Diversi editorialisti si sono soffermati sull’intervista con cui Romano Prodi ha chiarito la sua decisione di andare a votare “per l’affermazione del centrosinistra”. Un convincimento perentorio: “LeU non è per l’unità del centrosinistra. Punto!“. Prendendo le distanze dagli scissionisti, Romano Prodi con quelle poche parole ha fatto però capire qualcosa in più. Ha cioè dimostrato la sua perenne antipatia verso le scissioni, e la sua antica propensione per l’unità delle forze riformiste, senza la quale – ha sempre sostenuto – non si possono fare riforme credibili e durature.
Alcuni dei commenti critici che sono seguiti fanno parte del gioco voluto dalla legge elettorale proporzionale e dagli spezzatini di liste e partitini che ha creato. Altri, come quello del suo caro amico Franco Monaco, sono entrati nel merito della sua scelta condividendo solo alcune cose e rigettandone altre. Altri infine, molto datati, si sono aggrappati a una sinistra ottocentesca da Manifesto del Partito Comunista, senza fare i conti con il realismo dimostrato invece da Romano Prodi. Ma, oltre al tentativo di salvare l’eredità ulivista, forse tra i motivi di fondo della sua scelta si nascondeva dell’altro.
Il “pungolo” di Giuseppe Dossetti
Sin dal’inizio mi è venuto in mente che la scissione si è rivolta all’arroganza di Renzi, fastidiosa quanto si voglia, ma poca cosa rispetto alla linea unitaria di un partito. Dalla quale si può prendere le distanze, ma la sintesi bisogna per forza trovarla all’interno senza sbattere la porta. Mi sono allora anch’io convinto che LeU ha commesso un grave errore. Forse fatale per una nuova e moderna (o post moderna) sinistra italiana. E mi sono pian piano persuaso che gli scissionisti hanno fatto quello che hanno fatto per motivi diversi dalle riforme economiche e dal Jobs Act, dimostrando di avere scarsa fiducia nel gioco della dialettica interna e delle mediazioni possibili. Sono, questi ultimi, elementi fondanti della cultura cattolico democratica e del cattolicesimo popolare e sociale, sin da quando i “cattolici non erano moderati“, seppure mai antiliberali e, men che meno, cattocomunisti. Quella laica cultura, per intenderci, di Dossetti e La Pira, di Gorrieri e Moro. Esempi di realismo e di lungimiranza politica, che pur fortemente critici della Dc non sono mai stati presi dalla tentazione di abbandonarla. Scegliendo di rimanere al suo interno e di agire da pungolo: come ebbe a dire proprio Dossetti a Venezia, nel corso del 3° Congresso Nazionale della Dc nel 1949. Era infatti il partito politico, unito e forte, il pezzo centrale della loro visione della democrazia. Dossetti in quel Congresso chiese alla sua Dc di darsi da fare di più per la classe operaia, perché credeva che, attraverso politiche sociali più mirate, questa avrebbe potuto entrare a far parte dell’elettorato Dc. Fu in quella stessa occasione che, oltre a sostenere l’unità della Dc, Dossetti anticipò il tema delle riforme costituzionali, di stampo liberale, come ha precisato Pierluigi Castagnetti in un suo articolo. Invocando, infatti, migliori equilibri tra potere esecutivo e legislativo, e affrontando il problema del bicameralismo, mise in nell’agenda del cattolicesimo politico e democratico il tema della riforma costituzionale, che, pur dopo alcuni precipitosi errori fatti nel corso dell’ultimo referendum, rimane tutt’oggi all’ordine del giorno.
Questo pensiero aperto sul futuro di una democrazia matura, sul ruolo del partito politico e sulla difesa dei diritti umani più che su quelli individuali liberisti, si ritrovò in larga parte nella sinistra democristiana del secondo dopoguerra , ed ebbe piena espressione in alcuni settori del sindacalismo cattolico, delle Acli, nella Fuci, nel Meic, e nella Lega Democratica. Oggi, con non poche difficoltà, è ancora testimoniato dal coordinamento c3dem e da questo sito, che raccoglie quanto rimane dell’associazionismo italiano di matrice cattolico democratica.
La Lega Democratica e le tentazioni scissioniste
In parecchi, forse, ricorderanno che questa associazione di cattolici nasce per il NO al Referendum sul divorzio. C’erano alle spalle il Concilio, la Costituzione, il valore della laicità e dell’autonomia tra fede e politica. Il primato della coscienza. E c’era un consapevole confronto con i “segni dei tempi” della questione sociale. Fondata da una generazione di intellettuali di rango, come Scoppola, Andreatta, Ardigò, Gaiotti, Giuntella, Pedrazzi, Tognon, Pescia, Lipari, ecc. Nonché dallo stesso Romano Prodi e da suo fratello Paolo. Tutti insieme favorevoli al NO al Referendum, in quegli anni combattuto aspramente da tutta la Dc con Fanfani in testa, nonché dalla parte intransigente del clero e del mondo cattolico.
Ma saranno certamente in pochi a ricordare che anche nella Lega Democratica di quegli anni circolarono silenziose tentazioni scissioniste, messe subito a tacere dai realisti dell’epoca. Erano gli anni in cui Enrico Berlinguer dalle pagine di Rinascita apriva alla Dc per il cosiddetto “compromesso storico” e Aldo Moro annunciava da Bari la sua “terza fase”: un prezioso seme piantato da due autentici democratici, da cui nascerà il futuro Pd. Si dava però implicitamente per scontata l’unità e la composizione delle “forze riformiste di progresso”. Furono proprio gli intellettuali e i politici fondatori della Lega Democratica che decisero coralmente di rimanere all’interno della Dc per difendere “da esterni” le loro idee e la loro visione della democrazia, della società e della politica. Testimoniando in questo modo la metafora dossettiana del “pungolo”. Si formarono i cosiddetti “esterni Dc”, che dopo un convegno romano di risonanza nazionale, per il mondo cattolico soprattutto, decisero di candidarsi alle elezioni politiche sotto il simbolo scudocrociato al solo scopo di “rifondare il partito dall’interno”. Altri tempi.
Il giovane Romano Prodi, allora presidente della casa cditrice “Il Mulino”, da lì a poco ministro dell’Industria e successivamente presidente dell’Iri, fu tra quelli che non incoraggiarono per niente le tentazioni scissioniste interne alla Lega perorando, sin d’allora, la causa dell’unità. Unità ecollegialità che, nel rispetto di quel sano pluralismo delle idee e nella difesa del confronto interno, fanno crescere la democrazia. L’attenzione alle diversità che arricchiscono ha sempre definito il suo impegno sociale e politico. Questo approccio lo ritroveremo infatti nell’Ulivo, di cui assieme ad Arturo Parisi è stato fondatore e artefice, pur senza poter vedere l’affermazione della sua idea di un corretto bipolarismo, oggi del tutto sconfitto.
Sin dalla sua nascita ho frequentato da semplice iscritto la Lega Democratica e ho avuto la fortuna di conoscere molti dei fondatori. Di Prodi conservo ancora un vecchio numero di Appunti di cultura e di politica – in quel tempo la rivista dell’Associazione – con un suo scritto, assieme ad un articolo di Arturo Parisi dal provocatorio titolo: “La DC, partito di destra?“, che chiarisce molto bene il clima critico che si respirava all’interno della Lega Democratica. Insomma, l’unità delle forze riformiste parte per Prodi da lontano e non è una novità. E viene da pensare che la frantumazione di un pensiero politico come quello di sinistra, per adoperare ancora categorie novecentesche, appaghi solo nostalgie classiste, ripicche e personalismi, senza risolvere la nuova questione sociale.
Nino Labate
14 Febbraio 2018 at 15:51
Spesso mi ritrovo nelle riflessioni dell’amicoi Nino Labate. E, anche in questo caso, condivido l’incipit: ho giudicato e giudico un errore la scelta di Liberi e Uguali. Più precisamente la decisione del bersaniano MdP di convergere su SI su una linea angustamente neofrontista che condanna la sinistra a una condizione sterilmente minoritaria, non raccogliendo invece la proposta di Pisapia di un rapporto cooperativo-competitivo e sfidante con il PD. Una posizione giusta, quella dell’ex sindaco di Milano, sulla quale, prima o poi, più prima che poi, si dovrà tornare per ricostruire su basi nuove un centrosinistra largo e plurale, inclusivo e con ambizione di governo. Tuttavia si deve pure interrogarsi sulle responsabilità remote e recenti della rottura, a mio avviso in larga misura attribuibili al PD renziano. Refrattario alla coalizione e incline a una presuntuosa, velleitaria autosufficienza che lo condanna a una sostanziale solitudine votata a quasi certa sconfitta e, di più, artefice di una sciagurata legge elettorale che, non a caso, non contempla vere coalizioni politiche ma solo precari e opportunistici accordi elettorali. Una legge perfetta per il centrodestra e suicida per il centrosinistra, che ha vinto con Prodi due volte, anche se di misura, grazie appunto a coalizioni.
Meno mi convincono i paragoni. Tra PD e Dc, due epoche, due sistemi politici, due partiti diversi. Direi incomparabili. Più brutalmente: la Dc, pur con le sue peculiarità e con i suoi limiti, fu un vero partito. Di sicuro mai un partito personale, neppure dei cavalli di razza (De Gasperi, Fanfani, Moro). Un partito refrattario alle leadership solitarie. Un partito contendibile, anche troppo, nel quale la dinamica delle correnti interne determinava volta a volta diversi equilibri e diverse maggioranze. Ancora: anche all’origine, per esempio, la dialettica tra De Gasperi e Dossetti non va edulcorata. Non si poteva spaccare il partito, presidio di una democrazia ancora giovane e insidiata. Ma non si esorcizzi la circostanza che Dossetti lascia Dc e politica per un preciso e insanabile dissenso politico e non, come taluno racconta, perché germinava in lui la vocazione religiosa (così Baget Bozzo), che fu successiva. Di più: quando lo si accusava di minare l’unità della Dc egli rispondeva con il seguente interrogativo: “unità su che cosa?”. Come a rimarcare che l’unità è valore, ma valore relativo rispetto a una riconoscibile e convincente politica.
Persino la più piccola vicenda della Lega Democratica (quella degli anni settanta-ottanta del novecento), che anche io frequentai, conobbe i suoi dissensi. Quando Scoppola, Ruffilli, Lipari accettarono la candidatura come indipendenti nelle liste Dc proposta loro da Zaccagnini, Ardigò e i giovani che a lui si ispiravano (l’anima cosiddetta sociale e movimentista della Lega) dissentirono da quella decisione, un po’ perché non credevano nella rigenerazione della Dc, un po’ perché, a torto o a ragione, paventavano un vulnus all’autonomia culturale e politica della Lega.
Posso sbagliare su questo o quel punto. Solo, in sintesi, penso due cose: che si debba porre qualche caveat ai paragoni tra stagioni, esperienze, soggetti tanto diversi; che, in politica, non sempre e di necessità, l’unità e un valore e la differenziazione un capriccio.
17 Febbraio 2018 at 15:02
8 febbraio 2018
Riccardo Bonacina, nell’editoriale del settimanale “Vita” del 7 febbraio, scrive che difficilmente la prossima legislatura riuscirà ad eguagliare il record di attenzione ai temi sociali della legislatura che si chiude il prossimo 4 marzo; i governi Renzi e Gentiloni hanno avuto ministri che hanno potuto lavorare per tre anni consecutivi, segnando un punto di svolta nel ritorno a un’attenzione ai temi sociali dopo anni di tagli e umiliazioni. Già Carlo Valentini giorni fa aveva riportato il giudizio di don Vinicio Albanesi, di Capodarco: “Renzi è il premier più sociale”. Il settimanale ha poi individuato 13 specifiche questioni sociali e ha studiato cosa dicono su di esse i programmi elettorali delle principali forze politiche (“4 marzo, i programmi a confronto”). Il settimanale, che nel prossimo numero ospiterà le risposte sui “punti sociali” di Berlusconi, Di Maio e Renzi, informa anche che un sito consente di leggere e “interrogare” tutti i programmi elettorali.
Per dire che Renzi è oltre di tutto quello che si dice.
Saluti
14 Febbraio 2018 at 16:34
Chiedo scusa, ho scordato un dettaglio. Apprendo che, secondo Castagnetti, Dossetti avrebbe anticipato il tema delle riforme costituzionali di stampo liberale (?). Mi è sfuggito. Vorrei capire meglio. So che Pier Luigi si è espresso a favore della recente riforma costituzionale che invece io ho contrastato. Ci sta. Ci sta anche che il Dossetti costituente e politico non era entusiasta della seconda parte della Costituzione e che, più specificamente, avrebbe voluto congegni atti a propiziare stabilità ed efficacia agli esecutivi (per correggere le degenerazioni del parlamentarismo, per dirla con il celebre ordine del giorno Perassi). Anche in coerenza con la sua ambizione alla “reformatio del corpo sociale”, che appunto presuppone una politica che regola e indirizza lo sviluppo civile.
Mi auguro tuttavia non ci si spinga a sostenere che Dossetti avrebbe apprezzato l’ispirazione e l’impianto della riforma renziana. Davvero sarebbe troppo. Di sicuro l’ultimo Dossetti era critico (persino troppo, forse) con l’incipiente democrazia maggioritaria e d’investitura, cui palesemente si ispirava la recente riforma. Sotto questo profilo, pur dal versante opposto, do ragione a Ceccanti che ha sempre interpretato Dossetti e il dossettismo come gene malato o comunque grave limite di certo cattolicesimo politico, esattamente sotto il profilo del suo modello instituzionale e del suo asserito (appunto asserito – ma su questo dissento – dai suoi critici) statalismo.
Discutiamo liberamente, ma teniamo fermi alcuni riferimenti storici. Si può e si deve laicamente discutere e, nel caso, dissentire anche dai maestri, non però intestare a loro le nostre opinioni.
17 Febbraio 2018 at 12:58
Leggo in ritardo .
Caro Monaco…, ti risponde “ Labate” … con tutta la stima e l’affetto che può portare un …“Abate” a un …“Monaco” ! La storia della Dc è altra cosa : è verissimo. Mi starei solo attento a delegittimare la storia interpretandola solo (solo) come studio della società statica. Bloccata cioè nel suo contesto, nei suoi particolari momenti e nei suoi uomini del passato. Insomma chiusa sul “qui e ora” e sulle diversità dei tempi. Non è così . E tu lo sai meglio di me. Perché questo è, forse, compito della sociologia, delle sue regole e del suo metodo, che, come insegnava Ferrarotti , e non solo lui , diventano tuttavia poca cosa senza l’aiuto del dinamismo della storia. Non entro poi nel merito del dissidio tra De Gasperi e Dossetti, che conosco poco. Non mi soffermo neanche sulle vicende della Lega Democratica che, almeno per il gruppo romano di “esterni/interni D.c.“ , la ricordo come una scelta sofferta ma convinta. Evito infine di parlare del “liberalismo” e delle riforme costituzionali di Dossetti, poiché, potrei sembrarti un antidossettiano in quanto ho votato “SI” al referendum . Mi tocca invece prima di chiudere , soffermarmi sull’ultimo rigo del tuo commento che mi ha stuzzicato: “… in politica non sempre e di necessità , l’unità è un valore e la differenziazione un capriccio “. Condivido. Condivido sino a tal punto che mi hai trascinato a Simon Weil e al suo provocatorio “ Manifesto per la soppressione dei partiti politici”. E’ probabile infatti che questa insuperabile studiosa e filosofa , mentre scriveva il suo libriccino, avesse di mira la mancanza di un pur minimo dissenso interno, e registrasse il pensiero unico e omologato che si respirava dentro il Partito comunista francese degli anni ’40 di stampo stalinista. Da cui l’inutilità del partito politico una volta senza divergenza di opinioni e pluralismo di idee interni. Scrive infatti successivamente il suo amico Andrè Breton “ Contro la servilità”: “ …per la grande maggioranza …il movente del pensiero non è più il desiderio incondizionato , indefinito della verità , ma il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito “ . Ecco, credo che solo quando siamo di fronte a questo fenomeno deleterio, sarebbe bene “sopprimere “ il partito politico oppure …traslocare.