Un’esperienza lacerante
Questi mesi di Covid-19 ci consegnano una quantità incontenibile di parole, immagini, interpretazioni, previsioni. Non è facile orientarsi. Vi si trova di tutto e il suo esatto contrario. La complessità del fenomeno è tale da non poter essere ricondotta ad analisi semplicistiche. Da qui l’esigenza di provare a mettere un po’ di ordine, sottraendoci allo stordimento degli interminabili giorni della grande prova. Sono diversi i profili interessati dalla dolorosa vicenda.
Quello medico-scientifico e sanitario balza in evidenza. Anche i ricercatori di settore (microbiologi, virologi, immunologi, epidemiologi…) sono stati presi alla sprovvista dal Sars-Cov-2, nonostante i progressi ottenuti in precedenza nel contrasto ad altri esponenti della “famiglia” Coronavirus. Sull’identità del nuovo arrivato, infatti, brancolavano nel buio. Non c’erano mezzi di difesa specifici. Inevitabile l’affannosa rincorsa al vaccino.
Sennonché, anche la ricerca in campo medico, per approdare a risultati sicuri, ha bisogno di tempo, mai preventivabile a priori. Muove dalle acquisizioni teorico-pratiche sin lì conseguite e s’inoltra, con nuove ipotesi, in campi di conoscenza inesplorati, seguendo protocolli procedurali e di validazione (o meno) degli esiti ottenuti.
Nei giorni più drammatici dell’attacco pandemico si percepiva un’attesa spasmodica di risposte immediate da parte della scienza. Che non potevano esserci. Di conseguenza, la rituale comparsa quotidiana nei media di scienziati e scienziate, al di là di alcune parole chiarificatrici, sovente non riusciva a soddisfare le domande più urgenti e reiterate (natura del virus, sua evoluzione, terapie ecc.). Con l’aggravante di posizioni talvolta contrapposte (per esempio, sulla pericolosità dell’infezione). Da tutto ciò, forse, abbiamo ricavato almeno una lezione: sui limiti della stessa scienza medica.
Quanto all’ambito sanitario, si è giustamente celebrata la dedizione eroica di medici, infermieri e altri operatori nei nosocomi. In molte situazioni hanno compiuto autentici miracoli! Con il passare delle settimane sono però venute a galla le inadeguatezze nella gestione complessiva del problema. Dalla mancanza dei mezzi basilari di protezione, diagnosi e sostegno (mascherine, guanti, tamponi, respiratori…) alla discutibile strategia d’intervento, concentrata sull’ospedalizzazione degli infetti, a detrimento di interventi preventivi e di cura, per quanto possibile, fra le mura domestiche e/o in presidi territoriali. In questa circostanza, poi, non è parsa adeguatamente valorizzata l’esperienza dei medici di famiglia: una risorsa troppo preziosa per essere trascurata. Da qui il fatale ingolfamento delle strutture di Pronto soccorso e dei reparti ospedalieri, dove è risultato subito drammatico l’insufficiente numero dei posti letto di terapia intensiva. In questo modo gli stessi ospedali si sono trasformati in ambienti di propagazione del virus. Per non parlare della sciagurata richiesta di dislocare nelle RSA, senza le rigorose cautele del caso, persone dismesse dal ricovero ospedaliero, ma non ancora guarite. Ad aggravare la situazione, lo scarso coordinamento fra le direttive del governo centrale e delle autorità regionali, nonché le diverse linee d’intervento da regione a regione. Dall’insieme di tali criticità, inevitabili gli interrogativi sul disegno globale delle politiche sanitarie, rivelatosi impari di fronte agli stress più duri. A bocce ferme, è legittimo attendersi un ampio riesame della materia, ponendo riguardo agli aspetti critici appalesatisi circa il continuum fra prevenzione (spesso insufficiente), cura dell’acuzie (sovente di buon livello) e fasi di riabilitazione, nonché di lunga degenza socio-assistenziale.
Naturalmente, il problema pandemico, con l’inarrestabile sequenza di persone morte nel totale anonimato, senza il sostegno della vicinanza familiare e l’assicurazione del conforto religioso per i presumibili molti richiedenti, ha avuto forti ripercussioni a livello psico-sociale.
Distanziamento, reclusione domestica, limitazione degli accessi pubblici, hanno segnato la vita di tutti noi in questi due mesi. Con incidenza, di vario grado, anche sulla psiche. Non pochi, sia giovani sia adulti, stando alle informazioni degli psicologi clinici, si sono trovati con il passare del tempo incapaci di gestire le ripercussioni interiori di una condizione esterna inedita e ad alto tasso di criticità. Sono così venuti a galla sentimenti e sensazioni di disagio, insicurezza, paura, sino a forme di angoscia, difficili da gestirsi. La cosa non sorprende. Sappiamo che eventi di grande drammaticità (guerre, bombardamenti, terremoti…), dove il sottile confine fra la vita e la morte è costantemente sul punto di sfaldarsi, producono scombussolamenti interiori.
Questi disagi psicologici hanno fatto crescere la percezione di un senso di vulnerabilità e fragilità tanto del singolo quanto del complessivo sistema sociale. Pensavamo di potere sempre più incrementare la capacità di dominio su noi stessi, sugli avvenimenti, sul futuro, sostenuti da fiducia incrollabile nella razionalità tecnica e programmatoria, ci troviamo invece deboli, insicuri e impauriti. L’irrompere sulla scena di variabili impreviste e fuori controllo ha eroso parecchie nostre certezze.
Con tutti i guai che ci ha rovesciato addosso, la vicenda pandemica è stata però, in molte persone, occasione sollecitante di un’attitudine pensosa. Sono così scaturite riflessioni da tempo, se non proprio censurate, certo non in primo piano, presi come siamo stati dai vertiginosi ritmi della quotidianità. La questione del senso è la formula sintetica intorno alla quale può essere raccolto il cumulo di domande affiorate in credenti e non.
Tutti a domandarsi il perché di eventi così drammatici e dolorosi. Ciascuno con il suo tentativo di risposta, sovente lasciandoci ispirare dalle grandi pagine letterarie intorno a pestilenze e sofferenza degli innocenti. Sulle labbra l’inevitabile (e terribile) domanda: «Dio dov’è?». Qualche ingenuo zelante (come gli amici di Giobbe) ad affrettarsi nel rispondere, mentre servirebbero discrezione e compostezza. In certe situazioni, le parole non solo non convincono, ma irritano. Come dimenticare la potente immagine di papa Francesco, solo, il volto impietrito, che attraversa sotto la pioggia una spettrale piazza San Pietro per approdare dinanzi al Crocifisso esposto con un’accorata invocazione di affidamento, dove la palpabile delusione del silenzio di Dio non spegne però la speranza? Una scena emblematica e istruttiva più di tante – pur necessarie – dissertazioni teologiche.
Quasi a voler dissipare una lettura unicamente catastrofistica della vicenda pandemica, molti hanno fatto a gara nel sottolineare le opportunità offerte, nonostante tutto, dalla situazione vissuta d’isolamento e sofferenza. Si è detto e scritto che in questi lunghi giorni “sospesi” è stato possibile recuperare consapevolezze a volte sfiorite (senso del tempo, valori domestici, coscienza dei nostri legami), unitamente a «buone pratiche» di umanità (esercizi di affinamento dell’animo, per esempio, tramite lettura, musica) e di convivialità (in famiglia, nel vicinato, in forme di solidarietà allargata).
Vero. Ma per molti non è stato così. In tanti casi, infatti, l’esperienza d’isolamento ha prodotto effetti di segno diverso. Là dove gli spazi abitativi sono ristretti, si è assistito piuttosto all’insorgere di tensioni relazionali, manifestazioni claustrofobiche, aggravamento delle dipendenze da social, appesantimento della condizione fisica. Senza dimenticare, poi, chi non ha una casa degna di questo nome. Ancora una volta le diverse condizioni socio-economiche hanno fatto la differenza.
Va comunque detto che il distanziamento fisico cui siamo stati costretti ci ha condotti a sfruttare le risorse messe a disposizione dalle nuove tecnologie di comunicazione per rinsaldare i legami sociali. Questa forma comunicativa ‒ ne siamo consapevoli ‒ non può surrogare le relazioni personali dirette. Tuttavia, le opportunità offerteci dagli strumenti informatico-digitali vanno rivelandosi sempre più importanti per la vita personale e collettiva nelle stesse fasi di emergenza. Purtroppo, anche su questo versante, l’indisponibilità economica ha posto in risalto disuguaglianze nella fruizione di tali mezzi (com’è avvenuto per la didattica scolastica on-line). Forse è il caso di pensare al varo di un grande piano nazionale per mettere tutti i cittadini nelle effettive condizioni di potersene avvalere.
Il quadro d’insieme s’incupisce non poco, se consideriamo gli effetti della pandemia sui versanti economico e lavorativo. Possiamo discutere a lungo circa le modalità di attuazione del blocco delle attività produttive e commerciali, ma nella fase di maggiore virulenza del contagio la loro sospensione temporanea era pressoché obbligata per salvaguardare la vita e la salute di tutti, specialmente delle persone più fragili. Di conseguenza, nel conto andavano poste anche le gravi ripercussioni occupazionali. Un dato è certo: la tenuta socio-economica del paese, già non brillante, ha ricevuto un durissimo colpo. Avremo modo di verificare l’efficacia o meno delle manovre predisposte dal governo. Così come vedremo quella degli annunciati sostegni europei. Del resto, da soli non possiamo reggere il peso di una prova così ardua. Con buona pace di chi, di fronte all’iniziale mancanza di solidarietà dell’Unione – poi, in certa misura rientrata – ha tentato di sfoderare l’orgoglio dell’autosufficienza patriottica.
La pandemia ha colto il paese in una fase, per così dire, “sospesa” anche dal punto di vista politico. Oggi abbiamo un governo “di necessità” e “di convenienza”. Debole o quantomeno non abbastanza forte né coeso e autorevole come richiederebbero le drammatiche quanto urgenti sfide sul tappeto. Tra ideologismi persistenti, veti incrociati, impulso irrefrenabile a porre la propria “bandierina” sulle singole misure, ostruzionismi vari, ha del miracoloso il varo di manovre così cospicue a sostegno delle imprese e delle categorie di cittadini particolarmente colpiti dalla crisi (ma va pure detto che l’effettivo beneficio per i destinatari tarda ad arrivare, causa insopportabili lungaggini burocratiche).
Dopo la Cina e l’Iran, in Occidente noi abbiamo fatto da battistrada nell’impervio tragitto pandemico. Sebbene in misura e con tempi di scaglionamento differenti, anche gli altri paesi si sono trovati alle prese con i nostri medesimi problemi. Dunque, la sfida è globale. «Siamo tutti sulla stessa barca». Cosicché s’illude chi pensa di potersi salvare da solo. Vale per il campo economico. Vale per quello ambientale, settore dove da tempo sono venuti a galla gli effetti devastanti del nostro atteggiamento predatorio verso la terra e i suoi «beni comuni». Con un convincimento ulteriore, che sta prendendo piede fra gli stessi scienziati: ossia, l’incidenza dello stravolgimento dell’ecosistema anche sulla diffusione delle pandemie.
Per ricostruire (o ripartire)
Tempo di ricostruzione (o, comunque, di ripartenza) dopo Covid-19? Sembra proprio di dover rispondere affermativamente. L’opera non potrà non essere ampia, profonda e articolata. Bando alla retorica del tipo: «… ne usciremo tutti migliori». Non c’è mai nulla di automatico nei processi storici (e in quelli personali). Entrano in gioco molte variabili, non di rado imprevedibili. Fra l’altro, bisogna sempre fare i conti con l’intreccio complesso delle libertà individuali e delle loro ricadute sul piano collettivo. In ogni caso, occorrerà procedere a scelte precise: dai livelli politico-istituzionali a quelli attinenti alla realtà sociale sino al profilo “molecolare”, di diretto coinvolgimento del singolo. L’auspicio è che dalla dura esperienza di questi mesi si possa trarre qualche utile lezione.
Per incominciare, sul piano psico-sociale (e antropologico). Sono chiamate in causa la coscienza personale e quella collettiva, sollecitate da analoga istanza ricostruttiva. Tema complesso, qui circoscrivibile a qualche semplice sottolineatura. La prima, relativa a un punto emerso in molte riflessioni sulla pandemia, concerne l’auspicabile recupero di maggiore consapevolezza circa ciò che realmente conta nella vita. Ognuno può inserirvi sensibilità proprie. Però tutti potrebbero convenire su aspetti come uso del tempo, discernimento fra essenziale e superfluo, consapevolezza della propria vulnerabilità, qualità delle relazioni interpersonali. Analogamente, non dovrebbe essere difficile trovare un’intesa almeno sull’esigenza di ripensare il rapporto fra autonomia/libertà e responsabilità, troppo spesso adulterato da logiche individualistiche, rafforzate da neo-liberismo e consumismo. «Nessun uomo è un’isola» recita il titolo di un famoso libro di Thomas Merton (tratto dal passo di una lirica di John Donne). Fuori dalle ricorrenti tentazioni di autosufficienza, mai come in questi giorni di dolore abbiamo sperimentato la verità di essere gli uni legati agli altri, partecipi di un comune destino. Una presa d’atto che interpella in modo particolare il settore educativo, con le sue molteplici “agenzie”. Accanto ad esse è bene porre in risalto il ruolo delle Chiese per maturare una diffusa consapevolezza dell’interdipendenza solidale. Tema rispetto al quale nemmeno i media possono sottrarsi.
La seconda sottolineatura concerne la dimensione del civismo. Questione storicamente critica per noi italiani. Siamo anche emotivamente pronti a slanci simil/patriottici, magari per farci reciproco coraggio nei momenti difficili (come con le bandiere e la musica dai balconi di queste settimane). Quanto però a senso civico, rispetto delle regole, coscienza dei doveri comunitari, legalità, rimaniamo troppo inadempienti. È l’idea di comunità nazionale da ricostruirsi (o, forse meglio, costruirsi). Localismi e regionalismi imperano. Con le conseguenze centrifughe e confusionarie sperimentate nei giorni dell’emergenza. Si spera che la vicenda pandemica, pure su questo versante, possa avere insegnato qualcosa, quantunque il sano realismo induca a non farci troppe illusioni. Del resto, l’invocato «ritorno alla normalità» non vorremmo che significasse, nella mente di qualcuno – o di molti –, ripresa anche dei consolidati vizi individuali e collettivi. Ovviamente, l’educazione riveste primaria responsabilità in ordine alla crescita della stessa coscienza civica.
Certo, la ricostruzione post-pandemica di cui stiamo parlando, pur avendo principalmente di mira l’orizzonte interno, non può ignorare quello internazionale, stanti gli stretti fili della loro interconnessione. Inevitabile, quindi, il rinvio al capitolo globalizzazione. Da tempo è alle spalle una visione confidente di essa, come prospettiva di apertura e integrazione del mondo, delle economie, delle società, suffragata dal convincimento – fideistico – della capacità autoregolatrice, in vari sensi, del mercato. Un fenomeno, dunque, da ripensarsi nelle sue dinamiche di fondo, anche alla luce della pandemia. Le recenti guerre commerciali, sommatesi alla paura dei fenomeni migratori, hanno accelerato le tendenze protezionistiche dei singoli Stati e la chiusura arcigna delle frontiere. Ne esce l’immagine di un mondo sempre più frammentato, in preda a dure logiche sovraniste. Ciò configge non solo con la visione del pianeta terra come unica «casa comune» degli esseri umani, ma anche con le esigenze di solidarietà attive poste in risalto da Covid-19 almeno per un aspetto di universale convenienza: quello della collaborazione medico-scientifica nella lotta al virus. In questo ordine di considerazioni suscita viepiù scandalo la spesa in armamenti terrificanti e costosissimi rispetto alla scarsità di risorse destinate alla ricerca.
Va da sé che la ripresa ricostruttiva del nostro paese debba procedere con gradualità. Intanto compete a Parlamento e governo l’onerosissima gestione delle fasi di passaggio dall’emergenza alla normalità della vita civile. Un’azione, però, da inquadrarsi sin d’ora in una prospettiva di forte impegno riformatore, che attende la classe politica nel prossimo futuro.
Alla luce delle nuove urgenze sollecitate dalla crisi pandemica, si dovranno fare i conti con un Welfare di spiccato carattere universalistico. La legislatura si era aperta con le due misure simbolo dei partiti approdati al governo (M5Stelle e Lega): Reddito di cittadinanza e Quota cento. Oggi riesce ancora più chiaro come la prima, improvvisata e mal congeniata (confondeva problemi distinti: contrasto alla povertà e sostegno all’occupazione), rispondesse tuttavia a un’esigenza, fattasi più pressante, di soccorso a chi non ce la fa; mentre la seconda, temporanea e iniqua, fosse sbagliata in sé (basti considerare gli effetti sul piano sanitario, con il depauperamento degli organici di medici e infermieri, drammaticamente avvertito in questi mesi di emergenza).
In tema di priorità programmatiche, merita notare come lo tsunami della pandemia, nel giro di poche settimane, abbia profondamente cambiato l’agenda politica. Si pensi all’ossessione per l’immigrazione e alla presa dell’anti-politica, i due cavalli di battaglia che hanno fatto la fortuna elettorale dei populisti nostrani. Deve valere anche per l’ambito politico ciò che si è detto, più in generale, riguardo alla vita: ossia, il cresciuto affinamento, dovuto proprio alla drammatica esperienza di dolore e morte, della capacità di distinguere le cose essenziali da quelle meno rilevanti o addirittura superflue. V’è da augurarsi che politici e amministratori pubblici se ne rammentino anche una volta tornati alla normalità.
Abbiamo accennato al settore sanitario, bisognoso di un profondo riesame degli aspetti organizzativo-gestionali, compresi i rapporti fra governo centrale e regioni. Ad esso si affiancano altre realtà per le quali necessitano robusti interventi, atti a ridurre le insostenibili e generalizzate condizioni di diseguaglianza socio-economica. Pensiamo: alla famiglia, lasciata sempre un po’ a sé stessa (come dimostra anche la fatica di molti genitori a gestire, sotto vari profili, i propri figli dopo la chiusura delle scuole); al mondo del lavoro nel suo insieme, piegato dalla grave crisi e in attesa, oltre che degli indispensabili aiuti momentanei, di una seria revisione del peso fiscale, con l’annesso aggravio burocratico; ai casi di povertà (a quelli cronici si sono aggiunte le situazioni di molte persone ridotte sul lastrico dagli effetti della pandemia). Un discorso a sé merita la scuola, anch’essa uscita provata dall’emergenza. Si tratta di un «bene comune» di decisiva importanza per il presente e il futuro del paese. La sua ripartenza dovrà avvenire in piena sicurezza. Ma questo esige interventi cospicui di manutenzione degli edifici, oltre a un ripensamento ex-novo dell’organizzazione di spazi, tempi e modalità della didattica. Ovviamente, nell’agenda politica per la ripresa confluisce una ben più vasta serie di problemi (mobilità, trasporto pubblico, gestione dei grandi eventi sociali, sicurezza, vigilanza su rischi di infiltrazioni malavitose…), ognuno dei quali ad alto indice di difficoltà (e di ricadute anche sul piano dei consensi elettorali).
Fra i molti dubbi e interrogativi, la vicenda del Covid-19 ci consegna però una certezza: la centralità dello Stato ‒ o, per meglio dire, della Repubblica, come insieme delle potestà pubbliche ‒ per far fronte a una situazione tanto drammatica sull’intero territorio nazionale. Una lezione ammonitrice nei confronti delle molte linee di fuga perseguite nel recente passato all’insegna di neo-liberismo, de-regulation e localismi spinti. Vuole essere non acritica difesa dello Stato e dei suoi poteri, che devono restare, in ogni caso, nei limiti costituzionali, ma riconoscimento della sua funzione di garanzia, tutela e coesione a servizio dell’intera comunità nazionale. Uno Stato che anche dall’esperienza pandemica ha mostrato quanto debba ammodernarsi, snellirsi, velocizzarsi nei suoi apparati gestionali, sempre appesantiti da eccessi burocratici.
La prova di questi mesi induce ad almeno altre due considerazioni. Una concerne l’Unione europea. Anche qui un’evidenza incontestabile: senza Europa o con un suo sostegno al di sotto delle obiettive necessità nazionali ‒ lo abbiamo ricordato ‒ non possiamo farcela. Le promesse d’intervento inducono a cauto ottimismo, dopo le dure tensioni con i soliti rigoristi economico-finanziari immemori dei negativi risultati di una tale linea, oltre che interpreti di scarso senso di solidarietà comunitaria. Con una conferma: nelle trattative europee non pagano atteggiamenti “bulleschi”. Occorrono grandi capacità diplomatiche, argomentative e di mediazione, unite a testimonianze di credibilità o, quantomeno, di disponibilità nell’intraprendere, a casa propria, percorsi virtuosi di gestione delle risorse.
L’altra considerazione attiene alla democrazia. Dalla vicenda di questi mesi è emersa su scala internazionale l’esigenza di una sistematica verifica dello stato di salute dei cittadini, lasciando di ciò traccia documentale in specifico archivio informatico. Uno screening di simile natura determina, inevitabilmente, una forma di controllo sulla privacy. In ottica sanitaria, si comprendono le ragioni di tali misure, anche perché, stando agli esperti, il futuro potrebbe registrare il ripetersi abbastanza frequente di eventi pandemici. Pure nel nostro caso sorgono, però, seri interrogativi sulla possibile fruizione impropria dei dati sensibili acquisiti. Interrogativi legittimi, che inducono a vigilanza democratica. A maggior ragione in una fase come l’attuale, dove aspirazioni autocratiche e richieste di pieni poteri per tempi difficili circolano in tutta Europa.
Da noi, inoltre, l’adozione di numerosi decreti del presidente del Consiglio dei ministri, limitativi di un certo grado di libertà pubbliche, anziché l’utilizzo dei decreti legge, con esautorazione, di fatto, del Parlamento, non può non suscitare motivi di perplessità costituzionale. La questione, di obiettiva delicatezza, rinvierebbe a un lungo discorso circa lo «stato di eccezione», vivacemente discusso dagli studiosi di politica e istituzioni. Qui basti ricordare che esso non figura nella nostra Carta, la quale, grazie al mix di sana rigidità di princìpi/diritti fondamentali e loro flessibile adattamento alle situazioni, resta riferimento sicuro pure nell’emergenza. Al riguardo, conviene menzionare un passo della recente dichiarazione (28 aprile 2020) della presidente della Suprema Corte: «La Costituzione […] non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per navigare per l’alto mare aperto nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini».
In definitiva: stagione indiscutibilmente aspra e lacerante quella che ancora stiamo vivendo, pur essendo usciti dalla più acuta fase emergenziale. Ma non scevra di opportunità e inviti da raccogliersi, sul piano personale e collettivo. Occorrono, a ogni livello, volontà di rilancio, desiderio di migliorarsi, tenacia realizzativa. Vanno abbandonate le deleterie posizioni ideologiche (svilimento delle competenze, cultura del sospetto, autoritarismi sovranisti, populismi irresponsabili), che hanno concorso a intorbidire la già intricata politica nazionale. La fase post-pandemica necessita di mente lucida e scelte coraggiose (tenuto conto anche delle montanti forme di protesta e risentimento sociale). Qualche linea prioritaria d’intervento è stata segnalata. Ogni cittadino/cittadina ha la propria parte, magari modesta ma sempre significativa, da svolgersi con piena responsabilità.
8 maggio 2020
«Appunti di cultura e politica»
«Città dell’uomo»