Di fronte allo tsunami corruzione non guasterebbe, forse, se la Chiesa italiana si ponesse qualche domanda in più. Tutta e tutti. Con papa Francesco è tornata in uso la bussola del Concilio e non è un riferimento da poco per chi avverte un senso di schifo non solo come cittadino, ma pure come battezzato. Se non riguadagna, insieme ad un corredo semplice ed efficace di controlli preventivi, di ostracismo sociale, di punizioni vere per fare muro alla correzione, se non riguadagna – dicevamo – spessore individuale e sociale un portafoglio etico-politico, vincerà sempre quell’altro portafoglio.
Serietà degli appalti, dei controlli e delle sanzioni, insomma prevenzione e lotta al crimine sono uno specifico dello Stato.
Ma la Chiesa in materia di retta coscienza e di cultura della legalità ha un suo terreno di azione che è solo suo. Si chiama pastorale, impegna tutta la Chiesa e ha il suo motore nei vescovi. Non sono mancati i moniti delle berrette rosse, però più sui valori irrinunciabili che sul massacro della legalità (leggi per cancellare reati, invasione dei palazzi di giustizia, attacco ai giudici anche per il colore dei calzini; in ogni schieramento arricchimenti personali, finanziamenti illeciti e uso truffaldino di quelli pubblici).
Per carità, moniti e appelli servono. Ma serve anche una pastorale che con una sua pedagogia della legalità alimenti stili di vita e dinamiche sociali. Questa dimensione pastorale è venuta meno nella misura giusta.
Come non sentire una nostalgia tremenda (e un’amarezza appena più contenuta) di fronte alla liquidazione del documento della Cei “Educare alla legalità” durante la stagione di tangentopoli? Non è stato eliso solo un testo, ma è stata mandata in esilio una scelta pastorale, nata con anni di fatica di importanti settori ecclesiali. Viene in mente la Caritas di mons. Nervo, l’Azione cattolica di Bachelet (perché quell’Azione
cattolica è sopravvissuta finché ha potuto al suo grande presidente), al fervido mondo lazzatiano di Milano, agli ordini religiosi che hanno rivisitato profondamente la loro missione. E a tante altre espressioni del mondo cattolico.
Si può ritenere eccessiva la sorpresa: non è la prima volta nella storia che i dieci comandamenti non hanno la medesima cittadinanza ecclesiale; e questa volta è toccato al non rubare. Ma l’amarezza è sacrosanta.
Recuperare quella scelta è possibile, ma non è facile. C’è papa Francesco, è vero. Ma c’è anche una forte resistenza – e non rara l’insofferenza – a papa Francesco. Troppo spesso la Cei é silente o parla con voce flebile dinnanzi a gesti e iniziative del papa. Appare con evidenza che anche tra i vescovi c’è chi lo ritiene una sciagura.
Ecco, è anche il tempo di un nuovo coraggio.
Gigi Massini
12 Giugno 2014 at 11:15
Grazie, sono anni che tento di dire queste cose all’interno della mia Diocesi -Macerata- . Le reazioni sono il non ascolto, la derisione perché sono scontato nel mio dire e l’essere messo da parte. Piergiorgio
28 Giugno 2014 at 13:51
Ottima analisi. Condivido al 100%. Condivido il testo sul ns.sito: http://www.progettosanfrancesco.it
e per il Bilancio sociale di tutte le realtà ecclesiali, politiche, sociali e istituzionali