Nel 1986 Giuseppe Dossetti riprese la parola in pubblico dopo lunghi anni di silenzio. Fu per il conferimento dell’Archiginnasio d’oro da parte dell’amministrazione comunale di Bologna. Quel discorso viene oggi riproposto in un piccolo, prezioso, libro, introdotto da una ricostruzione storica e biografica di Enrico Galavotti e corredato da uno studio conclusivo di Fabrizio Mandreoli, che coglie la rilevanza odierna di alcune annotazioni spirituali e politiche presenti in quel discorso
Le edizioni Dehoniane di Bologna hanno dato alle stampe un prezioso libretto di 145 pagine che ripropone il primo discorso pubblico di Giuseppe Dossetti dopo trent’anni di silenzio, cioè dalla campagna elettorale cui egli partecipò a Bologna nel ’56 (obtorto collo, per obbedienza al vescovo Lercaro) e se si eccettuano gli interventi in consiglio comunale nei due anni in cui vi rimase, nei banchi dell’opposizione, prima di lasciarli per accedere al sacerdozio, e quelli pur rari che tenne nel corso del decennio successivo, fino al 1967, nell’ambito però strettamente ecclesiale (nella diocesi di Bologna e nel Centro di documentazione da lui fondato nel capoluogo emiliano fin dal 1953).
Si tratta del discorso tenuto all’Archiginnasio di Bologna il 22 febbraio 1986, in occasione del conferimento del premio Archiginnasio d’oro, conferitogli dall’amministrazione comunale con voto unanime. Il libro, cui è stato dato il titolo L’eterno e la storia, documenta quell’evento proponendo i due discorsi introduttivi, quello dell’allora sindaco di Bologna, Renzo Imbeni (fu sindaco dal 1983 al 1993, e sarà poi parlamentare europeo fino al 2004), e quello di Giuseppe Lazzati, suo amico e sodale fin dalla fine degli anni ’30, che accettò l’impegno di tratteggiarne il profilo benché sofferente (morirà pochi mesi dopo). Il libro riporta anche uno scambio epistolare tra Dossetti e Imbeni e una lettera a Dossetti del vescovo Giacomo Biffi, all’indomani della cerimonia. Ma, certamente, l’apporto più rilevante sono i due saggi che seguono la riproposizione del discorso di Dossetti (che occupa una trentina di pagine): il primo, scritto da Enrico Galavotti, ricostruisce il contesto storico ed ecclesiale di quel discorso, in riferimento al singolare percorso di vita di Dossetti; mentre il secondo, firmato da Fabrizio Mandreoli, ne compie una rilettura tesa a coglierne gli impulsi ancora straordinariamente vitali per quanti, persone e comunità, cercano di attraversare la vita e la storia come discepoli non infedeli di Gesù Cristo.
Imbeni ricostruisce il rapporto di Dossetti, reggiano, con Bologna e con l’Emilia: i suoi anni di parlamentare, dal ’45 al ’51, i due anni in consiglio comunale, dal ’56 al ’58, i due anni del post concilio in cui Dossetti, con l’avallo del cardinal Lercaro, avviò una collaborazione con il Comune di Bologna per educare la cittadinanza alla pace. Indica nella vita di Dossetti, al di là dei legami con Bologna, “uno degli esempi più significativi e di maggior efficacia della nostra storia nazionale”. E spiega che il riconoscimento dato a Dossetti voleva avere un valore non solo retrospettivo, ma soprattutto rivolto all’avvenire, per far tesoro delle intuizioni più profonde da lui testimoniate. Imbeni evidenzia la ricerca mai soddisfatta di modi e forme per realizzare una società migliore, più giusta e più aperta alla partecipazione di ciascuno, e la messa a fuoco di due nodi cruciali della condizione umana nell’epoca presente: la povertà e la pace, cioè il significato anche storico della povertà sia come rifiuto dell’ingiustizia sia come ricerca di un rapporto nuovo dell’uomo con i beni, e, quanto alla pace, l’analisi lucida delle cause che fanno della società attuale una società violenta.
Lazzati mette in risalto un aspetto particolare dell’esperienza politica di Dossetti nella Democrazia cristiana, e cioè la sua tensione ad aprire orizzonti di partecipazione delle masse di lavoratori fino a quel momento escluse di fatto dalla partecipazione alla vita politica (tensione che, in realtà Dossetti manifestò sempre, sia nell’impegno a dar vita a nuove forme partecipative nei consigli di quartiere a Bologna negli anni in cui fu in consiglio comunale sia anni dopo nell’impostare un abbozzo di riforma ecclesiale post-conciliare nella diocesi di Bologna, incentrata sulla piena partecipazione del popolo di Dio). Ma la parte più rilevante della testimonianza di Lazzati è dedicata alla nascita e allo sviluppo della Piccola Famiglia dell’Annunziata, che è poi la scelta definitiva del percorso di Dossetti, quella su cui concentrerà tutte le sue energie, aprendola a cammini coraggiosi, a Monte Sole, sull’Appennino bolognese straziato dall’eccidio nazista, come in Medio Oriente, cammini lungo i quali testimoniare la predilezione per gli ultimi e il rifiuto della violenza.
Il discorso di Dossetti, in quel febbraio del 1986, ha un andamento singolare. La premessa: tutto quello che ha fatto e che egli è stato, dice, lo deve alle persone che ha incontrato; lui è stato solo un prestanome. Ricorda, tra coloro che non erano più tra i vivi, alcune figure importanti per la sua vita: il padre e la madre, alcuni maestri delle università di Bologna e di Milano in cui ha studiato, i sacerdoti don Leone Tondelli e don Dino Torregiani, De Gasperi che gli diede la fiducia in bianco, i costituenti Moro, Basso e Togliatti, l’amico con cui restò sempre in dialogo e verso il quale il debito è “incalcolabile”, Giorgio La Pira, il cardinale Giacomo Lercaro, alla cui paternità deve – dice – i doni più grandi: l’esperienza della stagione ecclesiale bolognese degli anni ’50 e ’60, la nascita della sua Famiglia spirituale, il sacerdozio e infine la partecipazione al Concilio e al primo post-concilio. E infine, e “sovrastante a tutto”, papa Giovanni, alla cui intelligenza profetica si deve, secondo Dossetti, la possibilità stessa di quel dialogo che ha portato fino all’incontro di quella sera.
Poi Dossetti indica alcune conclusioni, fra le tante, della sua personale vicenda di cristiano e di uomo cui egli è giunto a quel punto – ha 73 anni – della sua vita. La prima è che non si deve concepire la vita come una raccolta di esperienze. Bisogna, ad un certo punto, fare una scelta. “Scegliere e sposarsi”, dice. Con una decisione forte e definitiva. Se si sceglie una via e la si persegue con tutte le proprie forze, quella via non può non aprirsi verso l’alto, cioè verso Dio. La seconda conclusione, che riguarda la disciplina che ha studiato e poi insegnato e sulla quale ha continuato a interrogarsi nel corso di tutta la sua vita anche dopo aver lasciato l’insegnamento, è che il diritto canonico, il diritto della Chiesa nei suoi rapporti con lo Stato, con la società civile, deve riconoscersi – ancora più di ogni altro diritto – “sproporzionato al suo oggetto”, e dunque incapace di adeguarsi veramente rispetto a una realtà – quella della chiesa – che, in una società pluralistica e complessa, si fa (“e si deve fare”) sempre più viva e più spirituale, “tutt’altra cosa dalla così detta societas perfecta”. E di qui il venir meno dell’importanza del Concordato e, invece, il sempre crescente rilievo dell’articolo 8 della Costituzione, che riconosce la libertà e l’uguaglianza giuridica delle diverse comunità religiose. La terza conclusione riguarda la vita monastica, quella che lui ha scelto. Non è stata una fuga dal mondo, né la conseguenza di delusioni o sconfitte. Dossetti dice di non rinnegare nulla di quanto ha vissuto, e di considerare la sua vita monastica una ricapitolazione e un significato ulteriore di tutte le precedenti tappe della sua esistenza. Perché il monaco, dice, è tale quanto più sente in sé e su di sé l’impurità e il peccato propri e di tutto il mondo. La vita monastica è per eccellenza sempre comunione non solo con l’Eterno ma con tutta la storia, e soprattutto con la storia degli umili, dei poveri, dei piccoli, dei senza storia. Proprio nel sentirsi inutili, nell’umiltà più piena, la vita del monaco può dare un contributo anche storico, anche politico. Di questo possibile contributo della vita monastica alla storia del proprio tempo, Dossetti offre quattro esempi, seppur con accenni molto sintetici. Riguardano la castità e il significato dell’amore, la povertà, l’obbedienza e la carità.
La castità che il monaco sperimenta è “un’altra ipotesi possibile” di come vivere l’amore, dice Dossetti, “un’altra faccia della luna”; ha cioè qualcosa da dire alla società odierna “con i suoi divorzi, con il suo libero amore, le sue multiformi infecondità”. La povertà si pone come “un’ipotesi compensativa” di fronte all’affermarsi di una società opulenta, che insegue la potenza in tutti i campi. L’obbedienza, la virtù che ricapitola tutte le altre (e che “s’impara solo dal Cristo”), non soffoca, come sembra, la creatività della persona ma anzi la dischiude e la dilata. Infine, la carità verso il fratello, che per il monaco è un esercizio quotidiano di sottomissione all’altro, un esercizio praticato nella piccolissima scala della vita nel cenobio e dei suoi conflitti domestici, ma che educa ad estendere la solidarietà, progressivamente, ai grandi problemi che travagliano la storia stessa. E su questo punto, per lui cruciale, della pace e della educazione alla pace, Dossetti conclude il suo discorso, portando il concreto esempio della Piccola Famiglia dell’Annunziata che si è portata a Gerusalemme e in Giordania, su una frontiera contesa, in uno dei luoghi più caldi del pianeta, dove il conflitto è massimo, un conflitto che egli vive anche dentro di sé, legato com’è al popolo ebraico e, al tempo stesso, a quello palestinese, vittima di una profonda ingiustizia. Lì, in quella frontiera, interiore e storica, nel superamento del proprio egoismo nel piccolo della vita monastica si gioca – dice Dossetti – “la riuscita e il fallimento della mia vita davanti a Cristo”, e si gioca, al tempo stesso, il suo reale contributo, positivo o negativo, alla salvezza storica del mondo minacciato dalla violenza di armi sempre più potenti. I due livelli, dice Dossetti, si tengono insieme.
Con i contributi di Enrico Galavotti, che è un validissimo storico della chiesa, autore di studi importanti sulla figura di Dossetti, e, in modo particolare, di Fabrizio Mandreoli, presbitero della chiesa di Bologna e teologo, anch’egli studioso attento di Dossetti, il discorso pronunciato all’Archiginnasio viene ripreso, contestualizzato e riletto con l’attenzione a coglierne gli elementi che possono dire a noi qualcosa di vitale per l’oggi su temi fondamentali dell’esistenza cristiana e della questione sulla quale tanto ci arrovelliamo della nostra responsabilità pubblica.
Ma lascio alla lettura diretta delle intense pagine di Mandreoli di seguirlo in questa acuta ricognizione. Mi limito a citare poche righe del suo contributo, là dove, verso la fine, conclude che Dossetti “sostiene un cristianesimo interiore e una presenza nella storia non ossessionata dalla rilevanza, dalla visibilità, dal successo immediato, con l’acquisizione di una capacità di resistenza alla corruzione, alla tecnica, alle forme palesi o occulte del potere”. Se nessuno si scandalizza, specie tra coloro che non sopportano l’attuale premier italiano perché uomo delle banche e della finanza, osservo, a questo proposito, che mi ha colpito una certa assonanza con le parole pronunciate da Mario Draghi nel discorso di presentazione alla Camera del Piano nazionale di ripresa e di resilienza, pochi giorni fa: “Sono certo – ha detto – che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti”. Un’assonanza che, almeno per me, è di qualche conforto.
Giampiero Forcesi