a cura di Daniele Zappalà, in “Avvenire” del 24 febbraio 2012
«Forse per la prima volta nella storia, almeno in modo tanto esplicito, il Papa che ha convocato il Concilio, Giovanni XXIII, non ha presentato un’idea o un modello predeterminati. Si è affermata invece l’idea del Concilio come nuova Pentecoste, o meglio come tentativo di rendere possibile nella Chiesa cattolica qualcosa di simile a una nuova Pentecoste ». Per il teologo francese Cristoph Théobald quest’aspetto fu intimamente legato allo ‘stato di grazia’ respirato dai protagonisti del Vaticano II. E a cinquant’anni dall’apertura dei lavori, questo «desiderio di una Pentecoste», secondo il padre gesuita, rappresenta pure una delle chiavi per rileggere i testi conciliari come ‘bussola’ per il XXI secolo, secondo la celebre metafora di Giovanni Paolo II. Di Théobald è stato appena tradotto in Italia il primo tomo del monumentale “La recezione del Vaticano II” (Edb, pp. 728, euro 65).
Padre Theobald, in che modo riassumere e comprendere questi 50 anni di recezione del Concilio?
«Ci sono state diverse fasi di recezione ed esplicitarle è pure il modo più semplice per affrontare la questione. La prima fase, subito dopo il 1965, è soprattutto istituzionale, con la riforma d’istituzioni come il Sant’Uffizio e l’applicazione del principio sinodale nel mondo intero. È la fase che ha probabilmente suscitato le impressioni più vive e spesso un reale entusiasmo. Una seconda fase comincia nel 1985, anno del Sinodo convocato per celebrare il Concilio e verificarne gli effetti. È stato un evento estremamente importante che ha proposto un’interpretazione globale, certe regole d’interpretazione, introducendo pure l’idea del corpus del Concilio, ovvero dei legami e dell’intertestualità fra i documenti conciliari. Potremmo definire il periodo che così comincia come una fase di sintesi, soprattutto attorno al concetto di Chiesa-comunione. Con il tempo, è divenuto importante pure l’apporto del lavoro storico, fondato sullo studio di un insieme sempre più ampio di testi, bozze preparatorie, diari personali dei partecipanti al Concilio».
Lei sottolinea che finora il dibattito sul Concilio, a tratti movimentato, ha molto riguardato l’ecclesiologia. Occorre allargare il campo visivo?
«Questa focalizzazione era probabilmente inevitabile, data la portata delle riforme istituzionali. Ma oggi, la lettura dei testi conciliari può aiutarci a riequilibrare questa percezione. Una dimensione fondamentale del Concilio ruota ad esempio attorno al principio di pastoralità, con l’idea che la fede cristiana è molto storica e legata fin dall’inizio a una pluralità di culture. Esprimere la storicità del cristianesimo significa esprimere di nuovo, in fondo, il principio dell’Incarnazione. Questa dimensione c’interroga continuamente sulla ricevibilità della tradizione cristiana. La pastoralità si radica direttamente nella Rivelazione, che è rivolta a tutti. Il carattere missionario della Chiesa resta dunque, mi pare, una grande questione aperta nella scia del Concilio».
All’interno del vasto corpus conciliare, ci sono testi che meriterebbero una particolare riscoperta?
«È stato finora molto approfondito il senso di tre testi: Lumen gentium , Gaudium et spes , Sacrosanctum concilium. Ma un testo fondamentale poco studiato e interpretato è invece Dei verbum . Il Sinodo del 2008 ha rappresentato un primo forte atto ufficiale di recezione di Dei verbum, ma questo documento di assoluta centralità potrà certamente svolgere un ruolo sempre più attivo. Si può pensare lo stesso di Ad gentes, sull’attività missionaria della Chiesa».
Lei sostiene che è nel Concilio stesso che si possono trovare le chiavi per superare ogni contrasto sulla sua interpretazione…
«A mio parere, occorre uscire oggi dalla concezione binaria secondo cui da una parte c’è un Concilio perfettamente compiuto e dall’altra ci sono buone o cattive interpretazioni del Concilio. Il Concilio è stato un prodigioso processo di apprendimento ed anche per questo sono inevitabili certe giustapposizioni che hanno poi animato il dibattito. Si pensi ad esempio al principio di collegialità episcopale che, evidentemente, è affermato accanto alla conferma del primato del ministero petrino romano. Il Concilio ci ha offerto innanzitutto un modo per deliberare nella Chiesa, ricordandoci pure implicitamente che alcune questioni non possono mai dirsi definitivamente risolte, dato che fanno parte della stessa struttura paradossale del Mistero cristiano».
Al di là del dibattito teologico, il Concilio potrà restare un riferimento assoluto per l’unità della Chiesa?
«Sì, se sapremo insistere e riflettere non tanto sui dettagli, ma sulla visione globale che il Concilio ha delineato. Quella di un cristianesimo universale e al contempo perfettamente inculturato e differenziato. Sì, se sapremo accogliere la pedagogia e il coraggio del Concilio nell’ascolto dell’altro, nella capacità di convertirsi, nel deliberare assieme per l’avvenire. C’è un modo di procedere che il Concilio ci lascia in eredità. In particolare, un certo modo di ascoltare la Parola, di discernere i segni dei tempi, di accedere all’interiorità. Grazie a questo treppiedi, per così dire, il Concilio potrà restare una grazia e una bussola per i nuovi tempi».