Nella consueta rubrica del quindicinale “Rocca”, Resistenza e Pace, Raniero La Valle, nel primo numero di maggio, scrive un duro e sferzante articolo su cruciali temi politici dell’attualità. Indica due processi in corso che considera di particolare gravità. Il primo è il passaggio del Paese da un regime all’altro, dal primato della Repubblica (del potere pubblico) al primato del Mercato (del potere privato), di cui ultimo segnale è, con il rigorismo del governo Monti, la modifica già votata dell’art. 81 della Costituzione che introduce nella Carta il pareggio di Bilancio e accentua l’impotenza della Repubblica nel fare politiche di equità. Il secondo è il testo di riforma del sistema di governo che è all’esame di una Commissione del Senato e che tende a indebolire le Camere e rafforzare l’esecutivo, tradendo la scelta operata dalla Costituzione del ’48.
La crisi che sta squassando il Paese (un suicidio al giorno) ha una delle sue cause nella stessa Costituzione della Repubblica, sicchè ne sarebbe urgente la riforma? No,la Costituzione non ha nessuna colpa, e anzi la crisi consiste precisamente nel fatto che essa non è attuata. Se lo fosse, la Repubblica (cioè il potere pubblico) rimuoverebbe gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3); se lo fosse, la Repubblica renderebbe effettivo per tutti il diritto al lavoro (art. 4); sarebbe tutelato, anche contro le alluvioni, il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9); i giovani che vogliono formarsi una famiglia sarebbero “agevolati” dalla Repubblica con misure economiche e altre provvidenza (art. 31); la salute sarebbe tutelata (art. 32); la scuola pubblica non subirebbe tagli ma incentivi e nessuno potrebbe pensare di abolire il valore legale dei titoli di studio (art. 33); il diritto allo studio e il diritto anche degli indigenti a raggiungere i gradi più alti degli studi sarebbe reso effettivo dalla Repubblica con borse, assegni alle famiglie ed altre provvidenze (art. 34); il lavoro sarebbe tutelato in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), e così via. Tutto questo invece non accade perché l’Italia è passata, senza che nessuno ne desse ragione e nessuno vi consentisse, da un regime a un altro, da una Costituzione ad un’altra, per cui si è deciso e si è accettato che tutte queste cose che dovrebbe farela Repubblicale faccia invece il Mercato, cioè il potere privato e la legge della competizione e del profitto.
Perché questo passaggio di consegne fosse totale e irreversibile le forze politiche, tradendo il mandato costituzionale, hanno fatto a gara per privare la Repubblica sia delle risorse finanziarie (le tasse da evadere) sia degli strumenti operativi (Enti di Stato, partecipazioni industriali, piani di sviluppo) sia della stessa legittimazione a intervenire nella vita economica e a fronteggiare le crisi con le politiche di bilancio. Sicchè, se anche nuove maggioranze e nuovi governi volessero ripristinare il ruolo e le finalità dell’azione pubblica, non potrebbero perché la Repubblica nel frattempo è stata resa del tutto impotente a rimuovere gli ostacoli, a rendere effettivi i diritti, a garantire, tutelare, promuovere, agevolare, proteggere, cioè a compiere quelle azioni che corrispondono a tutti i verbi con cui nella Costituzione sono definiti i suoi compiti. E se tale impotenza è stata per lungo tempo la conseguenza di una cattiva politica, ora con il rigorismo liberista del governo Monti e l’avallo degli altri poteri, diverrà un obbligo, frutto di una modifica strutturale dell’ordinamento e di una nuova definizione della Repubblica. La modifica, in quattro e quattr’otto, dell’art. 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio ne è il primo segnale.
Invece di porre rimedio a tutto ciò, la riforma costituzionale a cui stanno lavorando i tre partiti che mediante i tecnici governano oggi l’Italia tende a rendere insindacabile il potere politico e a mettere il presidente del Consiglio al riparo dalla sfiducia delle Camere, cioè a vanificare il più tipico e decisivo istituto della democrazia parlamentare.
L’accordo su cui si discute all’apposita Commissione del Senato, sulla base di un testo unficato presentato il 18 aprile scorso dal relatore Vizzini, prevede, per ingraziarsi la plebe, un’irrisoria e casuale diminuzione del numero dei parlamentari (da 630 a 508 deputati e da 315 a 254 senatori), ma per il resto comporta tre riforme destinate a cambiare la figura dello Stato.
La prima consiste nel confermare il bicameralismo, con due Camere ambedue elette a suffragio universale e quindi aventi la stessa dignità, ma con una gerarchia di competenze inegualmente distribuite tra loro e una rottura per materie dell’unicità delle fonti della legislazione e quindi dell’unità dell’ordinamento; la seconda consiste in una torsione presidenzialistica e leaderistica del sistema di governo, con un presidente del Consiglio provvisto di investitura popolare, dotato del potere di chiedere la nomina e la revoca dei ministri, e unico destinatario della fiducia del Parlamento, che sarebbe chiamato a votare per lui e non per l’intero ministero; la terza consiste nel rendere impraticabile il meccanismo della sfiducia: che potrebbe essere votata solo dal Parlamento in seduta comune con la maggioranza assoluta sia dei deputati che dei senatori, ciò che sta a significare la solennità, l’eccezionalità e l’implausibilità dell’evento; né le Camere potrebbero votare impunemente contro una legge su cui il governo ponesse la fiducia, senza cadere nella tagliola dello scioglimento che in tal caso il presidente del Consiglio farebbe scattare nei loro confronti; né potrebbe darsi sfiducia al capo del governo se non grazie a un ribaltone perfettamente organizzato dalla sua stessa maggioranza, con la contestuale indicazione di un altro presidente del Consiglio.
Sembra impossibile che i tre partiti possano fare insieme appassionatamente una tale riforma, così divisi e diversi come sono. In ogni caso occorre vegliare e resistere.
RanieroLa Valle