di Marta Valagussa
Da quando Giulia Cecchettin è stata trovata uccisa in una zona industriale non lontano da casa, in Italia è cambiato qualcosa. I riflettori che si sono accesi, come sempre accade in questi casi, sulla famiglia della vittima, hanno trovato adulti pronti a mettere parola su quanto era accaduto. Un padre, Gino, che ha saputo fare della sua razionalità il suo punto di forza, e del suo amore per la figlia il senso di ogni sua parola. Una sorella, Elena, che nella sua prima intervista ha usato quel termine così scomodo “patriarcato”, responsabile di aver solleticato l’intelligenza di tanti nell’ammette- re con onestà che di patriarcato siamo imbevuti tutti, giovani e adulti, uomini e donne, perfino le femministe più convinte.
Perché il patriarcato è un fiume carsico che da tempo immemore ha accompagnato – e accompagna – l’umanità e non sarà certo una generazione a spazzarlo via una volta per tutte. Del resto, finché continueremo a pensa- re che gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere, non abbiamo molta speranza di cambiare le cose. Ai bambini viene ancora insegnato di assomigliare a Marte, il simbolo della forza e della durezza, mentre le bambine si ispirino a Venere, con la sua gentilezza e docilità. Credo invece che ai piccoli e alle piccole vada insegnato piuttosto che siamo tutti abitanti di questo piccolo e straordinario pianeta, che abbiamo lo stesso diritto ad essere felici e che possiamo stare bene, insieme.
Certo, il lavoro è lungo. Basta entrare in un negozio di giocattoli per capire che a una bambina non si può regalare un arco con le frecce e un bambino non può ricevere per il compleanno una bambola da coccolare. Ma anche in edicola i giornali da uomini sono ben distanti da quelli per le donne. E sui giornali rosa scrivono giornaliste, mentre su quelli blu i giornalisti. Come se le donne non si dovessero interessare di argomenti maschili. E vice- versa. Come se la vita dell’altro genere non ci riguardasse.
E qui entra in gioco la comunicazione, anzi la lingua, oggetto dei miei studi e in gran parte del mio lavoro. La scelta delle parole è sempre importantissima, in ogni contesto, che tu stia scrivendo una lettera d’amore, un contratto d’affitto o il tema della maturità. Nell’ambito della violenza di genere la comunicazione è ancora più rilevante, perché la percezione sociale della violenza incide fortemente sulla valutazione delle vittime e degli aggressori.
Quante volte leggiamo titoli di giornale che associano l’amore alla violenza, in modo del tutto ossimorico! La relazione tossica non esiste. L’amore violento non esiste. Perché laddove c’è uno non può esserci l’altro. Questa è a tutti gli effetti una comunicazione distorta.
L’escalation parte dalla patologizzazione del maltrattante e porta a una sua deresponsabilizzazione. In poco tempo si passa all’attenuazione del gesto violento.
Sapete quale può essere la conseguenza più tremenda?
La vittimizzazione secondaria, ossia attribuire una quota di responsabilità anche alla vittima, che subisce una seconda violenza da parte di uno o più soggetti, diversi dall’autore originario della prima violenza. Vittimizzazione secondaria significa non credere al racconto della vittima, o quantomeno dubitarne, alludendo a gesti, parole, scelte della vittima che possano aver scatenato la violenza del maltrattante.
Come scardinare questi meccanismi? Non basteranno i libri, né i convegni, né le class action. Occorrono le persone. E sotto i nostri occhi qualcosa sta già cambiando. Perché nella famiglia Cecchettin le caratteristiche di Marte sono decisamente impersonificate da Elena, mentre quelle di Venere da Gino. E non c’è confusione né distorsione.
C’è la persona.
C’è Gino. C’è Elena. E grazie a loro, con noi c’è ancora Giulia.
L’articolo è stato pubblicato su Il Sicomoro