Pubblichiamo la seconda parte di un ampio articolo che l’autore, professore emerito dell’Università degli Studi di Torino e insigne penalista, ha scritto in ricordo di Mireille Delmas-Marty, giurista di fama internazionale, deceduta il 12 febbraio scorso. L’articolo (il cui titolo completo è “Diritto e giustizia, pace e guerra, nel ricordo di Mireille Delmas-Marty, giurista e umanista ‘visionaria’”) è in via di pubblicazione sulla rivista La legislazione penale. “In questo XXI secolo in cui si parla solo di suicidio dell’Occidente, disintegrazione dell’Europa e collasso del pianeta, è più che mai necessario lanciare un’allerta”, ma “non per questo, tuttavia, è il momento di rinunciare alla speranza”. Queste le parole, riprese dall’ultimo libro della studiosa francese, che chiudono la prima parte dell’articolo e a cui si raccorda l’incipit della seconda parte, qui riprodotta
Mireille Delmas-Marty si è spenta pochi giorni prima che tante speranze subissero un colpo durissimo a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, con il suo tragico seguito, non solo di quantità di morti e feriti in battaglia, ma di stragi e devastazioni a tappeto, di eliminazioni di inermi, di stupri di gruppo e altre atrocità sui corpi delle persone, di riduzioni in miseria di un gran numero di individui e di famiglie, di esodi di massa.
E a colpire, nei nostri Paesi, è anche il fatto che sia l ’Europa a fornire lo specifico teatro di guerra, benché non si possa ignorare che questo non è l’unico tra quelli che in tutto il mondo offrono quotidianamente spettacoli analoghi e anche più spaventosi; né si può dimenticare che dentro gli stessi confini europei, pur dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, conflitti bellici si erano pur già avuti (in particolare nei Balcani) e che dal 2014 una sorta di guerra strisciante – con unilaterali annessioni di territori (Crimea) e secessioni di regioni (Donbass) – già affliggeva le contrade nelle quali la “guerra-guerra”, sia pur con l’etichetta di “operazione militare speciale”, è poi divampata dal 24 febbraio di quest’anno.
E, come in tutte le guerre, emerge altresì quella che il titolista di un quotidiano ha scolpito nell’ossimoro “malvagità dei buoni”: volendo dirla in altro modo, meno efficace ma forse più realistico, è l’allignare della disumanità, talvolta, anche tra coloro i quali stanno “dalla parte giusta”: sia perché l’à la guerre comme à la guerre può indurre a non andar troppo per il sottile nel reclutarvi combattenti che forse definire “buoni” è un po’ azzardato; sia perché – ed è forse l’aspetto più angosciante – in certi scenari può diventare irresistibile, persino in chi è partito con la volontà di non lasciarsi incastrare dalla logica dell’odio, la tentazione – non aliena dal presentarsi nelle forme dell’esigenza ineluttabile- di opporre orrore a orrore.
Non è questa la sede – né avrei io la competenza per farlo- per cercare di cogliere con reale cognizione di causa motivi, sviluppi e prospettive di una vicenda in continua evoluzione, dentro e attorno a un groviglio di interessi anche privati (i guadagni stellari degli investimenti nel mercato delle armi …), di coinvolgimenti diretti o indiretti, stabili o contingenti, di alleanze rafforzate o rovesciate, conclamate o sotterranee, più contro che a favore di qualcuno.
Una sollecitazione a non chiudere questo ricordo di Mireille Delmas-Marty con la sola e amara constatazione di una smentita postuma alla speranza mi è tuttavia venuta da un brano della sua “prima lezione” al Collège de France. E mi sono permesso di raccoglierla, pur cercando di non farmi invischiare in troppo facili “chissà che ne direbbe lei …”. Pure in quegli anni, specialmente a seguito degli eccidi terroristici dell’11 settembre 2001 e dei loro contraccolpi, larga parte del mondo era immersa in un’atmosfera pesantissima; e in particolare la data prestabilita per tale lezione, 20 marzo 2003, venne a coincidere con quella in cui prese avvio l’invasione dell’Iraq da parte dell’aviazione di quattro Paesi (Stati uniti, Regno unito, Australia e Polonia), legati con molti altri in una più ampia coalizione multinazionale. Erano falliti i tentativi portati avanti soprattutto dal Governo statunitense e volti ad ottenere dall’O.N.U. legittimazione all’uso della forza a fronte di una serie di addebiti mossi al regime dittatoriale di Saddam Hussein, tra i quali quello di detenere armi di distruzione di massa (peraltro contestato, quest’ultimo addebito, anche da parecchi alleati degli Stati uniti, e rivelatosi poi privo del supporto di prove sufficienti); e proprio quel mattino avevano preso autonomamente il via i raid aerei dei “volenterosi”.
Ebbene, giunta all’epilogo della lezione l’oratrice cominciava con l’affermare che «in questi tempi di discordia l’appello alle forze immaginative del diritto è più che mai necessario», per rivendicare poi con orgoglio, in un «giorno in cui il diritto sembra cedere il passo alla forza» e si constata l’avvento di «una nuova età del ferro», di aver posto il suo insegnamento al Collège «sotto il segno del ritorno di Astrea», mitica dea di una giustizia associata all’idea della pace, specialmente dagli umanisti del Rinascimento europeo, come rilevava un precedente passaggio della medesima prolusione. Linguaggio e metafore risentono della solennità della sede e dell’occasione. Ma proprio quello che può apparire come il più ricercato tra i preziosismi del discorso -la scelta di quel nome, Astrea, fuori di lì sconosciuto ai più- non merita di essere ridotto a mero prodotto della volontà di esibire, a profitto di un pubblico particolare, vasta erudizione e raffinato gusto estetico.
Astrea, appunto. E non il più consueto sinonimo, Dike, oppure la madre, Temi. È quel nome, infatti, e non altri, a esprimere in sé stesso (già in lingua greca) un riferimento alle stelle e dunque una specifica idoneità a sintetizzare la leggenda – quanto mai aderente a una realtà che anche in quel momento si stava ripetendo – la quale descrive la giustizia come una vergine rifugiatasi lassù per sfuggire alle violenze e ai tradimenti patiti ad opera degli abitanti della terra. Non, dunque, l’idilliaca celebrazione di un’imperturbabile dispensatrice, da un solido seggio e secondo canoni indiscussi, di condanne e assoluzioni; piuttosto, un’implicita sottolineatura della fragilità di quel personaggio e dei valori che questo rappresenta, degli ostacoli e delle opposizioni che ne incontra l’operare, del lavoro di ricerca, d’inventiva e di confronti/scontri attraverso il quale la gestazione delle sue sentenze deve passare, nonché – mi permetto di aggiungere, sperando di non eccedere troppo nella personale lettura interpretativa di un’immagine non mia – delle fatiche che possono rendersi necessarie perché il genere umano ottenga un non troppo effimero “ritorno di Astrea” dopo ogni forzato esilio. Circa, poi, l’identificazione di Astrea come personificazione, non solo della giustizia, ma anche della pace, essa ci ricorda che ieri come oggi, come domani, non c’è vera giustizia senza pace, così come non ci può essere vera pace senza giustizia.
Si è poi visto che le operazioni belliche, iniziate con il raid aereo del 20 marzo 2003 e passate globalmente alla storia come “Seconda guerra del Golfo”, si sarebbero concluse, sul piano militare, con un successo abbastanza rapido degli attaccanti, favorito anche dall’appoggio attivo di minoranze, come quella curda, vessate dal partito baathista allora al potere in Iraq, oltre che dalla scarsa, e poco convinta, resistenza delle forze armate di quest’ultimo. Assai meno positive le conseguenze. Soppressa, sì, la dittatura, ai cui massimi esponenti, d’altronde, non fu, per lo più, risparmiata la pena capitale (rifiutate, in precedenza, anche le sollecitazioni a rimettere i giudizi a un tribunale internazionale autenticamente imparziale). Non assente, inoltre, nella pratica del regime di occupazione, neppure l’uso della tortura. Il ritiro degli occupanti ha poi lasciato un Paese dotato sì di forme istituzionali modellate su quelle delle democrazie ma dilaniato da lotte senza esclusione di colpi tra fazioni, per lo più a base etnica o confessionale. Insomma, neppure lì è “tornata Astrea”. Del resto, non era per quella via che qualcuno poteva sinceramente credere che ciò avesse da accadere. Certamente, non mostrava di crederlo Mireille Delmas-Marty.
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Dal confronto tra la guerra del 2003 e quella del 2022 balzano agli occhi alcune differenze. Anzitutto, vi è che stavolta ad impersonare, non l’aggredito ma l’aggressore, è un autocrate che – oltre a palesare una concezione imperiale del rapporto della Russia (e suo) con il mondo, e a far leva sul nazionalismo per suscitare un consenso di marca populistica, garantito anche dallo strettissimo controllo sui mezzi d’informazione – mette abitualmente in carcere gli oppositori (quando non succede loro qualcosa di peggio). A governare il Paese invaso non è invece un regime dittatoriale sul tipo di quello che a suo tempo dominava a Bagdad, benché neppure la democrazia ucraina sia senza ombre e soprattutto non sia stato senza ombre il trattamento, specialmente da parte dei suoi precedenti governi, della minoranza russofona; né, dunque, possano dirsi del tutto immuni da corresponsabilità, quei governi, circa le cause delle secessioni che hanno fatto da prodromo al successivo intervento delle truppe russe (non era irreprensibile nemmeno il trattamento che negli anni trenta del secolo scorso subivano in Cecoslovacchia i tedeschi residenti nei Sudeti, ma chi non coglie che quello fu soltanto un pretesto, per Hitler, al fine di giungere – tramite l’invereconda e tragica pantomima a quattro del Patto di Monaco del 1938 con la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia mussoliniana – ad annettersi quella regione e poi a spazzar via brutalmente lo stesso Stato cecoslovacco?).
In ogni caso, nell’Ucraina del 2022, diversamente che nell’Iraq del 2003, la partecipazione collettiva alla resistenza all’invasione – a smentita di chi confidava in un facile successo del Blitzkrieg, con defezioni di schiere di uomini in divisa e una quasi totalitaria corsa di cittadini ad aprire porte e a fraternizzare con i “liberatori” – è stata, da subito, coralmente convinta e non priva di adesioni persino all’interno della suddetta minoranza. Dati, tutti, che orientano, non solo a giudicare ancor più severamente l’aggressione di oggi rispetto a quella che Mireille Delmas Marty giustamente stigmatizzava allora, ma a ritenere non solo legittima ma moralmente doverosa la prestazione, dall’esterno, di efficaci sostegni a quella resistenza: il lasciare l’aggredito a reggere da solo l’urto dell’aggressore, stante la sproporzione di mezzi a disposizione dei contendenti, finirebbe presto col costringere il primo all’alternativa obbligata tra l’accettazione di qualsiasi diktat e la progressiva distruzione del Paese. È il “soccorso difensivo”, anche armato, a supporto di quel «diritto naturale di autotutela individuale o collettiva» di cui parla l’art. 51 dello Statuto delle Nazioni unite, e che non trova un ostacolo assoluto neppure nell’art. 11 della nostra Costituzione, dove il “ripudio” della guerra è formulato soltanto con riferimento all’uso della medesima «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»; non, appunto, come sostegno a una sorta di “legittima difesa” collettiva.
Tuttavia, meno ancora che nei conflitti interindividuali, legittima difesa e soccorso difensivo possono diventare, nella loro estensione a scenari più vasti, “licenze ad uccidere” dilatabili a piacimento. Ed è la percezione del rischio che ciò accadesse, ad essersi da subito contrapposta, o più spesso intrecciata, con i dati e le sollecitazioni di cui sopra, tra la gente comune e in parte anche tra i detentori di poteri decisionali nei Paesi che si è soliti accomunare nell’aggettivo “occidentali”: temendosi, non a torto, continui incentivi a un ulteriore, e chissà quanto prolungato, accumularsi di lutti, devastazioni e altre atrocità.
A complicare ulteriormente prospettive, valutazioni e atteggiamenti concreti di governanti e opinioni pubbliche in ogni parte del mondo e particolarmente in Europa, è poi tornata a farsi potentemente tangibile l’eventualità di un angosciante deflagrare degli eventi, come da tempo non accadeva e come, in particolare, non era accaduto all’epoca dell’invasione dell’Iraq: è la possibilità che dal conflitto locale divampi l’incendio planetario di una terza guerra mondiale tra due blocchi, grosso modo corrispondenti – a prescindere dai rispettivi supporti ideologici, a loro volta in larga parte inediti – a quelli della guerra fredda della seconda metà del novecento; e, strettamente connesso, è ritornato a farsi sentire vicino l’incombere di un ricorso all’arma nucleare, già fatto balenare da più parti senza che sia facile capire se si tratti di minacce autentiche o di bluff (la seconda ipotesi non molto meno inquietante della prima, giacché anche il solo scherzare col fuoco può provocare, direttamene o per reazione, incendi dagli esiti catastrofici). Palpitante espressione di una pervasiva sensibilità per questi aspetti del dramma collettivo il “fermatevi!”, più volte pronunciato anche da Papa Francesco ma soprattutto fatto proprio, per strade e piazze di tutto il mondo, da folle di persone, largamente portatrici di sincere e lucide istanze non-violente, manifestatesi attivamente (seppur per lo più ignorate dai media) anche in Ucraina, quantomeno come complementari, e non in contraddizione, con le altre forme di resistenza.
Mentre si scrivono queste note, più ancora che inascoltato, il grido appare oltraggiato dall’intensificarsi delle operazioni belliche, innanzitutto da parte del suo primo e più “naturale” destinatario, ossia da chi la guerra l’ha scatenata. E senza un primo passo da quella parte è difficile pensare che di risposte positive ne potessero e ne possano venire dall’altra, anche perché il grido stesso sarebbe snaturato se fatto valere, nella sostanza, come perentoria richiesta di resa alla prepotenza. A preoccupare – pur in un panorama comunicativo che, condizionato da vere o supposte esigenze di propaganda, induce, per reazione, a non prendere mai troppo alla lettera nessun segnale verbale, da quelli più rassicuranti a quelli più allarmanti – è però che sempre più l’obiettivo di una “vittoria totale sul campo” (e con l’occhio anche al di là dei pur già ampi confini dell’attuale teatro di guerra) stia diventando, per entrambi i contendenti e per buona parte dei loro rispettivi alleati, il vero obiettivo da perseguire: così facendosi più problematico per tutti il contenere il supporto di tipo militare alla resistenza del popolo aggredito nei limiti di un soccorso autenticamente ed esclusivamente “difensivo”, e – secondo una dinamica simile a quella attribuita alle “sanzioni”, di natura prevalentemente economica, adottate a carico della Federazione russa e di suoi esponenti di spicco – volto essenzialmente a persuadere l’avversario a seri negoziati in vista di non effimeri e fittizi “cessate il fuoco” e poi di una pace equa.
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Un quadro, insomma, fattosi, negli oltre due mesi trascorsi dall’attacco iniziale, per certi versi, ancora più fosco. E a rasserenarlo non serve molto neppure il guardare a parole, atti, gesti, venuti in questi mesi da soggetti particolarmente qualificati per farsi voci del diritto e della giustizia internazionali in vista della promozione della pace e della coesione tra i popoli, la cui presenza è forse quella che può sollecitare maggiormente un’attenzione in questa sede. In proposito, non può dirsi che sia mancata del tutto l’offerta di energie rientranti in (o assimilabili a) quelle nelle quali confidava l’autrice de “Les forces imaginantes du droit”, ritenendole indispensabili soprattutto nei tempi duri in cui, di energie, molte ne dispiega, dal canto suo, la forza bruta; ma il bilancio resta piuttosto magro.
Ridotto alla paralisi si è palesato il vertice dell’O.N.U, così come ogni volta che viene messo di fronte a comportamenti discutibili di qualcuna delle “Grandi potenze”: a confessarlo amaramente, proprio da uno tra i luoghi su cui più si è abbattuta dal 24 febbraio la furia bellica, lo stesso Segretario generale delle Nazioni unite, sottolineando come ancora una volta il Palazzo di vetro non sia «riuscito a prevenire e a porre fine» a una guerra tanto devastante. Causa principale – o, forse, soltanto espressione macroscopica di squilibri più complessi -– il peso del potere di “veto”, esercitabile, sempre e soltanto, da ciascuno dei cinque membri permanenti di quel Consiglio di sicurezza, cui lo Statuto dell’Organizzazione volle fosse conferita «la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale».
Un po’ più chiaroscurale il quadro si fa se lo si allarga ad altri soggetti della cooperazione mondiale o “regionale”. Così, almeno a prima vista, non è cosa da nulla che il 16 marzo tredici dei quindici membri della Corte internazionale di giustizia (ossia dell’organo delle Nazioni Unite specializzato per la risoluzione di controversie internazionali) abbiano votato un ordine giuridicamente impositivo alla Russia, tra l’altro, di sospendere immediatamente le operazioni militari in corso sul territorio ucraino. Niente da sopravvalutare, certamente. La motivazione che sorregge il provvedimento è piuttosto guardinga, riflettendo del resto il carattere meramente cautelare del medesimo. Non, dunque, la definitiva censura di un illecito già indiscutibilmente accertato, ma la constatazione della mancanza di prove di un genocidio in atto a danno dell’etnia russofona nelle regioni sudorientali dell’Ucraina, con la conseguente deduzione che questo Stato aveva e ha «un diritto plausibile a non essere oggetto di operazioni militari da parte della Federazione Russa». Purtroppo, l’ordine, com’era assolutamente prevedibile, è rimasto ineseguito, mancando alla Corte il supporto di una forza di polizia in grado di opporsi efficacemente alla sua inosservanza; ed essendo altrettanto prevedibile che eventuali iniziative promosse in sede O.N.U. per forzare all’obbedienza il Governo destinatario dell’ordine sarebbero state bloccate dal veto, nel Consiglio di sicurezza, del rappresentante di questo stesso Governo. Niente caschi blu, insomma. Di quel provvedimento resta un alto valore simbolico, per l’autorevolezza del soggetto che lo ha emesso. E, se i voti contrari del solo giudice russo e del solo giudice cinese possono far pensare che pure qui, ad essere determinanti siano state, anche dall’altra parte, mere logiche di schieramento, a smentire per tabulas, almeno parzialmente, il sospetto è la pluralità delle “opinioni separate”, che hanno contrappuntato la comune “concordanza” di tutti gli altri giudici quanto alle conclusioni.
Maggiore risalto ha avuto la notizia dell’avvio, ad opera della Procura presso la Corte penale internazionale, di un’indagine su crimini di guerra e crimini contro l’umanità: atrocità i cui riscontri oggettivi sono stati abbondantemente posti sotto gli occhi di tutti dai mezzi di comunicazione ma le cui responsabilità soggettive restano da accertare in quei dettagli che soli possono fondare un’imputazione penale. Irta di difficoltà la strada per giungere a quel giudizio davanti a questa Corte, improntato alle regole del due process of law, il cui svolgimento dovrebbe rappresentare l’obiettivo “naturale” dell’iniziativa; e tutt’altro che sicuro è che ci si riesca davvero ad arrivare; tantomeno sicuro, poi, che ceteris paribus (vale a dire, senza profondi rivolgimenti negli assetti politico-istituzionali dei Paesi coinvolti) si possano eseguire eventuali provvedimenti cautelari ed eventuali condanne contro coloro che venissero riconosciuti come maggiori criminali. Qui non è questione di veti in Consiglio di sicurezza (la Corte penale e la relativa Procura, che pur sono state istituite su iniziativa e con il patrocinio dell’O.N.U., non ne sono veri propri organi). È la mancanza di supporti operativi a loro diretta disposizione, e la correlativa necessità di affidarsi completamente, al riguardo, alla cooperazione degli Stati, che rendono tutto particolarmente difficile, essendo, tra l’altro, escluso, dallo Statuto della Corte, che possa procedersi in contumacia.
Tuttavia, dalla potenziale emissione di mandati d’arresto potrebbe venire, anche di fatto, limitata, per chi ne fosse oggetto, la possibilità di compiere viaggi all’estero, stante il rischio di un’esecuzione di tali misure nei Paesi che non rifiutino la collaborazione agli organi della giustizia penale internazionale. Comunque è già qualcosa che un’indagine si sia potuta aprire, quantunque Russia e Ucraina non siano Parti dello Statuto della Corte penale internazionale (avendo giovato in proposito l’adesione della seconda, seppur limitatamente ai crimini commessi sul suo territorio). Ed è importante che ad essersi messo in moto sia stato un organo indipendente, incaricato di raccogliere e vagliare imparzialmente ogni possibile documentazione e di compiere accurati accertamenti: tutt’altra cosa, insomma, dai frettolosi verdetti, impropriamente formulati sull’onda del solo – e pur generale e indiscutibile – raccapriccio davanti a tanti obbrobri.
Altro segnale significativo è venuto dal Consiglio d’Europa, vale a dire dalla più antica fra le istituzioni del continente dirette a favorire la pace e la coesione tra i popoli, e non totalmente svuotata di ogni rilievo neppure dalla nascita e dalla crescita della UE (dalla quale ultima la Russia, come del resto vari altri Stati europei, è sempre rimasta fuori). Dato il valore fondante che la rule of law e il rispetto dei diritti umani hanno avuto e hanno per quell’organismo, a sorprendere non può essere che di esso la Federazione russa non faccia più parte dal 16 marzo, ma semmai il modo tortuoso in cui si è arrivati a tanto, passando per un incrocio di mosse tattiche – o, se si preferisce, di reciproci tentativi di gioco d’anticipo –- tra la predisposizione e l’emanazione di un provvedimento sanzionatorio, ai sensi di precise previsioni statutarie, e un ritiro volontario: il tutto, peraltro, quasi a ricalco di una vicenda che più di cinquant’anni or sono (era il 1969) vide, quale antagonista del Consiglio, la “Grecia dei colonnelli”, ossia il dispotico regime di una cricca installatasi al potere nel Paese già culla della democrazia. Allora come ora, la conclusione appariva, in ogni caso, pressoché obbligata. Fuori luogo, però, sarebbe trarne un motivo di esultanza, giacché – per limitarci alla vicenda attuale – tale fuoruscita ha almeno un paio di contraccolpi negativi, proprio dal punto di vista dei valori in nome dei quali essa si è realizzata: comporta infatti il venir meno della possibilità di un dialogo non meramente occasionale tra autorevoli esponenti di culture giuridiche diverse all’interno di una struttura quale quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che del Consiglio d’Europa è organo di non secondaria importanza e si colloca tra i più adatti a favorire la reciproca conoscenza –e, fin dove possibile, la reciproca comprensione e l’avvicinamento – degli orientamenti culturali sottostanti ai rispettivi modi di concepire e di vivere il diritto e la giustizia; e, soprattutto, lascia senza una qualificata sede di tutela le doglianze di un gran numero di persone fisiche e giuridiche contro repressioni e soprusi, la cui denuncia aveva spesso trovato udienza a Strasburgo.
Di maggiore risonanza, ma di minore rilievo pratico, un provvedimento, di analogo tenore, successivamente decretato (il 7 aprile) dall’Assemblea generale delle Nazioni unite: si tratta della sospensione della Russia dal Consiglio dell’O.N.U. per i diritti umani, organo dotato di competenze assai limitate ed al quale è stata spesso addebitata la tendenza a far giocare, nelle risoluzioni, considerazioni di carattere politico più che giuridico, come invece la sua denominazione parrebbe imporre. Del resto, è stato giustamente osservato come sia a dir poco paradossale il fatto che di quel Consiglio la presidenza resti conferita all’Arabia saudita, non certo un campione da portare ad esempio per attenzione, cura e salvaguardia degli human rights … Si è d’altronde notato che la maggioranza dei voti a favore della risoluzione è stata alquanto inferiore a quelle che in due precedenti occasioni avevano sostenuto altrettante risoluzioni di mera condanna della Russia per quanto accaduto a partire dal 24 febbraio. Quanto alla presa di contatto che il Segretario generale dell’O.N.U., António Guterres, ha voluto avere negli ultimi giorni di aprile sia con il presidente russo sia con quello ucraino, sfidando scetticismi e diffidenze, l’aspetto più apprezzabile sta forse nella già citata, sincera ma amara, confessione d’impotenza, formulata avendo nelle orecchie il rumore dei missili russi lanciati sulla città di Kiev proprio a pochissima distanza dal luogo in cui lui si trovava a colloquio, reduce dal viaggio a Mosca. Gli va inoltre dato atto che le sue non sono state soltanto rituali visite di protocollo. In particolare, ne è venuto un appello comunque coraggioso – lanciato con gli occhi su prove inconfutabili del dato oggettivo della commissione di crimini gravissimi – per una cooperazione, anche da parte della Russia, alle relative indagini nella sede competente; e non importa se al momento la sollecitazione appaia lontanissima dalla probabilità di essere raccolta seriamente. Rimanendo, poi, il dubbio che la parte più rilevante dell’impegno di questo ideale costruttore di ponti si sia svolta e si svolga sottotraccia, non va taciuto che Guterres è ripartito per New York avendo ottenuto l’assenso delle due parti alla partecipazione dell’O.N.U. stessa e del Comitato internazionale della Croce Rossa a una tra le più delicate operazioni di evacuazione di civili da zone pericolosissime. Una goccia d’acqua, in un immane inferno ancora bruciante, ma a volte è già molto il pochissimo. Ed è semmai sconcertante, al constatare nuovi ostacoli, ritardi e voltafaccia de facto, che neppure tregue e corridoi umanitari davvero “garantiti” possano farsi realtà – benché promossi e asseverati da soggetti del genere – prima di essere diventati totalmente o parzialmente inutili perché nel frattempo le persone da aiutare hanno continuato a morire.
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In chiusura, mi sono permesso di prendere a prestito tre immagini, a loro volta tali da colpire fortemente i sentimenti. Le abbiamo, esse pure, potute vedere e rivedere, in queste settimane, sui teleschermi e sui giornali. Non hanno a che fare, almeno direttamente, con i legami interni alla triade che ha fornito il filo rosso per buona parte di questo ricordo di Mireille Delmas-Mart (diritto, giustizia, pace); ma mi prendo ugualmente questa libertà, perché mi sembra che con intensità particolare possano esprimere delle “visionarietà” positive, anche se non identiche a quelle di questa giurista/umanista, e contribuire a non far perdere del tutto quella speranza nell’umanità, che si è visto non esser venuta meno a lei neppure a conclusione dell’ultima sua fatica editoriale, pur necessariamente venata dalla constatazione di tanti disinganni.
La prima immagine mostra la Piazza Rossa, con l’intervento della polizia moscovita contro persone inermi. Gente colpevole di alzare rudimentali cartelli con su scritto – preceduto da un “nyet” (“no”) – il vocabolo “voyne/guerra”, messo dalle autorità in una lista di proscrizione vietandosene l’uso, sotto pena di sanzioni severissime, se esplicitamente o implicitamente allusivo all’”operazione militare speciale” condotta in Ucraina. O colpevole anche soltanto di esibire un fiore o di sventolare un foglio interamente bianco. Semplici parole, semplici gesti, persino semplici silenzi. Ma fanno egualmente paura e – non meno delle altrettanto coraggiose sfide di giornalisti che riescono ancora a fornire al popolo russo lampi di un’informazione veritiera – sono comunque intollerabili dal potere, che risponde anche così; e il coraggio di chi sfida i divieti non sembra servire a nulla, sul momento: se avrà una carica dirompente, sarà a lunga gittata, com’è nello stile dei visionari. C’è chi ha scorto qui un’analogia con certe sortite dei movimenti clandestini operanti tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso in varie parti dell’Est europeo. Tra essi uno ve n’era, significativamente evocativo di un’altra parola-simbolo, “Carta”, capace di sintetizzare da sola un complesso di rivendicazioni tenute insieme dal convergere nel comune riferimento alla questione dei diritti umani. Nato e cresciuto in Cecoslovacchia, si chiamava appunto “Charta 77”, così intendendo farsi cassa di risonanza, oltre che di “storici” documenti dell’O.N.U., di uno, più specifico e più recente, diffuso nel 1975 quale “Atto finale” di una Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (alla quale avevano partecipato anche l’Unione sovietica e i Paesi cosiddetti “satelliti”), conosciuto anche come “Carta di Helsinki”: frutto di evidenti compromessi, quel testo, agli occhi di chi viveva al di qua del “Muro di Berlino”, appariva, in sé, tutt’altro che idoneo a fissare uno standard davvero adeguato di tutela minimale di quei diritti. Eppure, all’attività di movimenti come quello, e al simbolo preso ad emblema, si dovette poi riconoscere il ruolo di uno dei fattori che – insieme, tra gli altri, agli sviluppi, disastrosi per l’URSS, di un’altra “operazione speciale militare”, quella in Afghanistan – contribuirono a creare e a nutrire un humus favorevole all’incruenta rivoluzione di Gorbaciov e alle sue ripercussioni in tutto quello che era stato l’Impero sovietico. Nessuno può sapere se, mutatis mutandis, qualcosa di simile abbia prima o poi a ripetersi. Nondimeno, se ciò dovesse accadere – e, sperabilmente, evitando le cadute dalla padella nella brace originatesi con lo sviamento di quella rivoluzione – tra i primi a dover essere ricordati sarebbero quegli sconosciuti “visionari” che nel tardo inverno del 2022 lanciarono sfide votate all’insuccesso immediato e sul momento gravide di conseguenze (pesantissime) soltanto a loro carico.
[…]. È espressione tra le più tangibili e non retoriche di solidarietà la seconda immagine. Quella processione di convogli umanitari che si è vista snodarsi sin dai primi giorni posteriori all’apertura delle ostilità per raggiungere l’Ucraina o le regioni di confine al fine di portare cibo, medicinali, tende, coperte e altri generi di prima necessità, nonché a recare diretta assistenza sanitaria a centinaia di profughi in fuga: opera, in larga parte, di persone e gruppi del volontariato, dispiegatasi comunque nell’insieme in misura superiore al prevedibile. Indispensabili, sicuramente, altrettanto da subito coordinamento e assunzione di responsabilità istituzionali, anche ad evitare danni o sprechi da parte di qualche generoso ma inesperto dilettante e, più ancora, sfruttamenti della situazione da parte di qualche cinico profittatore; ma soprattutto al fine di procurare e di garantire, sia nell’immediato sia là dove necessario dopo la prima assistenza, un’accoglienza effettiva, dignitosa e altrettanto disinteressata. Inaccettabile, invece, che all’insorgere – in atto o prevedibile – di problemi di convivenza e di equità nella distribuzione di risorse, trovi seguito l’odiosa distinzione pregiudiziale, già lanciata o rilanciata da qualcuno, tra questi “profughi autentici” e la gente che “arriva sui barconi”. In ogni caso, però, quel primo impulso è valso a dimostrare che ci sono ancora energie capaci di muoversi con altruismo, a prescindere da obblighi giuridici o sociali e da ricompense. E non ha molta importanza che, se pure in questo caso si vuol parlare di “forze immaginative”, creative, inventive, esse non scaturiscono da alcune regole di diritto, sia pure “indeterminata”.La terza immagine è quella di due coppie di mani femminili, intrecciate a reggere il legno di una Croce. Il cammino che le due donne percorrono è quello della tredicesima tappa della Via crucis del Venerdì Santo di quest’anno al Colosseo e segna la deposizione del corpo del Crocifisso e la sua consegna alla Madre. Il gesto, però, nella sua specificità, racchiude più di un simbolo che va al di là del messaggio che le qualificazioni della “stazione” di per sé vogliono implicare. La fede che esprime è in un Dio, non supporto di egoismi, nazionali o d’altro genere, ma promotore di pace e di perdono reciproco, e d’altra parte si fonde con quella in una fraternità solidale, sentita e vissuta anche da quanti si è soliti qualificare (ed essi stessi per lo più si qualificano) come ”non credenti”. È, però, anche, e forse soprattutto, simbolo di un farsi, la solidarietà, ancora più stretta nei momenti del dolore, proprio o altrui, e quando tutto, attorno, mette maggiormente in evidenza i motivi di divisione, di lotta, di guerra. Come si sa, non è stata la recita di due attrici. Le due donne sono legate da tempo da un’amicizia, cresciuta e vivificata anche dallo svolgimento di un comune impegno di lavoro a beneficio degli infermi. Due amiche, dunque: benché …, verrebbe da dire, ma il loro gesto – silenzioso e circondato dal silenzio, in risposta anche a certe reazioni, scandalizzate e rumorose, all’annuncio che ci sarebbe stato – deve appunto far evitare i “benché”. Semplicemente, una è russa e l’altra ucraina. E per ciascuna di loro l’appartenenza al proprio popolo, per nulla rinnegata o minimizzata, come non incrinava prima, così non incrina ora, una salda amicizia; né induce a nasconderla; anzi, spinge a manifestarla, sfidando ire e reprimende dei rispettivi “nazionali”. In ogni caso, è stato un gesto esemplare, il quale si aggiunge, con la sua originalità, ai tanti che in questi mesi hanno offerto intellettuali, artisti e gente comune, allestendo e partecipando a incontri, concerti, spettacoli, mostre e altre manifestazioni per ribadire la fratellanza tra due popoli messi uno contro l’altro da una guerra insensata; e insieme per ribadire il valore unificante – nel senso, però, dell’”unità dei distinti” – della cultura e dell’arte, lasciando a qualche piccola mente il pregiudizio che in momenti come questo fosse opportuno mettere in parentesi programmi nei quali comparissero nomi come quelli di Dostoievskij o di Ciajkovskij. Con riferimento ad altri problemi e ad altri contesti Mireille Delmas-Marty ha coniato un’espressione audace ma efficacissima: “sovranità solidale”, contrapposta a una cupa “sovranità solitaria”. È una forzatura scorgere, nel gesto di quelle mani intrecciate, qualcosa di non lontano dall’idea che ha ispirato quell’ossimoro?
Mario Chiavario