Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo.

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Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo.
di Andrea Colamedici e Maura Gancitano.

Ed. Harper Collins

 

La tesi di fondo, che appare anche nel titolo, è che si lavora troppo a scapito della vita. Ecco alcune frasi indicative in proposito:

– le persone sono stanche perché hanno dato tutto in pasto al lavoro

– non c’è niente di sbagliato nel lavoro, il problema è che è diventato un’ossessione

– perché abbiamo voluto coprire la natura intrinsecamente forzata del lavoro, chiamandola realizzazione?

– la nostra idea del lavoro, cioè lo sfruttamento senza fine della natura

– non possiamo chiedere al lavoro di offrirci tutto il senso della vita.

Che il rapporto lavoro-vita sia un serio problema, oggi fra l’altro molto discusso, è fuori discussione.

Ciò che non sembra condivisibile del ragionamento è il “noi”. Difficile pensare che siamo noi, la gente, che sceglie volontariamente questa condizione. Non sembra che i lavoratori siano ossessionati dal lavoro e volentieri lo ridurrebbero se potessero.

L’impressione è che gli autori appartengano di una classe media elevata (editori, comunicatori, saggisti) e abbiano a che fare con professionisti e dirigenti, persone fra cui è più facile questa dedizione incondizionata al lavoro.

 

Una lacuna profonda del libro è che attribuisce tutto alle idee e alle convinzioni delle persone e niente alle istituzioni economiche e sociali, come se la società non esistesse (il che dimostra una visione chiaramente individualistica).

Cito degli esempi:

– pensano che l’idea moderna del lavoro sia dovuta a Locke e non alla rivoluzione industriale che ha introdotto il lavoro di fabbrica (che un po’ modernizzato rimane il lavoro attuale)

– criticano l’idea che le imprese avrebbero risolto i problemi della vita (purtroppo non è un’idea ma è tanta parte della realtà in atto, coi suoi lati positivi – lo sviluppo – e quelli negativi, che contestiamo)

– citano De Masi, secondo cui la diseguaglianza è lo scopo intenzionale di una politica economica che ha come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità (anche qui si sopravvaluta l’intenzione e si sottovaluta che siamo in un sistema sociale organizzato).

 

Nelle loro conclusioni sulla “via d’uscita” due sembrano i punti più significativi:

-un riferimento a Hannah Arendt. Nel suo libro “Vita activa” propone tre generi di attività: lavoro, opera e azione. Le prime rimangono nel campo delle attività fisiche o legate a scopi specifici; l’ultima è l’attività per eccellenza, quella in cui si impegnano intelligenza e volontà personale. Gli autori propongono di seguire quest’ultima indicazione. L’esempio che ha in mente Arendt è la politica nell’antica Grecia (uomini liberi, che non lavoravano e si dedicavano solo alla città). Discorso giusto che purtroppo vale oggi per pochi che ne hanno le possibilità: tutta l’azione storica della sinistra è stata volta ad estendere queste possibilità a livello di massa, di tutti.

– meno lavoro e più vita, ma per questo occorre avere un “senso della vita”. Qui gli autori se la cavano con una frase, citando Sartre, per cui l’esistenza viene prima dell’essenza e quindi ognuno deve “inventare” il senso della propria esistenza. (Cavarsela in questo modo su temi filosofici di questo rilievo, sembra poco serio).

Certamente il senso della vita ognuno deve cercarselo personalmente, ma non in una realtà vuota, ma in una realtà dove esiste una storia, un pensiero, delle collettività che hanno pensato e costruito concezioni robuste in proposito.

 

Nel libro sembrano carenti due cose fondamentali: un’idea (positiva) del lavoro e una risposta realistica, non individuale, al problema lavoro-vita.

Sul valore del lavoro. Noi dobbiamo assolutamente avere un valore del lavoro: per noi intendo noi come persone e come collettività, politica e sindacale.

C’è tanta sinistra che oggi tende a dire che il lavoro è uno schifo, per cui è meglio pensare al reddito (di cittadinanza). Era emblematico un cartello al 1^ maggio dell’anno scorso di un giovane dei centri sociali “dateci il reddito, tenetevi il lavoro”.

Per il cattolicesimo sociale il lavoro è un valore per diversi motivi.

  1. è il modo con cui uno si guadagna onestamente da vivere (solo i ricchi non lavorano)
  2. è il modo con cui si possono dimostrare le proprie capacità (da cui il riconoscimento sociale, molto importante). E’ un tema sviluppato da Honneth della Scuola di Francoforte.
  3. consente un rapporto con le altre persone, rimane ancora un luogo di rapporti sociali (messo in difficoltà oggi dallo smart working, che dobbiamo affrontare)
  4. è una partecipazione alla collettività, al bene comune.

Chiaramente questo è quello che dovrebbe essere, spesso la realtà è distante e in questo sta la battaglia sul lavoro.

 

Per quanto riguarda la risposta al tema lavoro-vita,è sempre valida la risposta della riduzione dell’orario e di orari più compatibili con le esigenze familiari.

Ma direi che, oltre a queste risposte classiche sostenute dal sindacato, ce ne sono altre due più nuove.

  1. Occorre rivendicare un lavoro più interessante, più libero, più dignitoso, più adeguato alla persona. Su questo occorre una concezione aziendale che non esiste. I nostri imprenditori sono molto indietro.
  2. La gran parte del lavoro rimane “dipendente”. Marx aveva detto che il lavoro è dipendente e sfruttato, ma poi il movimento si è dedicato solo allo sfruttamento (economico). Sulla dipendenza non si è fatto niente. Questo stride: nella società siamo cittadini liberi, in azienda siamo sudditi. La gente oggi avverte questo contrasto, perché lo vive ogni giorno anche nelle piccole cose.

 

In sostanza il libro pone i problemi, ma in modo “giornalistico”, senza un adeguato approfondimento ed è lecito dire, senza una cultura adeguata per affrontare problemi sociali di questa dimensione.

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