Dorothy Day (1897-1980) è stata una giornalista e attivista sociale anarchica, che diede vita a numerose campagne di giustizia sociale in difesa dei poveri e dei senza casa negli Stati Uniti. Convertitasi al cattolicesimo, aprì “una casa dell’ospitalità” nei quartieri poveri di New York. Se era radicale nel sociale, non lo era di meno nella fede; anzi, il suo impegno così radicale nel sociale le era possibile grazie a una fede radicale
1.
Dorothy Day è un personaggio straordinario, purtroppo poco conosciuto in Italia, perché l’America è per noi lontana non solo geograficamente, ma più ancora per la cultura e il modo di vita.
La tradizione cattolica sociale in Italia e in Europa si fonda sull’esperienza associativa, mentre Dorothy Day rappresenta un’esperienza autonoma, singolare, di grande rilievo sul piano sociale cristiano; e come tutte le esperienze significative, tolti gli aspetti legati all’epoca, rimane una vicenda che ha molto da insegnarci anche oggi.
Dorothy, nata a New York nel 1897, ha ricevuto qualche elementare insegnamento religioso da bambina, ma appena diventata più grande ha abbandonato la religione.
Questa posizione, diventata poi una scelta esplicita, si è man mano rinsaldata nelle diverse fasi della sua vita: l’università, i diversi giornali di sinistra e sociali in cui ha lavorato, gli amici intellettuali che frequenta a New York, tutti non credenti.
Il mondo che conosce non ha un atteggiamento di ostilità alla religione, le è piuttosto indifferente, come del resto la maggior parte della gente; i cattolici poi, in un ambiente prevalentemente protestante, rappresentano un mondo a sé stante, piuttosto separato.
Dorothy, che scrive sui problemi operai e sulle dimostrazioni sindacali, si chiede il perché dell’assenza dei credenti nel mondo del lavoro. Riteneva che i tiepidi che andavano in chiesa speravano di essere assolti in un altro mondo e intanto approfittavano il più possibile di quello presente: “non vedeva nessuno che offrisse il proprio mantello al povero”.
Partecipando ad una manifestazione a favore di donne in carcere viene arrestata e condannata a un mese di prigione; sarà un’esperienza che la segnerà molto, non tanto per sé, ma perché comprende che “non sarei stata più libera, sapendo che dietro le sbarre di tutto il mondo c’erano donne e uomini, giovani di ambo i sessi che subivano carcerazione, punizione, isolamento e pene per crimini dei quali tutti siamo colpevoli”.
In un’altra esperienza successiva di carcere pensa che “eravamo un popolo caduto dallo stato di grazia e abbandonato da Dio”.
I giornali in cui lavora (The call, The masses, The liberator) sono espressione del mondo del lavoro dove incontra i rappresentanti dei vari movimenti e associazioni: i sindacalisti AFL, i radicali, gli anarchici; fra tutti preferisce gli “wobbies” (gli appartenenti al sindacato I.W.W., International Workers of World), perché più portati all’azione diretta e più vicini al popolo, ai poveri, da cui Dorothy si sente attratta.
“Aiutavamo gli altri, ma non ci spogliavamo per aiutarli”: mancava secondo lei qualcosa che chiama “filosofia della povertà”, in altre parole una concezione che andasse al di là del sentimento.
Prende poi una casa a Staten Island dove convive con un uomo molto libero, che non vuole sentire parlare di religione e di soprannaturale.
Si amano ed è per Dorothy un periodo molto felice, però è anche un periodo in cui avverte sempre più insistentemente il problema religioso; si meraviglia con sé stessa di pregare quasi ogni giorno, passeggia recitando il rosario e contemporaneamente ripetendosi di continuo “la religione è l’oppio dei popoli”.
L’esigenza di pregare non è dovuta a uno stato di infelicità o di bisogno, per chiedere qualche grazia; al contrario è felice e la sua preghiera esprime ringraziamento al Signore per questa felicità.
Per completare la sua felicità rimane incinta e dà alla luce una bambina che chiamerà Tamar; è risoluta a far battezzare sua figlia, perché non vuole che cresca “disordinata come lei”.
E il battesimo della figlia trascina con sé, giocoforza, il battesimo della madre: Dorothy a trenta anni, nel 1927, diventa cattolica.
Questa scelta comporta la rottura con l’uomo con cui conviveva e anche molti amici la lasciano; la scelta cattolica è in aperta contraddizione col mondo in cui viveva.
Il problema che avvertiva anche in passato, ma che ora diventa lancinante è come accordare la sua scelta cattolica con la passione per i poveri e per il mondo del lavoro a cui crede e a cui si è dedicata, dal quale il mondo cattolico sembra essere assente o estraneo.
Durante la grande depressione viene organizzata a Washington un’imponente manifestazione di disoccupati e di lavoratori dell’intera America: per tre giorni la manifestazione rimane bloccata in attesa dell’autorizzazione e le persone, tutta povera gente, dormono nei camion, sui prati, sui marciapiedi.
Dorothy partecipa come giornalista soffrendo di questa umanità dolente: alla fine della manifestazione, l’8 dicembre, si reca al Santuario della Madonna Immacolata dell’Università Cattolica.
Qui prega il Signore che la illumini a trovare una risposta sul come sia possibile essere cattolica e rimanere fedele ai poveri e ai lavoratori: Dorothy si è fatta cattolica, ma cerca il senso, lo scopo della sua vita, per il quale è pronta a spendersi.
2.
Tornata a New York incontra Peter Maurin, che gli è stato inviato dal direttore del Commonweal, con la spiegazione che erano simili: Maurin è di origine francese, e in Francia ha fatto esperienze col Sillon, prima di emigrare in Canada e poi negli Stati Uniti.
Quando incontra Dorothy ha ormai maturato una fede profonda, che si esprime in una visione personalistica della realtà sociale.
Per Dorothy è l’incontro decisivo; anni dopo dirà che quell’incontro costituiva la concreta risposta alla sua preghiera all’Immacolata Concezione.
Dalla loro unione scaturisce il programma del movimento che prenderà il nome di “The catholic worker”, titolo che daranno anche al loro giornale, il quale doveva servire a propagandare le loro idee (giornale che ha continuato a uscire anche dopo la loro scomparsa).
Maurin voleva che si chiamasse “The catholic radical”, ma viene decisa una formula più accettabile; se non è passato il nome è rimasta invece la sostanza: la loro concezione era indubbiamente radicale, tanto sul piano sociale che sul piano cristiano.
La scelta prima è per i poveri, per i quali si pensa di fondare delle “case di ospitalità” aperte a tutti e che offrano gratuitamente cibo e alloggio; e inoltre dar vita a delle fattorie (che Maurin voleva chiamare “università agronomiche”, perché vi si doveva anche studiare e apprendere), sempre rivolte ai bisognosi.
Per realizzare queste strutture non si devono fare richieste, men che meno allo Stato, perché non si deve vivere di assistenza, quindi “non richieste, ma appelli”.
Con gli appelli di solidarietà e con le offerte che ricevono, riescono a sostenere per decenni l’intera loro attività, un vero miracolo.
Dorothy e Maurin vivono la vita degli altri poveri, mangiano con loro e vivono nella stessa casa, che generalmente si trova negli slums; la loro è una scelta di povertà volontaria, scelta estrema che li rende credibili, facendosi poveri tra i poveri.
Povertà volontaria significa per loro vivere confidando nella divina provvidenza, vestendo abiti usati, dormendo dove è possibile, spesso saltando il pranzo.
Rifuggono dall’assistenza che riduce alla passività e fa venire meno la responsabilità personale: meglio la povertà che la dipendenza.
Ritengono l’amore per i poveri un precetto, non un consiglio, che deve essere vissuto sino in fondo: è un atto di giustizia, un modo di far partecipare tutti di ciò che possediamo.
Hanno in mente un ideale di società diversa, una società in cui alla gente sia più facile essere buona, sapendo bene che non ci può essere un “salto” verso una società migliore, la quale può invece essere costruita solo a poco a poco a partire dalle persone.
Il valore della persona umana è trascendente, ma la persona si realizza nella vita sociale quotidiana; da qui il loro impegno per i lavoratori e per i poveri.
In fondo la loro ricerca è stato un tentativo vissuto di individuare una via di soluzione alla questione sociale diversa e alternativa al comunismo, una strada che fosse espressione del personalismo cristiano.
3.
Una loro posizione peculiare riguarda il lavoro; particolarmente Peter Maurin era fortemente critico del sistema salariale, in quanto riteneva che il salario sicuro e un certo benessere portasse all’appagamento e alla rinuncia ad assumere una responsabilità per la vita propria e degli altri.
Inoltre, riteneva che i lavoratori salariati non sarebbero stati in grado di pensare in termini di comunità, ma al massimo di solidarietà tra compagni.
Pur condividendo le stesse idee, Dorothy, anche per la sua precedente esperienza, era più portata a considerare la situazione presente e quindi a solidarizzare con gli scioperi dei lavoratori, ai quali partecipava di frequente.
Erano critici costitutivamente della “aristocrazia del lavoro”, cioè di coloro che guadagnavano molto, e altrettanto del lavoro che riduce l’uomo a strumento, perché ferisce i corpi e provoca la perdita dell’anima.
La dignità umana è fortemente legata al lavoro, perché il lavoro è una dimensione essenziale della vita umana.
Da qui la loro proposta di de-proletarizzazione, cioè di una condizione strutturale diversa del lavoro, a cui cercavano di dar vita nelle fattorie agricole, piccole comunità autonome.
Prendevano a base del loro pensiero le encicliche dei papi (che erano a quel tempo la Rerum Novarum e la Quadragesimo Anno) che a loro avviso i cattolici avrebbero dovuto conoscere e applicare; a dimostrazione di questo, partecipavano agli scioperi e alle dimostrazioni con manifesti che riportavano frasi delle encicliche (mettendo in seria difficoltà i poliziotti quando dovevano arrestarli).
Consideravano le loro idee una “filosofia del lavoro”, che propagandavano col “The catholic worker”.
Il loro discorso si rivolgeva molto all’ambiente cristiano che viveva di un vangelo idealista e romanticizzato, lontano dalla realtà.
Sembrava loro che sia i preti che i laici avessero abbandonato o non conoscessero il concetto cristiano del lavoro.
Il cristianesimo aveva ridato valore al lavoro e rivalutato i lavoratori, era dunque un dovere dei cristiani andare al popolo, impegnarsi per la giustizia sociale.
Vedevano invece che l’operaio era considerato dalla chiesa quando frequentava la parrocchia, ma non lo era quando invece partecipava a uno sciopero.
Fino all’ultimo Dorothy e Maurin hanno vissuto in questa contraddizione: l’amore per la chiesa e l’amore per i poveri, vissuti congiuntamente, erano spesso un’occasione di conflitto con una parte della chiesa, spesso la più importane per dimensione e autorità.
4.
Ciò che consentiva a Dorothy e a Maurin di mantenere fermo il loro impegno, nonostante le critiche, gli attacchi, le difficoltà continue, è stata certamente la loro fede profonda.
Per loro la fede non era un segmento della vita, ma la sostanza della vita. Vivevano di fede e di preghiera.
Quando avevano bisogno di denaro e di finanziamenti, Maurin diceva “Quando avevano bisogno di denaro, i santi pregavano”.
Una volta che un giudice li aveva condannati a una multa e poi si era scusato perché non sapeva che si trattava di una casa per i poveri e il fatto aveva dato loro grande pubblicità, Dorothy non era contenta: le sembrava che questa pubblicità non fosse “benedetta”.
Vedevano i cattolici vivere in un mondo a parte, mentre il loro compito era quello di portare Cristo nella vita del mondo: pensavano più a costruire chiese e opere che a svolgere la loro missione spirituale.
Questo è ciò che appariva a Dorothy e a Maurin, mentre la preoccupazione loro e del movimento rivestiva un carattere universale, pensavano alla conversione delle masse.
Nell’atteggiamento nei confronti della chiesa non c’era nessuna acredine o facile giudizio; pensavano che solo con una coerente vita cristiana si potesse portare il proprio contributo al cambiamento: “se sale la religione nel nostro cuore, salirà anche nel mondo”.
Se erano radicali nel sociale, non lo erano di meno nella fede; la fede andava vissuta integralmente e congiuntamente all’impegno sociale.
Spesso l’impegno sociale sembra comportare una diminuzione dell’impegno di fede, sino al rischio di un suo abbandono; e allo stesso modo si è reticenti ad impegnarsi nel sociale per paura di venir meno all’impegno religioso.
Si pensa in termini alternativi: più impegno sociale corrisponde a meno impegno religioso, più impegno religioso comporta minor impegno sociale.
Non così per Dorothy e Maurin: massimo impegno sociale e massimo impegno spirituale vanno di pari passo, e questo impegno così radicale è possibile proprio a causa di una fede radicale.
In questo sta la grandezza della loro testimonianza.
Sandro Antoniazzi