Dalla cruna dell’ago – centenario don Milani

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di Paolo Landi

Don Milani di chi è figlio? Di una famiglia borghese ricca di cultura e di storia o di un mondo operaio e contadino che lui ha abbracciato e loro hanno adottato? È comunque “Un maestro che ha cambiato la nostra vita”, scrive un ragazzo di Barbiana, anche a distanza di anni.
Continua il nostro viaggio in più puntate attraverso la testimonianza diretta di chi lo ha stimato e amato. E “prende le misure” a chi ne parla solo per averne letto qualcosa …

In quest’anno del Centenario della nascita di don Milani, una cosa resta indigesta e stucchevole: il tentativo da parte di molti intellettuali di appropriarsi del personaggio don Milani. Sembra quasi che fare propria la figura di don Lorenzo, sia utile per restare lontani dai suoi insegnamenti.
In molte delle iniziative su don Milani organizzate in quest’occasione, vi sia un focus sproporzionato su don Milani come figlio di una famiglia facoltosa dell’alta borghesia, ricca di conoscenze, di terre in Chianti, con ascendenze ebraiche mitteleuropee, cosmopolita, amica di Svevo, Joyce, ecc..

Per questo mondo intellettuale don Milani è stato un grande è perché proviene da questa grande famiglia intellettuale e borghese e se il Lorenzino è diventato un grande della storia, è grazie a questa cultura e a questa famiglia. Se don Milani fosse in vita, sicuramente tirerebbe il tavolo in testa a tutti questi intellettuali intenti a lisciargli il pelo per accreditarsi almeno una parte della sua eredità intellettuale.

Il tentativo di assegnare don Milani alla sua classe di nascita borghese è un falso storico e un insulto al suo vissuto. È anche un tentativo maldestro di un certo mondo di appropriarsi della sua persona, per marginalizzarne i suoi insegnamenti, che restano troppo scomodi per un certo mondo intellettuale.

Sono debitore

Scrive don Milani In Esperienze Pastorali: «Sono debitore. Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini a cui ho fatto scuola, quello che loro credevano di stare imparando da me, sono io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto ad esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere. Sono loro che mi hanno avviato a pensare le cose che ho scritto. Sui libri di scuola io non le avevo trovate, le ho imparate mentre scrivevo e le ho scritte perché loro me le avevano messe nel cuore».
Al momento della morte, sussurra a Michele: «Qui in questo momento sta succedendo qualcosa di grande, un cammello sta passando per la cruna dell’ago, riferito alla possibilità che un ricco possa entrare in paradiso».

In seminario
Don Milani con la sua decisione adulta di entrare in seminario, rompe con la famiglia e rinnega il suo status di borghese. Qui dorme su una branda militare; i viveri che gli arrivano dalla tenuta di Gigliola in Chianti (era il periodo della guerra), li mette in comune con tutti gli altri seminaristi.
Ordinato sacerdote, va a fare il Cappellano a San Donato di Calenzano. Anche perché la richiesta di quel parroco al vescovo, era che gli assegnasse un Cappellano che non avesse pretese economiche.
La curia Fiorentina lo trasferì a Barbiana perché era ritenuto una campana stonata (la frase è del card. Elia Dalla Costa). Don Lorenzo accetta l’esilio e diffida la madre da intervenire sul Vescovo.
Per campare a Barbiana, in questa realtà poverissima di montagna, senza acqua potabile, senza strada né luce elettrica, saranno decisive le borse di viveri che portano a Barbiana le famiglie di San Donato.

La grandezza di una vita

Da Barbiana don Lorenzo scrive alla madre che «la grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, né dal numero dei parrocchiani, ma tutt’altre cose». In quel tutt’altro c’è la sua scelta rigorosa di vivere il Vangelo, di immedesimarsi nella condizione operaia di San Donato, di accettare il trasferimento (l’esilio) a Barbiana, una parrocchia che la curia di Firenze aveva già deciso di chiudere. In quel tutt’altro c’è il don Milani che si identifica nei sogni e nelle speranze del mondo contadino, come scrive nella Lettera dalla Montagna, dove afferma: «art. 1 – la terra in montagna appartiene a chi ha il coraggio di lavorarla … la stalla a chi ha il coraggio di pulirla…»
In quel tutt’altro c’è la Scuola popolare a San Donato rivolta a tutti i giovani lavoratori: bianche e rossi, sottolinea. C’è la scuola di Barbiana per i figli dei contadini, aperta 365 giorni l’anno e per 12 ore al giorno. In quel tutt’altro c’è la scelta di spendere la propria vita per gli altri o come diceva lui per il prossimo, di «… essere uno di noi per elevarci ad una cultura ed una dignità, non pari, ma superiore a quella dei borghesi». Don Milani abbandona e rinnega tutto il mondo borghese, eccetto il suo livello di cultura, che vuole mettere a disposizione del mondo dei poveri, i quali, per nascita, non l’hanno potuta ricevere.
A questo fine, invita i giovani intellettuali fiorentini cattolici a lasciare l’Università per mettersi a fare scuola agli operai. Lo fa con Marcello Inglesi, allievo di padre Balducci e con Giancarlo Melli: «lascia il tuo mondo – gli dice – e apri una bella scuola popolare a Firenze». Lo fa anche con la giovane Nadia Neri, che si scervella su come trovare Dio e amare i poveri. Le dice: «mettiti a fare scuola; troverai Dio senza accorgertene e, se Dio ci ha dato un’intelligenza limitata per poter amare poche persone, significa che non ci chiede di più … non si può amare tutta una classe sociale …».

Anche don Bensi non capisce
Questo è il don Milani che ha cambiato pelle; il Lorenzino, che per nascita appartiene alla razza bianca, ma che poi per scelta diventa il don Lorenzo che decide di appartenere alla razza nera, identificandosi con i poveri, gli ultimi, gli emarginati e gli sfruttati.
Anche il suo padre spirituale, don Bensi, fatica a capire una scelta così radicale, ossia come lui a Barbiana avesse potuto diventare “uno di noi”. Infatti, dopo aver visitato don Milani, già gravemente ammalato, don Bensi, in un’intervista TV a Biagi, che gli chiede cosa l’avesse colpito di più in don Lorenzo, così risponde: «mi ha colpito la sua capacità di annullarsi fra i poveri, fra i ragazzi, fra la gente senza nome, senza importanza. Ricordo un giorno che capitai a Barbiana senza preavviso, quando già era attaccato dal cancro. Lo trovai come al solito nella stanza che serviva da scuola, era steso nel buio su un pagliericcio, accanto aveva una donna, la vecchia scema del paese, e i ragazzi meno intelligenti. Erano lì, tutti in silenzio con gli occhi fissi su di me, come se stessero assaporando fino in fondo la loro sofferenza, la loro solitudine, la loro sconfitta umana. E lui era uno di loro, non diverso, non migliore. Ed era già condannato a morte. Mi vennero i brividi. Capìi allora più che in qualunque altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato. L’uomo che sapeva tante lingue, in grado di parlare di teologia, di filosofia, d’arte, di letteratura, d’astrologia, di matematica, di politica come pochi altri, lì, nel buio di quella stanza, accanto a quei mostri. Fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote.

Ventidue anni per uscire dalla classe borghese

Essere diventato il grande don Milani non è dipeso né alla sua nascita, né alla sua cultura borghese, né al suo essere un intellettuale raffinato. È lui stesso a negarlo.
All’avvocato Gatti, suo difensore nel processo per l’accusa di apologia di reato, nel 1965 scrive: «ci ho messo 22 anni per uscire dalla classe sociale che scrive e legge l’Espresso e il Mondo. Non devo farmene ricattare neanche per un giorno solo. Devono snobbarmi, dirmi che sono ingenuo o demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono. Io da 18 anni non ho più letto un libro, né un giornale se non ad alta voce con dei piccoli Editori. Nella chiesuola delle elite intellettuali, tutti hanno letto tutto e quello che non hanno letto, fingono di averlo letto. Dunque Barbiana è un’altra cosa: una poverissima scuola di montagna dove si legge poco, si scrive poco, ma quel poco è tanto pesato che alla fine fa impressione persino a voi. Ma non è scritto per voi. Dunque dobbiamo dissociarci sempre, per non lasciarci catturare».
Mi piace ricordare anche l’insegnamento che mi dette la sera prima che partissi da Barbiana per Milano per fare il sindacalista: «Non devi mai seguire la demagogia, assumiti sempre la responsabilità nel fare ciò che ritieni giusto. Di fronte a una cosa giusta, anche se è rischiosa, non tirarti indietro e non voltarti dall’altra parte. Un dirigente sarà riconosciuto tale, solo se è capace di portare avanti un problema che ritiene giusto, anche se è considerato impopolare». E poi ancora: «La fede di un cristiano non si misura su quante volte cita il Vangelo o la dottrina. Anzi, se lo fa significa che ha poca fede; la Fede è un modo di vivere, di pensare …. Non dimenticare che il buon Dio ci ha dato due mani: una per rispondere ai bisogni urgenti del povero e l’altra per rimuovere le cause che rendono il povero emarginato. Chi si limita solo a fare l’elemosina non è un buon cristiano, chi si limita solo ad invocare più giustizia, non è credibile. Gesù ripeteva che ha insegnato più col nascere in una stalla e morire sulla croce, rispetto a tutte le cose che ha detto»

Un grande che resta scomodo.

Cari intellettuali, la pretesa di voler collocare questo grande uomo nella famiglia dei borghesi, per esaltare un mondo che lui ha voluto abbandonare, è una mistificazione. Don Milan è un grande non perché è nato borghese. Questo cordone ombelicale l’ha reciso con la sua entrata in seminario. Forse l’aveva reciso anche prima. Sia quando prendeva brutti voti in pagella, che può essere letta come una contestazione giovanile alla scuola meritocratica; sia quando rifiuta di andare all’Università per dedicarsi alla pittura, può considerarsi una rottura rispetto ad una tradizione della famiglia.
Una analoga lettura potrebbe essere data quando, da seminarista, decide di non partecipare ai funerali del padre. Su questo fatto ho chiesto una spiegazione a sua nipote Valeria; mi ha risposto che, secondo lei, essendo il padre una persona non religiosa, Lorenzo non voleva mettere in difficoltà la famiglia con la sua presenza di seminarista ad un funerale non religioso. È una motivazione opportunistica che non convince: non appartiene al carattere di don Lorenzo. Forse, il non aver partecipato ai funerali del padre è stato per voler testimoniare ai seminaristi e ai superiori, che lui da quella famiglia e da quel mondo borghese, ne era uscito proprio con l’entrata in Seminario.
Un altro gesto forte, che testimonia la sua scelta radicale, fu quando, appena arrivato a Barbiana, si preoccupò di acquistare la sua tomba nel piccolo cimitero di quella isolata parrocchia.
Don Milani quindi è un grande non perche è figlio del mondo borghese, ma perché e diventato un figlio del mondo operaio e contadino nel quale si è identificato. Infatti diceva: … la cultura vera è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola.
Don Milani è un grande anche perché ha legato la forza della parola a tre aggettivi: coerenza, esempio e testimonianza. Sono questi tre aggettivi che continuano a dare forza alle parole di don Milani.
E sono sempre questi tre aggettivi che rendono scomodo don Milani per un certo mondo intellettuale abituato a usare la dialettica della parola per avere ragione. Scomodo per il mondo della politica, quando ricorre alla demagogia per ricercare i consensi. Scomodo per un certo modo di fare scuola, quando richiama a come bisogna essere, come insegnanti, quando si fa scuola. Scomodo alla gerarchia ecclesiastica che troppo spesso si nasconde dietro l’ubbidienza, per non essere messa in discussione.
La forza della parola di don Milani, non è data soltanto dalla creatività (che resta un aspetto importante), ma dalla coerenza tra il dire e il fare. È questo aspetto che rimproverava a tutti: agli intellettuali, alla politica, alla scuola, al sindacato, alla stessa Chiesa.

Rispettare storia e insegnamenti

In conclusione, considero importante che su don Milani, continui ad esserci un’ampia ricerca e discussione: più è ampia e meglio è. Ma bisogna evitare che siano stravolti i suoi insegnamenti e la sua storia.
Ad esempio, la Curia di Firenze, nei due giorni di Convegno sui rapporti tra la Chiesa e don Milani, omette di ricordare un fatto molto importante. Cioè, l’intervento di Papa Paolo VI per impedire al Vescovo Florit di assumere un provvedimento di sospensione a divinis contro don Milani.
Poi alcuni intellettuali (a lui vicini) provano ad ascrivere alla loro classe il profeta don Milani. Mentre altri intellettuali (a lui lontani) gli addebitano la crisi della scuola, definendolo “profeta della decivilizzazione.
Per me, ma anche per tutti noi ragazzi di Barbiana, resta il Priore. Un uomo solare, un prete di fede, un maestro rigoroso, un padre affettuoso.
Un maestro che ha cambiato la nostra vita.

22/05/2024

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