anche di ogni estraneità) fra la città degli uomini e la città di Dio, la chiave di volta per porre su nuove e più creative basi il rapporto tra fede e politica” .
Angelo Bertani