Il famoso film di Charlie Chaplin “Tempi Moderni” segna una critica molto forte al paradigma organizzativo imperante all’epoca costituito dal cosiddetto taylorismo che consisteva nel tentativo di standardizzare i processi, trattando i lavoratori come delle macchine con l’obiettivo di aumentare la produttività del lavoro. Nel tempo la legislazione giuslavoristica ha trovato forme e modalità per tutelare e difendere la dignità dei lavoratori dagli eccessi del taylorismo.
Industria 4.0 e intelligenza artificiale costituiscono oggi degli elementi del processo produttivo che rendono obsoleti alcuni degli strumenti di tutela del lavoro e rendono necessario un urgente aggiornamento.
Affidare ad un algoritmo la scelta del profilo migliore può essere una modalità rapida ed economica di selezionare, ma in primo luogo espone la selezione alla possibilità che l’intelligenza artificiale sviluppi dei bias che possono inficiare la correttezza del processo. L’altro aspetto importante è la trasparenza della procedura, cioè il diritto del valutato di conoscere sia la base informativa, sia l’algoritmo sulla base dei quali gli individui vengono valutati.
Un altro aspetto interessante è quello legato al miglioramento dei processi produttivi ottenuto attraverso il monitoraggio delle attività lavorative. Un principio generale è che non è lecito il controllo dell’essere umano da parte di una macchina o di un sistema di controllo remoto. Tuttavia nell’organizzazione del lavoro 4.0 è quasi impossibile separare il monitoraggio dei processi dal controllo del lavoratore. I device indossabili, gli smartphone o gli altri strumenti di monitoraggio del processo raccolgono tutta una serie di dati non solo sulla produttività del processo, ma anche sulla produttività del lavoratore e sul suo comportamento durante il processo produttivo.
La cosiddetta GIG economy è un’economia in cui il rapporto di lavoro viene riorganizzato per essere messo al servizio dell’economia digitale. L’algoritmo può non limitarsi a monitorare il lavoratore, ma può essere trasformato in un manager e istruito per organizzare il lavoro, utilizzando la gran mole di dati che riesce a raccogliere. Lo stesso algoritmo potrebbe anche facilmente sviluppare dei bias discriminatori e tendere a sfruttare o emarginare alcuni lavoratori.
L’algoritmo manager può sicuramente rendere più efficiente il processo produttivo, ma può facilmente dare origine ad un nuovo taylorismo 4.0. Rischiamo di cadere in una sorta di “caporalato degli algoritmi” e per difenderci da questo le norme attualmente in vigore sono poco efficaci. Oggi è possibile con delle app contrattare una prestazione lavorativa di pochi minuti, con modalità che assicurano una competizione verso il basso della remunerazione di quel lavoro e, soprattutto, senza alcun vincolo contrattuale o di sicurezza. Da un lato si può parcellizzare la domanda e sottopagare la prestazione, dall’altro si ha l’interesse a svolgere il maggior numero di prestazioni possibili tralasciando tutte le forme di tutela del lavoro. L’algoritmo che sovraintende questo processo sistematico di sfruttamento del lavoro e che ne garantisce l’efficienza dal punto di vista economico altro non è che un caporale digitale che tratta il lavoro come una merce e che tenta di trarre il massimo profitto a dispetto di tutte le norme di tutela.
Tutti questi cambiamenti nel mercato del lavoro fanno sì che la dignità del lavoro e il rispetto dei diritti dei lavoratori non siano delle conquiste scontate. Il lavoro umano nel suo complesso necessita di nuovi strumenti di tutela.
“Noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo, che si può punire l’uomo col sistema del lavoro forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell’obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con l’ordine sociale del lavoro, che permetterà all’uomo di «diventare più uomo» nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, è inevitabile), ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie” (Laborem Exercens, 9).
Non si può, poi, parlare di dignità del lavoro senza affrontare il tema della disoccupazione che oggi costituisce una piaga di molti territori e in particolare nel Mezzogiorno.
La disoccupazione non costituisce solamente un problema dal punto di vista economico, ma anche e soprattutto dal punto di vista sociale ed etico, poiché i suoi effetti si riflettono sulla sfera privata degli individui, causando dei drammi e sconvolgendo spesso anche il loro equilibrio psicologico. La riduzione della disoccupazione, di conseguenza, dovrebbe diventare uno dei principali obiettivi della politica economica.
La disoccupazione costituisce un indicatore del potenziale umano inutilizzato e del livello di disagio economico e sociale. Per questo motivo il dibattito sulla disoccupazione, sulle sue cause e sulle politiche per diminuirne l’impatto è uno degli argomenti maggiormente dibattuto a tutti livelli, ma anche la promessa più a basso costo delle campagne elettorali.
Si consideri, inoltre, che nel Mezzogiorno il fenomeno assume un peso maggiore poiché presenta evidenti caratteri di strutturalità; in altre parole, persiste ormai da diversi decenni, a dispetto di altre realtà regionali nelle quali è più un fenomeno ciclico, e condanna intere generazioni alla precarietà e all’incertezza sul futuro.
La disoccupazione e le conseguenze che causa anche dal punto di vista sociale pongono un forte problema etico, perché i disoccupati di lunga durata, i lavoratori irregolari, le famiglie costrette al lavoro minorile costituiscono un caso di violazione di diritti fondamentali della persona.
Il tasso di disoccupazione giovanile, poi, nel Mezzogiorno supera spesso il 50%. Si è dunque di fronte a una disoccupazione costituita prevalentemente da giovani che non trovano spazi di inserimento nel mondo del lavoro e che sono destinati, con un alto grado di probabilità, a permanere nello stato di inoccupazione per un periodo medio-lungo. Infatti, i giovani, le donne e i segmenti meno istruiti, sia per ragioni culturali, sia per ragioni legate alla capacità di competere sul mercato, sia per la debolezza e la selettività della domanda di lavoro regionale, sono le componenti della popolazione più “tagliate fuori” dal mercato. È con riferimento a queste fasce che il Mezzogiorno manifesta maggiore ritardo rispetto al resto del paese.
La disoccupazione giovanile risulta particolarmente pesante perché viene a incidere su una personalità ancora in formazione, viene a condizionare il periodo delle scelte adulte, impedendo la formazione di una famiglia o scelte libere in relazione ai figli.
La disoccupazione diventa un condizionamento pesante per i giovani, per le donne e più in generale per i soggetti deboli che a seguito della sua situazione di disoccupazione e di precarietà si trovano esposti a ricatti e condizionamenti con l’impossibilità di esercitare pienamente i diritti di cittadinanza.
“Le persone maggiormente colpite dalla disoccupazione sono le donne e i giovani costretti ad iniziare la vita senza speranza e senza prospettive e a perdere anni preziosi della propria giovinezza nella ricerca vana di un lavoro. Non di rado esposti alla tentazione del disorientamento morale, o peggio, di aggregazione alla delinquenza organizzata che promette loro immediati e forti guadagni”. (Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, n. 9).
Nel Mezzogiorno la latitanza delle istituzioni e il drammatico fallimento di tutte le politiche occupazionali hanno dato fiato e potere a tutto un sottobosco politico-clientelare che ha barattato il consenso con la promessa di una occupazione assistita, che si manifestava in una pioggia di finanziamenti non inseriti in alcun progetto serio ed organico di sviluppo e che non faceva altro che inseguire le emergenze, non per risolverle, bensì per perpetuarle.
Compito, quindi, della dottrina sociale è ricordare ai politici che il lavoro non può essere ridotto a strumento di scambio clientelare.
Compito della dottrina sociale è anche ricordare agli imprenditori che il lavoro non può esser considerato una merce, non può essere sfruttato, sottopagato, oltraggiato.
Lo sfruttamento del lavoro è un peccato che grida vendetta davanti al Trono di Dio: “Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e vi volge il desiderio; così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato” (Dt 24,15).
La difesa della dignità del lavoro e del lavoratore è, quindi, per un cristiano un principio irrinunciabile ed un imperativo etico.
Domenico Marino