Diritti delle coppie omosessuali: non c’è solo il matrimonio

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Pubblichiamo la versione integrale di un articolo uscito in forma breve su Near di dicembre, la rivista dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni. L’autore è professore ordinario di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Parma. Tra le sue pubblicazioni in tema di biodiritto, si segnalano: Biotecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale (a cura di), 2005; Al limite della vita: decidere sulle cure, 2010; Profili costituzionali dei dati genetici, 2011; Il diritto alla fine della vita, 2012

 

Le domande che poste (E’ giusto considerare il matrimonio un diritto per gli omosessuali? Negarlo va considerata una discriminazione?) sono molto ‘dirette’, per quanto richiamino temi estremamente complessi e tormentati sul piano giuridico e sociale. Inoltre, sono domande inevitabilmente collegate: se infatti l’apertura dell’istituto del matrimonio agli omosessuali viene configurato alla stregua di un diritto costituzionalmente garantito (o comunque riconducibile al dettato costituzionale, alla stregua di altri ‘penumbra rights’), la conseguenza non potrà che essere quella di attribuire un carattere discriminatorio ad una legislazione che invece mantenga intatto il paradigma eterosessuale del matrimonio; cambiando prospettiva, se la premessa è quella di escludere che gli omosessuali possano rivendicare un ‘diritto’ di sposarsi, la previsione legale della diversità sessuale dei coniugi come presupposto di validità del matrimonio non può essere ritenuta una scelta discriminatoria.

Provo ad  andare subito al punto, senza poter indugiare, in questa sede, nella ricostruzione di quell’imponente processo che, negli ultimi 20 anni, ha portato l’omosessualità – non senza battute d’arresto – a diventare, da condotta penalmente sanzionata o in ogni caso estranea alla sfera dei diritti costituzionali (il riferimento è al celebre caso Bowers v. Hardwick, deciso dalla Corte Suprema USA nel 1986; addirittura, in alcune opinioni ‘concorrenti’ al giudizio della maggioranza si parlò di “atto odioso”, “minaccia per l’integrità del tessuto sociale”, e questa sentenza è stata formalmente overruled dallo stesso Giudice solo nel 2003, nel caso Lawrence v. Texas), a manifestazione libera dell’identità personale di un soggetto, perciò protetta da ogni discriminazione diretta o indiretta, fino alla proiezione relazionale di questa identità, alla ricerca di un riconoscimento sul piano della vita affettiva.

Con riferimento al caso italiano, il ragionamento non può che prendere le mosse, quale che sia la posizione che uno vuole sostenere, dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2010.

Per la Corte, volendo proporre una prima sintesi della decisione, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è obbligatorio costituzionalmente o quanto meno non può essere introdotto dalla Corte  in via giurisprudenziale. Questo significa, venendo agli interrogativi di partenza, che la struttura ‘eterosessuale’ del matrimonio non è discriminatoria, e non viola un diritto costituzionalmente garantito degli omosessuali.

Il Giudice costituzionale tuttavia, non si ferma alla risposta alla questione di legittimità costituzionale. Aggiunge una riflessione molto importante, e dal mio punto di vista assolutamente condivisibile: le unioni omosessuali sono formazioni sociali, e allo stesso modo di altre formazioni sociali, concorrono al libero sviluppo della personalità. Nel ragionamento del Giudice delle leggi, che conviene riportare nella sua interezza, “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri” (par. 8).

In sostanza, la Corte chiama il legislatore ad una presa di coscienza responsabile della necessità di regolamentare le unioni tra persone dello stesso sesso e di dare concreto riconoscimento ad una serie (non specificata) di diritti e doveri dei partners: non ritiene però che questo debba per forza avvenire nella forma del matrimonio. Anzi, per certi versi sembra escludere la stessa possibilità (ma su questo ci soffermeremo dopo) che il legislatore opti per un percorso di estensione tout court dell’istituto matrimoniale.

Il “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri” non è la stessa cosa di un (preteso) diritto a realizzare questa esigenza attraverso il matrimonio.

A me non sembra una posizione contraddittoria o discriminatoria.

La Corte fa bene a marcare un limite all’interpretazione evolutiva di concetti come famiglia e matrimonio. La consapevolezza che le norme costituzionali sono fatte per vivere nel tempo e assumere anche significati diversi in rapporto al mutare dei contesti culturali e sociali, ci ha ormai abituati all’idea che il testo non è tutto, però non possiamo dire che il testo è niente, non possiamo far dire alle norme costituzionali cose completamente diverse da quello che le norme costituzionali potevano o volevano dire.

La struttura testuale (il riferimento all’uguaglianza giuridica e morale dei coniugi, alla garanzia dell’unità familiare, le connessioni testuali e logiche dell’articolo 29 con gli articoli successivi: la procreazione, la famiglia intesa come comunità di diritti e doveri tra genitori e figli, la protezione della maternità), ma vorrei dire anche il contesto storico-sociale, il senso che alimenta ancora oggi quelle norme costituzionali sulla famiglia e sul matrimonio, il loro mantenersi nel tempo, ci restituisce l’immagine di un modello che ha fra i suoi fondamenti razionali la diversità di sesso.

A questa stregua, riconoscere alle convivenze same sex una regolazione che, pur prendendo atto della autenticità della loro dimensione affettiva e relazionale, non prefiguri una automatica e generale estensione dello schema matrimoniale, non può essere liquidata come una soluzione “segregazionista”, ma esprime invece un ragionevole bilanciamento tra il principio antidiscriminatorio legato alle condizioni personali, e le caratteristiche formalmente accolte e confermate dal disegno costituzionale, di un istituto giuridico come il matrimonio.

Il diritto di accedere al matrimonio non può essere ricostruito come obbligatorio nemmeno sul piano sovranazionale. Proverebbe troppo infatti il riferimento all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Intanto, questa norma fa rinvio alle leggi nazionali, e le leggi nazionali delineano un panorama estremamente vario di soluzioni; non c’è una sola (e obbligata) soluzione, e non può dunque la Corte assumersi la responsabilità di decidere al posto del legislatore.

In secondo luogo, la sentenza n. 138 ricorda che nelle ‘spiegazioni’  relative alla Carta dei diritti fondamentali elaborate dal Praesidium della Convenzione che l’aveva redatta, è espressamente sottolineato che l’art. 9 “… non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso”. Insomma, lo schema della relazione diritto europeo – diritto interno non è a senso unico, non è così serrato, almeno su alcuni argomenti, da dare luogo a adattamenti automatici.

La stessa Corte Edu (nella recente decisione Schalk e Kopf) mantiene ferma la distinzione tra ‘vita familiare’ e ‘matrimonio’, affermando da un lato, che “Non costituisce violazione dell’articolo 12 da parte di uno Stato membro la mancata estensione dell’accesso al matrimonio alle coppie costituite da individui dello stesso sesso. Ciò perché, si tratta di un istituto giuridico profondamente connesso alle radici storiche e culturali di una determinata società e rispetto al quale non è ravvisabile un’univoca tendenza negli ordinamenti interni degli Stati membri”; dall’altro, che “all’interno del concetto di ‘vita familiare’, il cui rispetto è garantito dall’articolo 8 (della Convenzione), devono potersi ricondurre anche le relazioni sentimentali e sessuali tra persone dello stesso sesso”.

Resta un punto di domanda che la Corte non ha effettivamente risolto. Ciò che è precluso all’interprete – e in particolare alla Corte – è invece possibile per il “legislatore”?.

Questa è una delle parti meno chiare della sentenza, perché è vero che, da un lato, la Corte dice che l’art. 29  è radicato sulla scelta eterosessuale, che questo significato “non può essere superato per via ermeneutica”, e che le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee alle convivenze matrimoniali in senso stretto;  però, poi, nel corpo della sentenza, usa espressioni in qualche modo molto più suscettibili di delineare una possibile apertura nel senso appena prospettato.

Quando nella sentenza si afferma ad esempio che “si deve escludere che l’aspirazione delle coppie omosessuali ad avere un riconoscimento giuridico possa essere realizzata soltanto attraverso un’equiparazione al matrimonio”,  le parole utilizzate in sé sembrano non escludere che possa esservi anche questo tipo di soluzione tra quelle costituzionalmente possibili e compatibili.

Ancora, quando la Corte ribadisce il paradigma eterosessuale del matrimonio, aggiunge (e non so fino a che punto questo inciso sia privo di significato) “quale previsto nel vigente ordinamento”; e non è chiaro se l’ordinamento a cui la Corte fa riferimento sia l’ordinamento civilistico, oppure quello risultante da una lettura complessiva e coordinata delle disposizioni civilistiche e costituzionali.

Infine, nel dire che l’ art. 9 della Carta europea “… non vieta né impone” il matrimonio omosessuale, sembra lasciare alla discrezionalità legislativa degli Stati, al loro ‘margine di apprezzamento’, la decisione se concedere o meno lo status matrimoniale a queste situazioni.

Non è facile dare una risposta a questo interrogativo. E in effetti, le letture della sentenza n. 138/2010 (come pure della successiva sentenza n. 4184/2012 della Corte di Cassazione) sono state, proprio su questo profilo, assai divergenti tra di loro.

La mia sensazione è che, al di là della indubbia ambivalenza di alcune espressioni usate, e di alcuni passaggi argomentativi, la Corte abbia fatto propria una interpretazione dell’art. 29 (e dell’art. 2) che non consente, almeno allo stato, una completa estensione del matrimonio anche al di fuori della relazione eterosessuale.

Per il Giudice costituzionale, formazioni sociali (anche) a vocazione relazionale/familiare e ‘famiglie’ sono figure diverse, innanzitutto nella considerazione costituzionale. Confondere i due piani, anche attraverso un intervento legislativo, sarebbe una interpretazione ‘sostitutiva’, probabilmente estranea al raggio di riconoscibilità alla stregua dell’art. 29.

Quello che mi sembra importante, invece, è che il legislatore prenda sul serio, e subito, il monito della Corte a regolare questa materia. Non c’è solo il diritto al matrimonio, che rischia di diventare una bandiera ‘ideologica’ e ‘divisiva’. Ci sono diritti concreti, esigenze di vita relazionale, possibilità, che attendono e meritano una risposta e un riconoscimento effettivi. Continuare ad eluderli sarebbe, questo si, discriminatorio.

Antonio D’Aloia

One Comment

  1. La Costituzione fonda la famiglia sul matrimonio. Ma non dice quale.

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