Concilio Vaticano II, non è solo memoria. Gigi Pedrazzi dialoga con un membro della Comunità di base di Pinerolo

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Concilio Vaticano II,  non è solo memoria. Gigi Pedrazzi dialoga con un membro della Comunità di base di Pinerolo

Gigi Pedrazzi spedisce in questi giorni la sua consueta “lettera mensile” nell’ambito del pluriannuale percorso di rivisitazione e “festeggiamento” del concilio Vaticano II a partire dall’anno di elezione di papa Giovanni (“Il nostro ‘58”). E’ la lettera di luglio 2012. Nella prima parte ripercorre il luglio del 1962. Nel terzo capitoletto della lettera Pedrazzi individua in quattro punti le attese, le speranze e le preoccupazioni nell’estate di quell’anno, alla vigilia del concilio. Poi, nella lettera, segue, come sempre, la parte relativa all’aggiornamento: uno sguardo che Pedrazzi dedica all’oggi. Le sue riflessioni sono articolate in due “capitoli”: nel primo (Anche per noi si avvicina di nuovo l’inizio del Vaticano II) si sofferma su come fare memoria, oggi, dell’inizio del concilio, tenendo anche conto dell’Anno della fede indetto da Benedetto XVI; nel secondo (È opportuno fare memoria del Concilio?) intavola un colloquio a distanza con Memo Sales, un membro della “Comunità cristiana di base” di Pinerolo, che gli aveva spedito una lettera in cui si poneva l’interrogativo sulla validità di fare memoria del Vaticano II. La lettera di Memo Sales si concludeva con queste parole:  “Credo tuttavia che non sia così utile impegnare troppe energie a ricordare un avvenimento importante forse solo dal punto di vista storico, ma che alla fine, guardando all’oggi, non ha prodotto cambiamenti significativi in una chiesa sempre e comunque dominata da una gerarchia maschilista e patriarcale”.

 Luglio 2012. Anche per noi si avvicina di nuovo l’inizio del Vaticano II

Di Gigi Pedrazzi

Anche qui mi pare si possano individuare 4 ambiti nei quali osservare modi e risultati del «fare memoria» dell’inizio del 50° anniversario del Vaticano II (premessa necessaria, anche se non sufficiente, della più compiuta «ricezione» di cui si è in attesa). Questi ambiti, indicativamente, sono:

1) Azione del «Magistero ecclesiale», in particolare pontificio, ma anche con attenzione alle dimensioni delle Chiese locali, nazionali e diocesane (tutte realtà da seguire nei limiti delle proprie possibilità).

2) Andamento della sofferta «dinamica ermeneutica», ove ancora sussista tra le due conosciute tendenze, entrambe pericolose quando siano estremizzate sul loro criterio preferenziale: a) coscienza dell’identità della Chiesa che permane «quella di sempre», fino a negare la possibilità e l’opportunità di cambiamenti che ne migliorino il volto storico e la testimonianza pastorale, b) coscienza e idea di una chiesa così ben riformata e già perfetta, da essere giudicata già trionfante nel presente, mentre può essere in cammino verso la gloria solo in una visione più escatologica che storica.

3) Verifica realistica di come il punto 1), cioè l’azione del Magistero, riesca gradualmente ad assorbire e superare la faticosa e già molto lunga disputa indicata al punto 2), ottenendo sviluppi positivi di obbedienza e comunione, cioè, ad un tempo, crescita della consapevolezza dei fedeli e aumento dell’autorevolezza dei pastori.

4) Accrescimento conseguente, nella opinione pubblica, di attenzione e rispetto per la missione esercitata dalla Chiesa a fronte di problemi dolorosi e di situazioni affliggenti la nostra società, la sua civiltà tanto imperfetta e la sua pratica democratica, tanto poco coerente con le sue alte idealità.

Riferendoci a questi ambiti, possiamo anticipare che, raggiunto l’inizio dell’Anno della fede, opportunamente fissato da Benedetto XVI all’11 ottobre, data d’inaugurazione del Vaticano II, cercheremo anche noi di seguirne i passaggi, sia centrali sia locali. E proveremo ad effettuare il confronto che abbiamo visto suggerito dalla Notificazione sull’Anno della fede tra il risultato complessivo del Concilio Ecumenico e l’insegnamento che ne fa il Catechismo Cattolico: confronto opportuno, se condotto con rigore teologico pari alle intenzioni didattiche sempre naturali in una istituzione vasta e complessa come la Chiesa cattolica.

Nel nostro impegno di partecipazione ecclesiale e di lavoro comunicativo e democratico successivo all’ottobre 2012, disporremo anche di un quarto volume della serie «Vaticano II in rete» (coedita da Claudiana e Mulino), con una certa presentazione degli «Schemi» del periodo preparatorio, il respingimento dei quali, nella misura in cui è avvenuto, fa parte integrante del Magistero conciliare e del suo grande sforzo, di aggiornamento e di ressourcement pastorale e dottrinario. La presa d’atto di questo essere «andato largamente in fumo» dopo quasi quattro anni di lavoro paziente e complesso, penso debba far parte della lunga e sofferta, ma inevitabile ricezione, del contenuto specifico del Vaticano II, il quale è il Magistero conciliare più a noi vicino: definito, promulgato, sostenuto dai papi in servizio a Roma, e dai Vescovi in comunione con lui nell’esercizio di questo servizio reso al mondo.

A tutto questo cercheremo di partecipare con l’attenzione affettuosa e vigile, che abbiamo già condiviso nella piccola opera tra noi comunicativa, denominata «il Nostro ’58»: siamo senza intenzioni professionali e senza competenze di livello scientifico, e abbiamo identità e autorità di semplici e comuni fedeli, promotori di una iniziativa contingente e popolare, che si è proposta come uno studio volontario e comunicativo, interno ad una grande vicenda ecclesiale. E come tali continueremo, fin che lo potremo con sufficiente salute, nella durata del 50° anniversario del tempo Conciliare.

Già per la modestia delle mie risorse personali, il quarto volume della serie «Vaticano II in rete», dopo i primi tre volti a «raccontare a mia cura» la fase preparatoria svoltasi dal gennaio ’59 al settembre ’62, sarà una breve, commentata antologia degli Schemi venuti dal lungo periodo preparatorio, ma giudicati da non utilizzare, salvo quello che preparava la riforma liturgica. Sono dovuto ricorrere, per realizzare questa antologia, a una collaborazione più competente della mia: mi è parsa una opportunità editoriale e culturale di cui potesse servirsi l’opinione ecclesiale e semplici fedeli, desiderosi di poter cogliere il significato teologico e pastorale dei voti che hanno prodotto l’esclusione di un materiale, pur accurato e significativo, dai documenti ufficialmente deliberati dal Magistero ecclesiale del 21° Concilio della Chiesa cattolica.

E ancora, con qualche analogia, cercheremo collaborazioni adatte per continuare, tra 2013 e 2015, la serie «Vaticano II in rete», che ci consenta di seguire i «grandi passi» compiuti dal Magistero conciliare, e di affrontare le problematiche cui ora si cerca di guardare, con la «bussola» fornita dal Vaticano II, dal Pontefice di turno a Roma, dall’Episcopato in comunione con lui, e dal vasto mondo del laicato: sono essi tutti i successivi navigatori in corso, piloti e marinai, in fiumi di guai e oceani di speranze, nelle nuove e percorse situazioni globali della nostra terra: il significato delle quali non sarebbe bene sottostimare.

È opportuno fare memoria del Concilio?

Nel redigere queste lettere mensili da spedire «in rete», ho finito per conquistare un minimo di quelle consuetudini con gli attuali mezzi di comunicazione (nelle quali i miei nipoti pre-adolescenti sono tanto più bravi del nonno ottuagenario), e così mi capita di vedere a mia volta diverse «lettere» arrivare nel computer di casa; ce ne è stata una intitolata È opportuno fare memoria del Concilio Vaticano II?

Prima di riportarne il testo, nell’«allegato», voglio dirvi che essa proviene da una delle «comunità cristiane di base» attive in Italia nel contesto del «dissenso cattolico», operante dal dicembre 1973, con bella continuità e intense iniziative, a Pinerolo. Sono andato a vedere che cosa essa dice di sé nel proprio sito. Vi ho letto con ammirazione molte cose buone: basti dire che sono elencati, come determinanti la loro storia: «un risveglio evangelico profondo» e iniziative quali «la celebrazione della liturgia nelle lingue del popolo, il riconoscimento della permanente vitalità dell’ebraismo, la spinta ecumenica e l’apertura ai grandi problemi dell’umanità». Ho trovato toccante il gruppo di sostegno per genitori che hanno perso un figlio o una figlia, denominato «Elaborazione del lutto»; e molto bella l’attenzione continua portata alla lettura settimanale della Bibbia, l’ascolto abituale e ben organizzato per persone in difficoltà, e altre, sul proprio territorio (dove sono facili e frequenti i contatti con persone della comunità valdese), o partecipando a convegni e incontri nazionali, o, talvolta, internazionali.

Nell’autopresentazione della comunità cristiana di base di Pinerolo (cui sono stato condotto da Google) mi è però spiaciuto leggere un periodo troppo sbrigativo e duro, ma so che molti, che pure sono chiesa, sono con loro nell’esserne convinti, e la riporto qui per amore di chiarezza. Ho letto dagli amici di Pinerolo questa osservazione:

Molti «profeti» più o meno noti avevano lavorato per la fioritura conciliare, spesso nel sospetto generale. Sembrò addirittura che la Parola di Dio diventasse nella chiesa davvero sovrana. Tanto da spodestare dal trono la gerarchia. In realtà, già nei documenti conciliari, in un infelice e infausto compromesso delle formule, coesistevano il volto autoritario e il volto evangelico della chiesa. Lo «spirito» del Concilio fu in larga misura compromesso, annacquato ed imprigionato già negli stessi documenti conciliari. Paolo VI, prima e Giovanni Paolo II, poi, hanno progressivamente dato man forte e rimesso al centro della chiesa la «sacra gerarchia». Ciò è avvenuto anche perché la nuova stagione politica ha segnato un riflusso dei grandi movimenti politici degli anni ’60 e ’70.

Tutto può essere materia di discussione, e nell’Allegato che conclude questa «lettera di luglio» del Nostro ’58, espongo, una volta di più, un’opinione interpretativa diversa; per esempio, è vero senz’altro che grandi avvenimenti politici degli anni sessanta e settanta hanno conosciuto un riflusso portato dalla nuova stagione politica: ma, almeno in Italia, ha contato molto anche un’interpretazione erronea del post-Concilio (giudicato, sia a destra che a sinistra, più forte e influente del Concilio); questo errore, ingeneroso e sviante, ha aperto la strada ad una tolleranza molto sgradevole e squilibrata a favore della discesa in politica di Berlusconi, concessa da un’autorità italiana dell’importanza di Ruini nell’ambiente ecclesiastico per oltre vent’anni (Vicario a Roma e Presidente della CEI per più decenni), in un contesto internazionale caratterizzato pure da gravi smarrimenti statunitensi. Abbiamo dovuto vedere notevolissime quote di laicato cattolico incoraggiate ad assumere senza scrupolo un trattamento, se non ostile, dubbioso verso l’impegno di Prodi, per oltre tre lustri punto centrale di una resistenza democratica contro l’egemonia di Berlusconi. L’autorità religiosa, nella situazione bipolare della cosiddetta «seconda repubblica», è sembrata muoversi senza alcuna riserva di prudenza verso la forza, i poteri, lo stile di Berlusconi, il suo governo nullista e il suo inquietante magistero culturale, sfaldatisi solo molto lentamente nella crisi finanziaria internazionale sopravvenuta.

Eppure le basi etiche del fenomeno Berlusconi risultavano inaccettabili già anni prima, con comportamenti politici fortemente strumentali ad un suo evidente ed esclusivo interesse privato, con risultati politici generali veramente miserrimi. Per anni si è evitato ogni tentativo di far considerare con la dovuta serietà una domanda di fondo, elementare e dirimente: «ma Berlusconi è, come dice, un perseguitato dalla Magistratura italiana o è invece un potentato economico e della comunicazione in grado di bloccare le indagini giudiziarie a suo carico, utilizzando con sfrontata determinazione, non solo il suo potere economico e industriale, ma anche il suo ruolo legislativo e di governo?».

Ora che, tra Natale e Pasqua di quest’anno, i limiti della alleanza Berlusconi-Lega sono finalmente venuti in piena luce politica e culturale, la distanza dagli anni del Vaticano II, molti passati anche in confusione e distrazione, ha rivelato il costo del tempo perduto; siamo in ritardo nella assimilazione leale del suo aggiornamento e del suo ressourcement, quasi sostituito da una pesante confusione corruttiva e dispersiva installatasi pesantemente in Italia. Ora resistenza e ripresa italiane hanno bisogno di tante cose, compreso un recupero serio del valore globale del Vaticano II, come la sua «svolta storica» consente ed esige, data la relazione sempre rilevante tra eventi storici e consapevolezze delle «basi interiori» della cultura e delle azioni, anche nel campo economico, finanziario, politico, militare e delle reti di comunicazione, in un tempo che, come il nostro, sta celebrando l’unità del genere umano e il primato di scienza, conoscenza, coscienza, comunicazione, lavoro, solidarietà e comunione, sia delle risorse materiali sia di quelle mentali e spirituali.

Allegati

Fare ricezione è più che fare memoria. Ci riusciremo?

Memo Sales, della Comunità cristiana di base di Pinerolo, si domanda se sia «opportuno fare memoria del Concilio Vaticano II». Scrive:

In questi mesi sono stati organizzati da alcune realtà ecclesiali, in particolare di base, i primi momenti di incontro per ricordare l’apertura del Concilio Vaticano II, avvenuto 50 anni fa. Seguendo queste iniziative, ho cercato di ricordare cosa era per me quel lontano 1962. E soprattutto mi sono interrogato sull’opportunità di un ricordo che mi lascia molto dubbioso.

            Ero allora un giovane di 19 anni, come forse alcuni e alcune di voi, animato da entusiasmo e speranze, combattuto tra interrogativi di fede e non solo. Kennedy aveva lanciato il suo messaggio e stava portando avanti la sua politica. Martin Luther King combatteva una battaglia a favore dei neri che dava speranza di riuscita e a Roma il papa indiceva un Concilio per portare la Chiesa a dialogare con il mondo. Si stava uscendo dalla guerra fredda ed il disgelo fra Est ed Ovest sembrava cosa fatta. La crisi dei missili a Cuba era stata risolta e si era allontanato il rischio di una nuova guerra devastante.

            Vi erano state aperture in Vaticano: l’introduzione delle lingue «del popolo» nella liturgia e un piccolo spazio ai laici durante la messa… La politica sembrava incamminata verso un nuovo modo di essere e si intravvedeva quello che sarebbe diventato il ’68. Percepivo, con l’entusiasmo dei miei anni giovanili, come un mondo nuovo fosse dietro l’angolo e come il Concilio ci avrebbe parlato finalmente di un nuovo modo di annunciare il Vangelo e di una liberazione totale.

            Si apre il Concilio… Le notizie che filtrano sono poche, i lavori vanno avanti e fin da subito si intravvedono le difficoltà e le divergenze all’interno. Muore Giovanni XXIII e Paolo VI lo porta a conclusione. Ma che cosa emerge dai documenti conciliari?Effettivamente il Concilio ha prodotto novità in alcuni documenti anche se scritti in un linguaggio arcaico e curiale, vi sono dichiarazioni ed aperture importanti.

            Ma già alla fine del Concilio si capisce che anche queste poche, anche se belle novità, vengono a poco a poco disattese. Si è aperta una finestra, ma poi si è subito chiusa, anzi sprangata. Giovanni Paolo II torna a rimarcare il centralismo curiale, l’impossibilità di dialogo all’interno della chiesa: è il magistero, solo il magistero a determinare la prassi di ogni singolo credente. Di ricerca teologica diversa dalle accademie pontificie non se ne parla, la collegialità dei vescovi è lentamente annullata e… si è tornati «al prima», se non peggio di prima. E in questi ultimi anni qual è il comportamento di una gerarchia chiusa nei sacri palazzi? L’intervento, in particolare verso l’Italia, è pesante: vuole condizionare e dirigere la vita civile e le scelte politiche dei vari governi e del parlamento.

            A tutt’oggi credo che nella chiesa gerarchica vi siano presenti elementi «non negoziabili», su cui non è possibile per nulla confrontarsi: potere sacro del sacerdozio inclusivo, dialogo intraecclesiale, ruolo della donna, morale sessuale ed economica, liturgia, interpretazione totale delle Scritture, politica, privilegi concordatari, coppie di fatto. Anche nella parrocchia più aperta, almeno per quanto è a mia conoscenza, il ruolo del prete o del parroco è comunque intangibile: potrà essere «più democratico», ma la sacralità del sacerdozio nessuno la mette in dubbio (e quindi il legame e la dipendenza con e dal veescovo ecc.).

            Vi è comunque uno spazio condiviso e condivisibile con le parrocchie e i movimenti: la scelta per i poveri. La testimonianza e l’impegno delle Caritas nelle parrocchie, dei gruppi spontanei nell’accoglienza degli ultimi, dei migranti e il ruolo di Libera per la legalità contro le mafie, per citarne alcuni, sono momenti ove iniziare il dialogo ed una collaborazione, oltre ai movimenti di dissenso all’interno della chiesa stessa.

            Mi pongo allora una domanda. Quale ricordo o commemorazione fare di questo Concilio? Per dirla tutta «che cosa si è portato a casa»? Credo ben poco… per non dire, purtroppo, nulla.

            Certo sono importanti, necessari, i movimenti di base, che hanno il compito di sensibilizzare la comunità ecclesiale, nella direzione di una rinnovata fedeltà evangelica. Credo che si debba constatare che i tempi saranno ancora lunghi. La chiesa di Roma sa aspettare e sa che i «fermenti» quasi sempre rientrano ed essa può continuare a cambiare qualche cosa per non cambiare nulla.

            Occorre lavorare ed impegnarsi tutti e tutte per costruire «cieli nuove e terre nuove» in una solidarietà bella e gioiosa. Non possiamo illuderci che bastino gli interventi di Famiglia Cristiana o di qualche vescovo fuori del coro…

            Credo tuttavia che non sia così utile impegnare troppe energie a ricordare un avvenimento importante forse solo dal punto di vista storico, ma che alla fine, guardando all’oggi, non ha prodotto cambiamenti significativi in una chiesa sempre e comunque dominata da una gerarchia maschilista e patriarcale.

            Guardiamo oltre… con una fiducia nuova e rinnovata nelle promesse evangeliche.

(Memo Sales)

Che dire a commento di questa lettera? O, per lo meno, della sua frase che ho sottolineato e che trovo gravemente insufficiente, in pratica sbagliata? È vero che Memo Sales, poche righe più avanti scrive: «Occorre lavorare e impegnarsi tutti e tutte per costruire cieli nuove e terre nuove», e questo mi pare possa aprire qualche attenzione anche per le formulazioni dottrinali e pastorali dei 16 documenti approvati e promulgati dal Vaticano II, specie se li si confronta con i 70 e più Schemi della lunga preparazione discussa e respinta a larghissima maggioranza dai padri conciliari riuniti in San Pietro. Mi piacerebbe incontrarmi con Memo Sales, in una chiaccherata a Pinerolo insieme agli amici della sua interessante «comunità cristiana di base», magari discutendo di un libro come quello di O’Malley, così istruttivo sugli acquisti venuti dal Concilio e da una sua non banale svolta, rispetto a quel lungo secolo che precedette il Vaticano II.

Vorrei cercare di capire cosa pensino a Pinerolo del «perdono» tra fratelli (e addirittura tra «nemici», come si fa nei «cieli nuovi e terre nuove»). Dal Vangelo sappiamo che, non sette volte dobbiamo perdonare il fratello, ma «settante volte sette». Penso che dentro questa misura abbondantissima, ci stiano anche i giudizi storici più fastidiosi e pericolosi, dati o ascoltati, come a Pinerolo sanno peraltro fare nella realtà quotidiana in molti casi, che le «promesse evangeliche» ci assicurano potere e dovere estendere a tutti, non esclusi i nostri Vescovi, quello di Roma compreso.

Molto dei comportamenti storici delle autorità religiose, quelle cattoliche comprese, può venire discusso, e anche criticato (senza ferire rispetto ed amore): anzi, deve esserlo, proprio perché esse sono autorità e quindi con evidenti e grosse «responsabilità». Ma anche la formula «comunità cristiana di base» individua ed esprime un tipo di autorità, esercitato e rivendicato, «dal basso» e dalla «periferia» invece che dall’«alto» e dal «centro»; democrazia civile e comunione religiosa ammettono entrambe questa relazione. Anche il termine da me spesso usato di «semplici e comuni fedeli», nella realtà storica oggi non è poco ambizioso; necessariamente, quindi, da riequilibrare con vera mitezza e cortesia per tutti, cioè umiltà convinta e non pelosa (se ci riesce di pensarla e di viverla davvero, con fratelli e con conoscenti vari, concorrenti ed eventuali nemici inclusi anch’essi).

Vorrei raccontare all’amico Memo Sales che, chiamandosi mia moglie Ada, mi ha colpito, leggendo insieme il quarto capitolo del Genesi, vedere che questo era il nome anche di una giovane donna moglie di un tipaccio di nome Lamech, lontano parente di Caino. Cantando alla moglie, Lamech si vantava di avere ucciso un giovinetto che gli aveva fatto un livido, e lui se ne vantava cantando «sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette». Ero giovane allora, e mi stupivo che di questo ci si vantasse con l’innamorata, anche se Lamech risultava avere due mogli e la seconda poverina si chiamava Zilla (che io invece non avevo insieme ad Ada). Lamech poi si sbagliava a cantare che «sette volte sarà vendicato Caino», perché dalla Bibbia sappiamo che un segno fu posto da Dio su Caino, proprio per fermare una eventuale vendetta in nome di Abele; questo grosso errore di numero e di concetto, un po’ mi intrigava, tanto più che il «settantasette» che Lamech rivendicava per sé, mi ricordava quel passo del Vangelo in cui, ad una domanda a Gesù «Quante volte debbo perdonare il fratello: sette volte?», Gesù rispose, «Non sette volte, ma settanta volte sette». C’era quel giorno l’Ada, anzi due; c’ero io, c’erano Genesi e Vangelo, quel canto d’orgoglio crudele e quella domanda e quella risposta. Mi parve chiaro che dovevo ammirare che, forse anche per me, si «stringevano i secoli», non pochi tra Lamech e Gesù, e questo mi aiutava a sentire vicino il Vangelo e l’insegnamento che ricevevo: non una volta devi perdonare il fratello, ma «settanta volte sette», rovesciando il modello del canto di Lamech. Gesù conosceva naturalmente bene la Bibbia, non c’era da stupirsi che, secoli e secoli dopo quell’antico terribile canto, lo citasse per spiegarsi nel presente di ognuno: perdonate sempre, perdonate tutto e tutti, come ci fa poi dire col Padre ogni giorno. Non possiamo perdonare i Vescovi, se più conservatori di noi? Dobbiamo riuscirci, pur ricordando a Loro come a noi e a tutti, quel che il Vangelo dice a tutti su amore, solidarietà, eguaglianza, parità e perdono.

Torniamo al Concilio e a quel che ti pare quasi nulla. Angelo Roncalli, eletto papa, 89 giorni dopo la sua elezione, annuncia ai cardinali il suo proposito di convocare un Concilio; lui e i suoi collaboratori curiali e tanti altri vescovi nel mondo e periti e competenti in cose di Chiesa, tutte le autorità, d’ufficio o di conoscenze certificate, in modo aperto e libero, avrebbero dovuto dire come si potevano migliorare comunicazione e programmi pastorali: Roncalli ne sentiva bisogno e lo affrontò subito, anche se il problema era obiettivamente grosso e difficile.

Lavorarono quasi quattro anni, a cominciare dai curiali, con le idee che erano loro care e abituali. Ma poi i 70 e più schemi preparati non risultarono chiari e convincenti, e si riscrisse tutto, in poco più di tre anni. Di 16 documenti conciliari, solo per uno si servirono di uno Schema già preparato, e per tutti gli altri 15 (di cui 8 o 9 molto importanti, credimi!), si lavorò su basi rinnovate e approfondite. La discussione di 50 anni fa si concluse bene in San Pietro, ma la ricezione di quei testi corretti in profondità e chiarezza, è ancora nelle nostre mani e bisognerebbe studiarli di più, per applicarli: non ci possono essere opere e regole sagge, se non c’è una comprensione e un’accettazione di idee giuste, la quale è molto più di una pur importante «memoria». Nella Chiesa Scrittura e Tradizione mi pare stiano sopra anche al Magistero e ai semplici fedeli; e le idee conciliari sono gran parte della politica come organizzazione di mezzi adatti a fini giusti per la Chiesa e la sua Missione.

Dici davvero che non ti interessa quasi nulla di quel «travaglio» importante di ieri e di oggi? In ogni modo i salti nel futuro sono rari e mi pare difficile che si arrivi a movimenti generali e con dettagli innovativi così avanzati come stanno a cuore alle «comunità cristiane di base» senza passare attraverso una maggiore assimilazione della svolta «di principio» avvenuta a metà del secolo XX, e per la quale mi pare giusto essere grati e, se possibile, anche gentili propagandisti! Arrivederci a Pinerolo, se credi. Con amicizia, Gigi Pedrazzi e altri amici del «Nostro ’58».

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