Chiunque abbia meno di trent’anni non conosce nemmeno la parola inflazione. Bisogna essere ben più anziani di così per avere memoria vissuta degli anni Settanta del secolo scorso, quando i prezzi crescevano ogni anno fino al 20 per cento. Allungando lo sguardo ancora più lontano nel tempo, vedremmo che, a parte gli anni delle guerre mondiali e quelli appena ricordati, l’aumento dei prezzi è stato sempre moderato, per vari motivi strutturali ma anche perché la stabilità del potere d’acquisto della moneta era una priorità dei responsabili della politica economica. Negli ultimi vent’anni abbiamo addirittura visto banche centrali incapaci di fare salire l’aumento annuo dei prezzi al tasso vicino al 2 per cento che esse ritenevano desiderabile. Eppure ci hanno provato, inondando l’economia di liquidità monetaria con una larghezza senza precedenti.
Questo mondo di prezzi stabili è in via di esaurimento? Dai mercati finanziari arrivano segnali che gli operatori si aspettano un’onda inflazionistica. Due economisti americani democratici e keynesiani, Larry Summers e Olivier Blanchard, che nel 2008 avevano criticato Obama per avere dato uno stimolo insufficiente alla creazione di posti di lavoro, ritengono adesso che quello varato da Biden sia troppo forte e tale da creare un aumento dei prezzi. Altri, come Paul Krugman, negano però che nell’immediato corriamo un simile pericolo.
Allungando lo sguardo verso un futuro meno immediato, un economista inglese, Charles Goodhart, si attende la fine di un periodo plurisecolare di bassa inflazione. Quella che ha caratterizzato l’ultimo ventennio è dovuta soprattutto ai prezzi di molti beni prodotti in economie, come quella cinese, nelle quali i salari erano estremamente bassi. La divergenza tra il costo del lavoro cinese e quello europeo e statunitense si sta però riducendo molto rapidamente. Bene o male che sia, non potremo più contare sul calmiere dei prezzi prodotto dalla concorrenza asiatica. Nel periodo ancora più lungo, sostiene Goodhart, le tendenze inflazionistiche saranno alimentate soprattutto dalla demografia. Sinora, un’elevata (seppure in diminuzione) proporzione di occupati sulla popolazione ha sostenuto l’offerta di beni contenendo l’aumento dei prezzi Ci avviamo però a un mondo nel quale la presenza di una popolazione sempre più anziana, quindi improduttiva, farà crescere la domanda, mentre un numero sempre minore di occupati ridurrà l’offerta. L’effetto combinato sarà una spinta dei prezzi verso l’alto. Lo squilibrio tra domanda e offerta prefigurato dal cambiamento demografico sarà particolarmente inflazionistico perché la necessaria spesa sociale sarà, con ogni probabilità, finanziata con spesa pubblica in disavanzo, coperta da creazione di moneta.
Si tratta di previsioni a lungo termine, dunque particolarmente incerte, benché le tendenze demografiche lo siano abbastanza poco. La reazione naturale è: aspettiamo gli eventi. Anche assumendo che il nostro futuro vada in quella direzione, perché preoccuparcene adesso con tutti i problemi che dobbiamo affrontare? In fondo, il contenimento dell’inflazione è un problema tecnico del quale si occuperanno le banche centrali. E’ vero, ma per contenere l’aumento dei prezzi le banche centrali sanno fare una cosa sola, creare molta disoccupazione, soprattutto se non intervengono all’inizio del fenomeno, lasciando che tutti noi anticipiamo i nostri acquisti prevedendo che domani i prezzi saranno più elevati. A parte ciò, l’adattamento della nostra società ai mutamenti strutturali prodotti dai fattori demografici, tra i quali l’inflazione è solo uno dei tanti, richiede adesso la nostra attenzione perché i rimedi sono complessi, con forti implicazioni sociali e politiche. Si intrecciano con quelli delle ‘transizioni’ verde e digitale. Richiedono tempo per dare risultati.
La soluzione più ovvia e politicamente accettabile allo squilibrio demografico è l’aumento della produttività del lavoro: un numero minore di occupati potrebbe, con il progresso tecnico, produrre più beni per ogni ora lavorata, compensando l’uscita dalla forza lavoro delle persone anziane. Purtroppo, quest’obiettivo, poco presente nel discorso pubblico, soprattutto ma non solo a sinistra, è da un quarto di secolo eluso nel nostro impoverito paese. Gli altri antidoti al declino produttivo e all’inflazione da squilibrio demografico sono: l’allungamento della vita lavorativa ben oltre la soglia attuale dei 65 anni, una costante crescita della pressione fiscale per finanziare gli anziani pur mantenendo in equilibrio il bilancio pubblico, un robusto flusso di immigrazione, forti investimenti in paesi “giovani” con i cui rendimenti finanziare pensioni e sanità per gli anziani. Sono però quattro politiche sulle quali vi è un basso consenso tra tutte le forze politiche, che peraltro riflettono sentimenti diffusi tra tutti noi.
Come si usa dire, “non ci sono le condizioni politiche” per preparare il paese alle conseguenze inevitabili del trend demografico. Purtroppo, quando queste condizioni matureranno sarà troppo tardi per mettere in atto soluzioni adeguate. A meno che non ci sia una presa di coscienza che si tratta di questioni di straordinaria rilevanza. La stabilità dei prezzi non occupa uno dei primi posti nella dottrina sociale della Chiesa. Tuttavia, le conseguenze sociali del suo venir meno possono essere considerevoli. Ne ricordo una sola: l’impoverimento di chi non lavora o ha remunerazioni che non si aggiustano all’aumento dei prezzi. Sono i più poveri quelli che soffrono maggiormente nei periodo di elevata inflazione.
Gianni Toniolo
(06. 03. 2021)
9 Marzo 2021 at 12:29
Articolo molto interessante e che pone temi non abbastanza dibattuti, quindi doppio merito. Mi pare di poter dire che, a livello europeo, l’euro abbia contribuito a una certa stabilità dei prezzi, dando maggiore sicurezza e fluidità agli scambi commerciali. Sul fatto che ci saranno meno lavoratori e lavoratrici, bisogna capire quanto la tecnologia, che sta tuttora facendo passi da gigante, sarà in grado di sopperire (pur dovendo esserci sempre, per fortuna, esseri umani che progettano, costruiscono, trasportano, vendono e riparano le macchine), e semmai c’è da chiedersi come spostare forza lavoro su settori nuovi e/o più collegati ai servizi e al welfare, senza con ciò rinunciare (anche perché sarebbe impossibile) a un manifatturiero di qualità e sostenibile. Ma qui il discorso si fa complesso e mi fermo, per ora. Mi piacerebbe che ci fossero nuove puntate di queste stimolanti e documentate analisi.
11 Marzo 2021 at 18:49
Considerazioni interssanti sulle quali, soprattutto circa l’euro, non ho molto da aggiungere. Se i lavoratori (sempre più anziani) fossero sostituiti dalla tecnologia, dal punto di vista dell’inflazione si porrebbe il problema, comunque importante, di chi si appropria di ciò che producono i robot.Una questione non da poco… Quella dei robot è la soluzione pensata dai giapponesi che non vogliono, almeno fino a poco tenmpo fa, alcun tipo di immigrazione. Noi forse faremmo meglio ad accrescere il numero degli immigrati ma soprattutto a integrarli e istruirli meglio. Se questo non sarà politicamente possibile dovremo pensare ad altro. Ma la demografia è un po’ come l’ambiente: ha effetti a lungo termine per i quali bisogna trovare soluzioni adesso, purtroppo glimincentivi a farlo sono bassi. Poi però sarà tardi. Con conseguenze sociali forse rivoluzionari (in entrambi icasi). Grazie dell’attenzione
12 Marzo 2021 at 15:48
Riflessione interessante e di ampio respiro: grazie. Prevedere che cosa accadrà nel lungo periodo è esercizio arduo, ma necessario: guardare oltre l’orizzonte del ciclo elettorale è esercizio che occorre tornare a praticare.
Due considerazioni.
1) Trovo debole – ma accetto ovviamente confutazioni al mio parere – la tesi di Charles Goodhart secondo la quale la popolazione anziana in aumento accrescerà la domanda di beni. Credo che questa fascia di popolazione possa fare crescere – lo vediamo già adesso – la domanda di servizi di cura e di assistenza, oltre che di beni capital intensive come le strumentazioni mediche. L’impatto inflazionistico di questi beni è davvero così forte?
2) Credo che nell’analisi di lungo periodo debba essere considerato anche il tema della distribuzione del reddito tra capitale e lavoro. Da sessant’anni stiamo assistendo al divaricarsi della forbice tra i due fattori, a favore del capitale. Da un lato, una risposta alla questione salariale porterà con se immancabili spinte inflazionistiche; dall’altro, salari compressi potrebbero ingenerare nuove crisi da sovrapproduzione, aggravate da un alto numero di persone senza potere d’acquisto a causa della progressiva automazione della produzione.
Chiudo con una riflessione di tipo politico: pandemia, crisi finanziarie e quarta rivoluzione industriale ci mettono di fronte ad un cambiamento d’epoca senza precedenti; l’ultima volta che si è presentata una situazione minimamente simile a questa, la conferenza di Bretton Woods costruì le fondamenta del sistema economico dei 30 anni successivi. La comunità mondiale è in grado oggi di fare altrettanto?
14 Aprile 2021 at 17:45
Caro Davide,
credo che il mio amico Goodhart abbia precisamente in mente quanto tu hai sottolineato: una crescente domanda di servizi sanitarie dia ssistenza che, a suo aprere, saranno necessariamente finanznaiti in difecit dallo stato con emssione di moneta e quindi inflazione.
Quanto alla distribuzione del reddito tra capitale e lavoro, se le cose si eveolvessero come tu temi, ci sarebbe una deflazione piuttosto che un’inflazione per l’eccesso di offerta rispetto alla domanda. Non c’è dubbio che, almeno negli ultimi trent’anni, una quota crescente del reddito sia andata a remunerare il capitale. Ciò è dovuto in parte alla crescita del prezzo relativo del capitale stesso (azioni obbligazioni) della quale hanno benficiato anche milioni di membri della classe media. Ciò non toglie che si siano cauumulate fortune colossali che, soprattutto ma non solo negli USA, hanno acquisito un potere politico preoccupante per la loro “potenza di fuoco” nel finanziare questo o quel candidato a cariche politiche. E’ l’effetto di potere politico, più che quello economico, che trovo peersonalmente più preoccupante.
Già, Bretton Woods. Ti confesso che mi aspettavo qualcosa di simile dopo il 2008. Ma le idee rivoluzionafrie sono come il coraggio di don Abbondio, se uno non le ha non se le può dare.
20 Marzo 2021 at 16:18
Sono contenta di aver avuto l’occasione di leggere l’interessante (e preoccupante) commento di Gianni Toniolo che non ho più incontrato dagli anni lontani della Fuci: nel 1963 io ne uscivo da vicepresidente!
Nel merito del tema penso che non a caso E.Letta abbia già posto quello della cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia. Sono convinta che per contrastare, almeno parzialmente, l’invecchiamento della società italiana l’unico strumento realisticamente disponibile sia proprio una effettiva, doverosa e necessaria valorizzazione dei giovani per i quali comunque lo stato spende nell’istruzione ( direi quasi a perdere dal momento che nel limbo nel quale si trovano è più facile che abbiano motivi di rancore che di gratitudine)
14 Aprile 2021 at 18:00
Cara Maria Pia,
eh sì.. come si dice in America ‘long time no see’. Chissà..
Condivido il plauso diffuso per l’assegno universale ai figli. Speriamo serva un po’, anche se certamente non basta. Per il resto, ho passato mezzo secolo a insegnare quindi figurati se non sono d’accordo con quanto scrivi. La scuola italiana non è solo sotto-finanziata ma anche, in media, di bassa qualità, seppure con punte altissime. Le indagini PISA sono impietose al riguardo: educhiamo pochi ragazzi e spesso li educhiamo male. Le responsabilità si dividono tra molti attori. Anche i sindacati degli insegnanti ci mettono del loro, con una preoccupazione a difendere e conservare piuttosto che innovare che mi lascia, diciamo, perplesso. Non mi ha bene impressionato l’opposizione senza se e senza ma alla propsta di allungare di qualche settimana l’anno scolastico per consentire un po’ di lezioni in presenza. Anche perchè il nostro anno scolastico è tra i più brevi d’Europa e andrebbe ripensato: nella mia esperienza (sia universitaria sia di padre e poi di nonno) nei tre mesi estivi di sostanziale fare niente i ragazzi perdono molte cose imparate, soprattutto il ritmo dell’apprendimento.
Un caro saluto