L’attuale crisi della democrazia sembra essere anzitutto crisi di un comune senso di appartenenza: la democrazia, come affermava Aldo Moro in Assemblea costituente, suppone infatti una casa comune e un modo di abitarvi insieme.
“Costruendo il nuovo Stato noi determiniamo una formula di convivenza, non facciamo soltanto dell’organizzazione dello Stato, non definiamo soltanto alcuni diritti che intendiamo sanzionare per la nostra sicurezza nell’avvenire; determiniamo appunto una formula di convivenza, la quale sia la premessa necessaria e sufficiente per la costruzione del nuovo Stato.” (Aldo Moro all’Assemblea costituente, seduta del 13 marzo 1947)
La consapevolezza della stato come casa che ci accomuna e insieme ci costituisce – un bene che concorre a definire l’identità di un popolo – unita alla insuperabile dignità di ogni persona hanno costituito il substrato vitale della democrazia dal dopoguerra in avanti.
Alla fine del conflitto il sensorio condiviso nella società era che il bene individuale e la libertà conquistata a duro prezzo fossero debitori di un bene comune superiore da istituire e proteggere come comunità di persone.
La Costituzione nacque dall’humus di questo sensorio comune: centralità della persona, uguaglianza e giustizia sociale, libertà individuale non scindibile dalla responsabilità per il bene comune alla base del senso dello stato nascente.
Questo patrimonio culturale e sociale prima che politico è stato gradatamente dilapidato nei decenni successivi, in particolare dalla fine degli anni 80 in avanti, complici – fra gli altri – la trasformazione del tessuto economico post-industriale, la disgregazione delle classi sociali ‘storiche’, la conseguente progressiva perdita di rappresentanza dei corpi intermedi a favore di un illusorio rapporto diretto cittadino-istituzioni-potere (uno vale uno), e infine l’avvento della globalizzazione che invece di favorire l’uguaglianza delle opportunità ha sancito lo strapotere della finanza e creato un solco sempre più profondo fra pochi nuovi ricchi e una moltitudine di nuovi poveri.
Senza considerare in questo momento i gravi problemi sistemici, c’è alla base un problema culturale (ma sempre più anche sociologico e antropologico) che ci affligge da tempo. Riguarda individui e società nel suo insieme a partire dalle sue cellule di base: le famiglie (comunque le vogliamo intendere, le case dove un bimbo cresce) e la scuola prima di tutto.
Oggi spesso è coltivata fin da piccoli una idea di libertà svincolata da qualsiasi responsabilità; libertà è fare ciò che voglio, quando voglio, senza rispondere a nessuno e di nessuno. Una libertà ir-relata e quindi ir-responsabile.
Ridare senso e corpo a una democrazia sostanziale deve partire da una inversione di tendenza delle nostre basi culturali, in primis dal piano educativo.
C’è inoltre una nuova e più urgente minaccia alle basi della democrazia che si è profilata negli ultimi anni: la mancanza di voce e peso rappresentativo delle nuove generazioni.
Abbiamo sempre pensato alla democrazia come dinamica sin-cronica, cioè una forma di governo che doveva garantire uguaglianza, giustizia e difesa dei diritti nell’orizzonte temporale del presente o al massimo dell’immediato futuro.
Oggi questo modello è in crisi perché il tempo si è ‘accorciato’ e l’orizzonte dei prossimi 20-50 anni è legato drammaticamente alle scelte che stiamo facendo (o non facendo) ora.
Un futuro già presente con incognite e sfide globali a cui non siamo preparati: l’ambiente e la sopravvivenza del pianeta, il modello economico e finanziario ultraliberista che non potrà che implodere creando grandi sofferenze nella stragrande maggioranza dell’umanità, le inarrestabili transumanze dei poveri del mondo verso i paesi ricchi, l’instabile equilibrio geopolitico mondiale.
Rinnovare la democrazia oggi implica coltivare una prospettiva dia-cronica; è necessario cioè occuparsi e garantire prima di tutto i diritti di chi è appena nato o ancora deve nascere!
Ovviamente questo pone un problema enorme alla politica: occuparsi dei giovani o di chi ancora non c’è non paga in termini di consenso, semplicemente non porta voti.
Tutti noi, cittadini e politici, dobbiamo convincerci che non viviamo per noi stessi ma per altri, per altro: libertà e responsabilità (nel senso di rispondere di altri) non possono essere scisse.
Questa stessa attitudine viene oggi richiesta dal mondo del lavoro, dove i paradigmi consolidati negli ultimi due secoli sono cambiati negli ultimi vent’anni e si evolveranno ancora più velocemente nel prossimo futuro.
Il rapporto radicato e stereotipato fra idea imprenditoriale, capitale e forza lavoro, soprattutto in una società a forte terziarizzazione come la nostra, non può più reggere.
Le basi di un nuovo patto per il lavoro devono tenere conto di chi sono oggi gli stakeholder (cioè i portatori di interesse) di una azienda o di una iniziativa imprenditoriale.
Semplificando in modo un po’ rozzo, lo schema capitalistico classico prevede la remunerazione del capitale come obiettivo primario e tutto il resto (parti sociali, contrattazione, diritti dei lavoratori, adeguamento a regole, sicurezza, ambiente) come ‘concessioni’ fatte nel tempo dalla classe imprenditoriale ai lavoratori e allo stato finalizzate a mantenere comunque la massima redditività del capitale (in pratica viste come mali minori dall’imprenditore).
È però in atto da qualche anno un movimento globale il cui scopo è predisporre una misurazione delle performance ambientali e sociali delle aziende, allo stesso modo in cui si misurano i risultati economici delle stesse. Il fenomeno delle B Corp, ad esempio, nasce in questo contesto. In Italia siamo solo agli inizi ma l’interesse è elevato.
Le B Corp rappresentano un nuovo modello di business che coniuga in sé l’aspetto economico, ovvero il perseguimento del profitto, con l’impegno a generare un impatto sociale e ambientale – due elementi essenziali per ottenere uno sviluppo a tutti gli effetti sostenibile. Questo passaggio implica anche una diversa valorizzazione e un diverso coinvolgimento del lavoratore anche nella gestione aziendale.
Anche in questo caso il passo da fare è un cambiamento culturale da parte di chi fa impresa (l’imprenditore) ma anche da parte di chi lavora.
Nella classe imprenditoriale italiana c’è stata una frattura generazionale che dura ormai da 20-30 anni.
La nostra PMI in media non è stata capace di affrontare il ricambio generazionale e in buona parte ha preferito monetizzare i risultati ottenuti nei decenni precedenti, disinvestendo dall’attività produttiva.
Se vogliamo guardare il bicchiere mezzo pieno, la buona notizia sembra essere che le nuove generazioni di (piccoli) imprenditori – spesso in cerca di capitali per partire, gli startupper – sono culturalmente molto più aperti e preparati a perseguire un modello di business sostenibile e ‘democratico’.
Si tratta di favorire a livello legislativo e burocratico questa tendenza spontanea…
Infine, un pensiero rivolto ai cattolici popolari, fra cui mi situo anch’io.
La chiesa di Francesco oggi è una chiesa viva perché non ha quasi nulla da difendere. La chiesa vuole dialogare col mondo con un atteggiamento di ascolto e di apertura verso l’originalità di ognuno. Io credo che ognuno, indipendentemente da ciò in cui crede, è portatore di una ‘fede-nella-vita’ con cui è possibile avere empatia e mettersi in atteggiamento di ascolto e anche di apprendimento.
Compito del cattolicesimo popolare oggi secondo me è innanzitutto dare credito e sostanza in ogni ambito, a partire da quelli del lavoro e della politica, alla consapevolezza che ‘nessuno si salva da solo’ (papa Francesco, Appello per la pace, 20 ottobre 2020). Il modo migliore di pensare al bene proprio è pensare al bene comune, al bene di tutti. Questa è evangelizzazione implicita, che non ha bisogno di esplicitarsi in altro modo che non con la coerenza di chi la testimonia.
Luigi Danieli