di Francesco Totaro
La prefazione di Francesco Totaro al libro di Guido Meregalli “Dai raga. Il cammino dell’uomo nel secolo delle nuove tecnologie”, (ediz. Mimesis) diventa l’occasione per confrontarsi in questo tempo e con un utilizzo delle tecnologie che ci pone dinanzi alle scelte, per un futuro che non abdica all’umano e riscopre le relazioni di comunità.
Il titolo “Dai raga. Siate umani non macchine” sembra preludere a un discorso apparentemente scanzonato. In realtà Guido Meregalli, pur non essendo né un filosofo né un sociologo di professione, affronta un argomento con un’apertura concettuale che coinvolge con molta libertà categorie sia filosofiche sia sociologiche fondamentali. L’asse concettuale che regge la sua riflessione è quello del rapporto tra essere e divenire nella costituzione e nella formazione dell’umano, sempre esposto alla seduzione del secondo paradigma e sempre attratto dal richiamo del primo. La dialettica tra essere e divenire è per un verso oppositiva, per altro verso è relazionale. Lasciamo al lettore la ponderazione dei due termini in gioco. Ci limitiamo a evidenziare che dalla cura dell’essere prende forma la cultura della cura e del rispetto, dell’accoglienza e della solidarietà. Dal controllo del divenire prende forma la cultura delle libertà e degli interessi individuali. L’essere ispira quindi la cura di sé e dell’altro, si esprime nell’amore, nella gratuità e nel dono. Al divenire si connette la logica del potere, l’economia dello scambio con il monopolio del denaro, la tentazione di ridurre l’altro a dimensione strumentale invece di rispettarlo come fine in sé. Fronteggiare il divenire è però, di fatto, la preoccupazione maggiore dell’umano, che si trova a dover fare i conti con i “casi seri” della sua avventura esistenziale e con il caso più serio di ogni altro: la morte. Per liberarsi dai casi seri dell’esistenza si fa ricorso a strategie di elusione.
Non intendo però fare torto all’abbondanza delle connotazioni, sempre vivaci e ricche di esempi concretissimi, che l’autore dà di questi atteggiamenti antropologici basilari, i quali strutturano tutte le dimensioni del vissuto individuale e collettivo. Perciò mi concentrerò piuttosto sulla rilevanza che nel volume viene attribuita alla tecnologia o, meglio, all’insieme degli apparati tecnologici il cui carattere pervasivo, ma pure elusivo, è sottolineato in modo da costituire una sorta di leit-motiv dell’intera trattazione.
Le tecnologie, per l’autore, offrono oggi la via più facile per sottrarsi ai casi seri della vita e della morte. Tale fenomeno riguarda particolarmente i nativi digitali:: «Ciò che propriamente caratterizza i cosiddetti nativi digitali non è la frequenza o la capacità di utilizzo delle tecnologie, ma il fatto che per loro la realtà è una ed è quella del quarto mondo, popolata da videogame, youtubers, clip, frameworks, video, playlists». «Quanto all’istruzione – si rimarca – internet è per definizione il Signor-so-tutto, al quale si appellano gli stessi insegnanti, figuriamoci gli allievi».
Con immagine icastica, si precisa: «qui sta il punto pedagogicamente più delicato: come un pesce in acqua non sa di essere in acqua e non sa che sopra la testa ha una realtà diversa da scoprire, così il nativo digitale è portato a considerare la realtà artificiale in cui vive. E a pensarla come l’unica realtà disponibile. E farà fatica, ammesso che lo voglia, a rintracciare le forme della realtà vera». In questo modo prende corpo la forza ideologica della rivoluzione digitale, sotto le specie di una rivoluzione apparente che invece taglia le gambe a ogni possibilità di rivoluzione. In definitiva, la cosiddetta rivoluzione digitale ci consegna l’immagine di uomo contemporaneo in apparenza libero di muoversi in mezzo a un numero straordinariamente alto di effetti speciali, con esiti di soddisfazione e di gratificazione che non hanno precedenti nella storia. Non sfugge però il versante, per così dire, oppiaceo della pervasività tecnologica, con effetti anche di de-personalizzazione. A lungo andare, infatti, sarebbe l’infrastruttura tecnologica o la comunità sovraterritoriale dei tecnici a dettare legge: una oligarchia internazionale di tecnici sta acquisendo un enorme potere e si arricchirà sempre più facendo funzionare il sistema. In modo strisciante, con l’evanescenza dello Stato e del popolo, si cade nella «devoluzione» della democrazia ai network. Statenetwork e policrazia rendono obsoleto pure il concetto di “bene comune”.
Alla ideologia tecnologica si contrappone la coscienza etica. A quali condizioni si forma il mondo etico all’interno della coscienza, in modo tale che non sia improprio parlare di coscienza etica? Una condizione, necessaria, sebbene non sufficiente, è che la coscienza resti in rapporto con la realtà vera, in cerca di risposte sempre meno imprecise ai casi seri dell’esistenza. In ogni caso anche per la coscienza etica, che vuole migliorare la realtà, si presenta un’alternativa, a seconda che sia più sensibile all’essere, proprio e altrui, oppure al controllo del divenire e dei suoi processi strumentali. La coscienza etica bene orientata è quella che sa muoversi verso forme progressive, segnate dalla ricerca di verità, autenticità e autonomia in un rapporto con gli altri positivo e costruttivo. Gli obiettivi della coscienza etica sono allora largamente controfattuali o anticipano la figura di un mondo che ancora non c’è. Qui si apre lo spazio dell’utopia, che l’autore configura, specialmente nella seconda parte dell’opera, in una pluralità di forme che si spingono fino alle relazioni di comunità.
In questo tragitto si colloca certamente l’importanza del concetto di persona, che nasce dalla cura e dal rispetto degli altri e si afferma come equilibrio tra la soggettività individuale e le soggettività degli altri. La persona conosce il valore delle relazioni, sa che attraverso esse si costruisce e si incrementa l’essere. Chi ha una bella individualità si distingue per quello che fa (gioca bene, è un bravo tecnico, è un ottimo ricercatore, ecc.), chi ha una bella personalità si distingue per quello che è. La persona inoltre è consapevole che le relazioni entro cui si è formata hanno avuto il carattere della gratuità e non sono state subordinate a particolari forme di compensazione. Il debito di riconoscenza da cui è animata dà vita ad altre relazioni basate sulla gratuità e sulla tendenza all’inclusione. Il personalista quindi non va in fuga da solo, ma cerca di tirarsi dietro il gruppo. Se l’individualista vive del suo «prima me, poi gli altri», il personalista non dice «prima gli altri, poi me», ma dice «me, insieme agli altri».
Per questi motivi, del mondo migliore, nella conclusione, si offre un profilo personalistico: «è innanzitutto un mondo in cui le persone riscoprano il senso dell’essere e sappiano distinguere l’essere dal divenire. Sappiano apprezzare l’essere senza cedere alla preoccupazione per il divenire. Sappiano contemplare l’essere delle cose, delle persone e della realtà, così da conoscerlo a livelli di verità sempre maggiori».
Pongo infine una questione che Meregalli mi suggerisce e tocca il punto del dominio della razionalità tecnologica come dominio sulle altre forme di razionalità: l’insieme delle forme di razionalità costituitesi nella modernità è ormai sotto l’egemonia della razionalità tecnologica?
È evidente che, con il passaggio della tecnica alla tecnologia, in quanto sistema della tecnica che da semplice arte esecutiva diviene procedimento produttivo necessario per cui ne va dell’essere o non essere (del venire all’essere o del non venire all’essere) dello scopo progettato, l’artificio tecnico non si piega semplicemente a un uso strumentale a favore delle altre sfere che intendono servirsene ma rende per esse cogenti il proprio apparato cognitivo-operativo. E ciò al punto tale da esercitare un obbligo di adeguazione che diventa prescrittivo e selettivo per le sfere che ad essa ricorrono. D’altra parte, è pure evidente che senza essere alimentata dalle altre sfere il sistema tecnologico si chiuderebbe in una vuota e spettrale autoreferenzialità. La tecnologia ha bisogno dell’altro da sé per costituirsi ed espandersi come sistema di applicazione universale. Finora noi siamo consapevoli di questa dialettica che impedisce alla tecnica, anche nelle sue versioni estreme e invasive, di farsi autosufficiente e assolutamente surrogatoria.
Anche le presunzioni del transumano di conferire uno status di immortalità all’umano interamente trasferito in prestazioni bio-elettriche-computazionali hanno senso fino a quando si dà un contenuto propriamente antropologico da trasferire. Possiamo davvero pensare un automa antropizzato che introietterebbe in dispositivi di replica all’infinito la totalità delle sfere in cui gli umani hanno espresso nella loro vicenda storica logos e sentimento, ragioni e passioni, hanno subito condizioni di subordinazione e manifestato volontà di riscatto? Insomma, l’apparato tecnologico può entrare in un circolo capace di saturare la totalità delle espressioni dell’umano? Oppure queste ultime devono pur sempre continuare ad affidarsi a luoghi di manifestazione, soddisfazione e godimento del senso dell’essere e del divenire che non sopportano di diluirsi negli imperativi e nei meccanismi della tecnica?
A suo tempo Niklas Luhmann aveva distinto in modo persuasivo, nel sistema complessivo del suo impianto teorico, il sottosistema delle ”relazioni intime”, che non sono trattabili con il metro della calcolabilità tecnica, pena il loro fallimento. Qui assume tutta la sua rilevanza il rapporto tra persone, certamente attrezzate riguardo alle opportunità e alle sfide della tecnica, ma non appiattite su di essa e quindi consapevoli di una differenza da coltivare senza complessi di inferiorità.
A ciò si può connettere un’altra domanda: l’attributo di piacevolezza che l’autore assegna al “quarto mondo”, impregnato di fascino tecnologico, mette fuori gioco ogni altra capacità di attrazione? O si può aprire, facendo leva su messaggi non sequestrabili nelle maglie strette della tecnologia, un terreno di confronto e di sfida alla sua pretesa egemonica? Se dovessimo assegnare il piacevole, e con esso la fruizione estetica della realtà, solo all’”incantesimo” esercitato da quarto mondo, non ci sarebbe più partita per gli attori e le agenzie di senso che sono portatori di messaggi e di annunci non esauribili dalla produzione semantica del quarto mondo.
Siamo grati alla riflessione dell’Autore di questo volume per averci portato, con una scrittura generosa a tutto campo, ad aprire gli occhi sui nostri condizionamenti e sulle nostre possibilità.