Docente di lingua inglese ed ex preside del Corso di Laurea in “Comunicazione pubblica, sociale e d’impresa” dell’Università di Pisa, pedagogista, autrice teatrale, esperta di percorsi di partecipazione democratica, Susan E. George ha sperimentato un nuovo rapporto fra Università, Comune e territorio, preparando quattordici trasmissioni televisive per Livorno400, in occasione dell’anniversario della fondazione della città. Con Marianella Sclavi e Maurizio Giacobbe ha dato vita e organizzato Cisternino2020, uno dei primi percorsi di partecipazione in Toscana. Nel 2016 è diventata presidente dell’AIP2 (Associazione italiana per la partecipazione pubblica, aip2italia.org).
Lei è convinta che esista un’enorme potenziale nella società italiana. E in materia si definisce, innanzitutto, una “rabdomante”. In che senso? Di cosa è essenziale farsi cercatori, oggi?
Dobbiamo cercare il talento di ognuno e farlo emergere. Abbiamo bisogno di collaborare insieme alla costruzione di reti e di sistemi coordinati. In Italia di raro la tavola è “rotonda”; di solito è rettangolare e diventa la passerella per esibire la bravura degli esperti. Invece dovrebbe essere l’occasione di confronto fra saperi e esigenze diverse nell’esplorazione di soluzioni nuove. Dobbiamo avere l’umiltà di imparare dagli altri. Il nostro problema non è tanto il debito pubblico quanto l’incapacità di avere una discussione pubblica seria, approfondita sulle cose che contano. Una società che non prepara il futuro per i suoi giovani, che non permette loro di costruirsi un futuro è destinata a morire.
A Cagliari, si è recentemente svolta la vostra assemblea annuale dell’AIP2 di cui è presidente, a cui è seguito un incontro pubblico con la regione Sardegna sul tema della diffusione di una cultura di qualità nei processi pubblici. Come sono andati i lavori e cosa è emerso dall’incontro con la regione?
L’Associazione italiana della partecipazione pubblica è affiliata all’IAP2 (The International association for public participation) e ha come vocazione la partecipazione dei cittadini nella vita pubblica, argomento alquanto importante in questo contesto di sfiducia nelle istituzioni e nel sistema politico.
Nell’associazione, stiamo sperimentando un modello di leadership orizzontale, cosa non facile perché siamo tutti figli di strutture con leader che pensano di dover decidere tutto e non ci riescono. Il nostro “mestiere” è coinvolgere le persone, convogliandole verso decisioni condivise e gestendo creativamente i conflitti, cioè non affidandoci alla maggioranza dove solo il cerchio magico decide e la minoranza scompare. Non è facile, ma ci sembrava importante applicare questi metodi a noi stessi. L’assemblea è stata il momento in cui abbiamo potuto verificare che la nuova governance stava funzionando. E abbiamo usato lo stesso metodo per organizzare l’evento pubblico con i tecnici della Regione sarda dove i funzionari hanno illustrato i progetti partecipativi che stanno gestendo insieme ai GAL (gruppi di azione locale) per lo sviluppo rurale della regione. Questi progetti sono finanziati con i fondi dell’Unione Europea e dimostrano un’analisi accurata del contesto e un coinvolgimento intelligente dei portatori di interesse e dei cittadini in modo da farli contribuire al progetto, per esempio, con l’aiuto dei tecnici, attraverso la stesura dei contenuti dei piani di sviluppo locale.
Quali sono le caratteristiche di una esperta di processi partecipativi che sia empatica con la realtà con cui interagisce? Quanto è importante un lavoro di profondità, accompagnato da una buona dose di umorismo?
Mi piace questa domanda perché la gamma di competenze necessaria per portare a termine un buon processo di partecipazione non è sufficientemente compresa e apprezzata. Ecco un breve elenco:
- la capacità di leggere il contesto e le dinamiche fra le persone coinvolte;
- la capacità di ascolto e di reinterpretazione delle proposte in un’ottica di win-win e non in un gioco a somma zero;
- la capacità di vedere le premesse dietro alle parole e di cogliere e rendere manifeste le nuove idee emergenti;
- una pazienza enorme e la convinzione della pluralità delle costruzioni sociali e quindi l’utilizzo di questa pluralità nell’esplorazione di soluzioni inattese (è qui che l’umorismo gioca il suo ruolo perché di solito si basa su delle cornici di interpretazione simultaneamente contraddittorie);
- la conoscenza delle diverse teorie della democrazia deliberativa e la scelta appropriata degli strumenti;
- l’ uso non pedissequo dei dieci principi della Carta della Partecipazione.
Come si è avvicinata ai processi partecipativi?
Dieci anni fa ho facilitato a Livorno, insieme a Marianella Sclavi, uno dei primi percorsi partecipativi (Cisternino2020) finanziato dall’Autorità regionale della Partecipazione (Toscana). Abbiamo invitato i giovani (circa 100) a fare proposte sull’uso del Cisternino in modo che diventasse il motore del futuro della città.
Che effetti ha avuto il processo?
Il percorso ha riscosso successo in città, ma la politica non ha saputo usare i suoi risultati. Ha, comunque, introdotto giovani professionisti locali ai progetti di partecipazione. Ed è da lì che ho capito che l’introduzione di una cultura di partecipazione va fatta in tutti i contesti e a tutti i livelli della società.
La rete C3dem ha recentemente intervistato sul suo portale l’autrice del “triangolo esplorativo”, Marianella Sclavi. Il triangolo è composto dall’ascolto attivo, dall’autoconsapevolezza emozionale e dalla gestione creativa del conflitto. E’ possibile dimostrare come questo triangolo possa essere utilmente inserito nelle proposte di progetti di partecipazione democratica in Italia?
Qualsiasi progetto di partecipazione richiede un’ottima capacità di ascolto, di autoconsapevolezza emozionale e una buona dose di umorismo. Gestire creativamente il conflitto richiede la capacità di vedere diverse costruzioni sociali contemporaneamente. Se ne sei in grado, puoi re-incorniciare un conflitto, descrivendolo in modo che i partecipanti capiscano che altre interpretazioni sono possibili. In qualsiasi comunicazione gli impliciti sono essenziali, bisogna capire cosa ogni partecipante dà per scontato che non è condiviso dagli altri.
A cosa sta lavorando in questi mesi?
Sto imparando ad usare gli strumenti di ricerca-azione applicata sviluppata nel Sloan Business School MIT e all’Università di Harvard. Fanno parte della Teoria U del Presencing Institute (MIT). Ho avuto la fortuna di poterli sperimentare all’interno del Comune di Livorno con risultati sorprendenti. L’idea è che un ente può migliorarsi quando i diversi livelli capiscono che sono loro il sistema e che i problemi non sono fuori, ma sono lì dentro. L’originalità dell’approccio consiste nel fare leva sul desiderio di cambiamento di ogni individuo, chiedendogli di misurarsi con le proprie ambizioni più intime. Scrollandosi di dosso le sovrastrutture, le persone si osservano e si ascoltano in modo diverso e cominciano a fare proposte impensabili prima. Ho collaborato a questo progetto partecipativo con un esperto di sistemica, Maurizio Giacobbe, e abbiamo avuto il privilegio di lavorare progressivamente con dipendenti, funzionari, dirigenti, e con la giunta comunale.
Su cosa si basa la Teoria U?
Alla base dell’approccio è il lavoro di Peter Senge (La Quinta Disciplina e Society for Organizational Learning dove le imprese e gli enti imparano ad apprendere), di Edgar Schein (gruppi di auto-organizzazione e ricerca azione applicata) e di Otto Scharmer (Leadership in un mondo che emerge). Le tecniche sono coaching circle, stakeholder interview, co-sensing journey, social presencing theater. Il risultato è la creazione di una comunità dialogante e indagante, dove l’ente si guarda e si vede in quanto sistema, rendendosi conto che i membri di quel sistema possono cambiarlo.
E’ diffusa l’applicazione della teoria U al governo delle istituzioni?
L’approccio viene usato dal governo scozzese per invertire il rapporto fra cittadini e amministrazione centrale, invitando le 70 comunità geografiche e tematiche che hanno fatto il percorso di 8-12 settimane a redigere le loro priorità. Una volta stabilite queste, vanno trasferiti alcuni fondi e la comunità sceglie l’impresa che fornirà i servizi richiesti e monitora i risultati. Altri esempi raccontati in Leading from the Emerging Future di Otto Scharmer e Katrin Kaufer, sono il governo regionale di East Java in Indonesia, il sistema sanitario in Namibia e in Danimarca, il sistema scolastico in Austria, imprese e formazione in Cina.
Quali sono gli auspici per il futuro prossimo?
La mia prima speranza sarebbe di curare il rapporto fra il Comune di Livorno e la città rendendo il nuovo urban center di Livorno (sì, il nostro vecchio Cisternino!) un pulsante motore della partecipazione in città e portando la città all’interno del nuovo paradigma dei commons. La seconda sarebbe l’espansione di questo metodo in Italia, coinvolgendo AIP2 e le altre associazioni (Slow Food, CittadinanzAttiva, Action Aid) che hanno organizzato il Festival della Partecipazione all’Aquila nel 2016 e che lo stanno preparando di nuovo all’Aquila a luglio di questo anno. Si parla sempre dei problemi dei soldi. La realtà è che i soldi vengono usati male e non all’interno di progetti alti, ambiziosi, al servizio delle persone. Quando le risorse umane si scongelano all’interno delle istituzioni sono in grado di sprigionare la creatività tutta italiana e di far scoprire meraviglie di intelligenza collettiva latenti nella società italiana.
Giandiego Carastro
PS: Se qualcuno è interessato a collaborare ad un progetto di questo tipo, può scrivere a info@aip2italia.org
Per approfondimenti vedere:
https://www.presencing.com/theoryu
https://it-it.facebook.com/cartadellapartecipazione/
La Quinta Disciplina: https://www.getabstract.com/en/…/the-fifth-discipline/1257/
Society for Organizational Learning: https://www.solonline.org/
Otto Scharmer e Katrin Kaufer: www.ottoscharmer.com/publications/books
https://www.youtube.com/watch?v=tfHSEJIfQfU
https://www.youtube.com/watch?v=o3hDar5X7VU
11 Giugno 2017 at 00:08
La sperimentazione di “un nuovo rapporto fra Università, Comune e Territorio”, finalizzata a “fare emergere talenti”, dovrebbe essere preceduta da iniziative per far tornare la memoria di “un dimenticato rapporto tra Università, Informatica e Ricerca Scientifica”.
Il ritorno di quel tipo di memoria, dopo i traumi che hanno determinato il fallimento di un approccio normativo all’armonizzazione delle Pubbliche Amminstrazioni nazionali europee, in materia di acquisizione e integrazione di strumenti informatici [sistemi aperti], potrebbe richiedere l’avviamento di un dialogo [operativo] tra “politica”, “industria culturale” e “psicoterapia”.
Per me, nonno, sarebbe un “ritrovamento di futuro”, che avrebbe dovuto iniziare a materializzarsi progressivamente a partire dagli anni Ottanta.
Il mio ultimo tentativo di contributo [digitale] al ritrovamento di quel futuro ha quindi la forma di un “intento di sito di lavoro”: www punto casarayuela punto eu