Luigi Giorgi
Ermanno Dossetti. Impegno civile, fede e libertà,
Il Margine, Trento 2015, pp. 188, euro 15
di Giampiero Forcesi
Luigi Giorgi ha dedicato un libro ad Ermanno Dossetti, fratello minore di Giuseppe. Giorgi aveva già scritto su Giuseppe Dossetti. Nel 2003 aveva pubblicato uno studio relativo agli anni 1945-1956, cioè alla “vicenda politica” di Dossetti, arricchito da un’appendice in cui aveva raccolto materiale documentario di notevole interesse. Proprio in occasione di quel lavoro aveva conosciuto Ermanno. Nel primo incontro era stato colpito dalla somiglianza fisica tra i due fratelli. Poi, in successivi incontri legati al suo lavoro di ricerca, aveva scoperto anche il legame profondo che li univa, le loro forti affinità spirituali. Fino a scrivere, oggi, nella premessa a questo profilo di Ermanno, che egli rappresenta “l’altra faccia della montagna Giuseppe Dossetti, il compendio naturale e amorevole di una personalità così alta e importante della storia italiana”. A spingere Giorgi ad approfondire la figura di Ermanno Dossetti, oltre all’interesse suscitato dalla sua personalità, è stata anche la consuetudine che Giorgi, svolgendo il lavoro di consulente parlamentare, ha avuto con Pierluigi Castagnetti . Come i fratelli Dossetti anche Castagnetti è reggiano, e di don Giuseppe era stato collaboratore per qualche tempo in gioventù, e di Ermanno, che a Reggio è vissuto fino alla morte nel 2008, era stato molto a lungo sia collaboratore che buon amico. L’incoraggiamento e l’aiuto di Castagnetti hanno certo facilitato il lavoro di Giorgi e il suo accesso all’archivio della famiglia Dossetti.
Il libro di Giorgi è arricchito da una prefazione di Paolo Pombeni e da una postfazione di don Giuseppe Dossetti jr, uno dei figli di Ermanno. Proprio dal testo di don Dossetti junior vorrei partire, per cogliere un passaggio che mi è parso di grande interesse e che riguarda la relazione tra i due fratelli. Nel ricordare il rapporto profondo che ha sempre legato suo padre al fratello, don Dossetti junior scrive: “Ho assistito, affascinato, ai loro colloqui domestici, alla fine degli anni Quaranta e all’inizio degli anni Cinquanta: ero un bambino e non capivo molto, ma ricordo perfettamente che Giuseppe parlava ed Ermanno ascoltava, per fare poi qualche osservazione che mio zio recepiva con grande attenzione e rispetto. Mi raccontavano che, da giovani, passeggiavano per il viale della circonvallazione della città, e percorrevano quell’anello di quattro chilometri discutendo di tutto, così che davvero tra loro c’era una singolare e piena comunione di pensiero e di sentimenti. Tuttavia – prosegue don Dossetti jr – immagino i loro ruoli diversi: Giuseppe era un grande avvocato, con una logica brillante, fantasmagorica; Ermanno lo costringeva a uscire dalla unilateralità del ragionamento, a cogliere le sfumature di una realtà complessa, i tempi dell’uomo e della storia”. E’ intrigante l’annotazione che don Dossetti junior fa a proposito della “unilateralità” del ragionare dello zio, a cui era spinto – egli dice – dalla sua capacità logica estremamente brillante, e dalla quale era il fratello Ermanno ad aiutarlo a uscire. Una unilateralità, sembra dire don Giuseppe junior, che derivava dal non tenere sempre presenti non già le dinamiche profonde della storia – che Giuseppe Dossetti coglieva lucidamente – ma le “sfumature”, gli incidenti di percorso su cui la storia degli uomini talvolta s’impantana. Mi pare che questo affettuoso rilievo critico del nipote porti un elemento utile per la comprensione della vicenda storica e umana dello zio. Ma. Nel libro di Giorgi, questo è solo un dettaglio.
Il libro di Giorgi ricostruisce i momenti salienti della vita di Ermanno: la formazione all’interno della chiesa reggiana accanto alle figure del biblista monsignor Tondelli e di don Dino Torregiani, prete che fu accanto ai più poveri; la laurea a Bologna in Letteratura latina e il secondo posto nel concorso nazionale per l’insegnamento, nel 1938, che lo vide salire in cattedra al liceo a soli 23 anni; la partecipazione, prima, alla guerra, nel 1941, come ufficiale di complemento in Albania, poi ad attività di assistenza alle popolazioni del reggiano, nel 1943, e infine alla Resistenza, nel 1944-45, durante la quale, non senza drammi interiori, fu alla guida anche di azioni armate; la partecipazione poi al Cln reggiano, e subito dopo l’impegno politico nella Democrazia cristiana, di cui fu segretario provinciale a Reggio fino al 1949; l’insegnamento e la collaborazione con l’UCIIM di Gesualdo Nosengo a metà degli anni Cinquanta, in un momento difficile per la difesa della laicità di quella associazione, e, insieme, l’impegno nella fondazione e direzione del Villaggio Belvedere, un orfanotrofio cui si dedicò fin dal 1951 e che guidò verso un lungimirante rinnovamento pedagogico; poi la chiamata a candidarsi nel Parlamento, per le elezioni del 1963, ai tempi del nascente centro-sinistra, e il lavoro di parlamentare che condusse fino all’inizio del 1968, dedicandosi soprattutto ai temi della pace e dell’obiezione di coscienza, vicino a Gorrieri, ad Ardigò, e a Zaccagnini; la ferma rinuncia a presentarsi alle successive elezioni nel ‘68; e, infine, il ritorno all’insegnamento, al liceo Ariosto di Reggio Emilia e, per qualche tempo, l’assunzione del ruolo di preside (che poi volle però lasciare), quando affrontò con grande apertura la contestazione studentesca e le questioni del rinnovamento della scuola.
Per molti versi il percorso di vita di Ermanno Dossetti ha punti di contatto rilevanti con quello del fratello Giuseppe. Non tanto nelle cose concretamente vissute – che sono state comuni soltanto nel periodo della formazione nella chiesa reggiana e nel breve tratto di vita della Resistenza e della militanza nel Cln di Reggio, e solo in parte nell’impegno politico nella Dc negli anni del primo dopoguerra -, quanto piuttosto nel modo nel quale le hanno vissute, e per il contatto che sempre mantennero uno con l’altro nell’arco dell’intera vita. La cosa che colpisce di più è il rigore spirituale che contraddistinse entrambi e li portò, ciascuno nel suo percorso, a fare una serie di rinunce. Sappiamo, di Giuseppe, la rinuncia alla vita politica nel 1952, per altro preceduta da ripetuti passi indietro, e in seguito l’abbandono della vita accademica, e più tardi anche di quella di riformatore nell’ambito del post-concilio della chiesa di Bologna, fino alla definitiva scelta monastica. In modo non dissimile Ermanno lasciò l’impegno politico nella Dc provinciale nel 1949, poi lasciò l’impegno parlamentare nel 1968, e persino quello di preside, per tornare a fare l’insegnante, nel corso degli anni ’70. Queste rinunce, se furono compiute per andare verso una meta ritenuta più adeguata a sé, furono anche il frutto di conflitti ed ebbero, in certa misura, il significato di una critica alle situazioni da cui entrambi i fratelli si trovarono a prendere le distanze. Ermanno fu critico con le eccessive mediazioni della Dc di Moro e con il mancato approfondimento delle strategie di pace a livello mondiale da parte della Dc, e lo fu anche per come l’organizzazione scolastica non seppe reagire con intelligente apertura alla contestazione studentesca. Giuseppe ritenne prima che la politica non si sarebbe potuta cambiare senza una riforma della chiesa, e poi che per una autentica riforma della chiesa bisognava passare per uno spogliamento radicale.
Ma l’affinità spirituale tra i due fratelli non fu solo nelle rinunce e nei passi indietro. E’ ben visibile anche in alcuni tratti fondamentali del loro approccio alla vita sociale e politica ed anche ecclesiale. Furono in piena sintonia nell’interpretare il ruolo del Cln, che non avrebbe dovuto ostacolare ma bensì favorire la piena affermazione dello Stato democratico. La limpida laicità con cui Ermanno intese il ruolo dell’Uciim, e dunque della stessa Azione cattolica a metà degli anni ’50, in dissenso con il cardinal Siri, è della stessa pasta di quella che contraddistinse tutto l’operato di “Pippo” nell’affiancare il card. Lercaro durante il Concilio e nel breve tratto di strada compiuto nel tentativo di attuare il Concilio nella chiesa bolognese. D’altronde anche il senso di obbedienza che Giuseppe manifestò con Lercaro nel 1956, accettando un improbabile ritorno in politica alle elezioni amministrative di Bologna, trova il suo corrispondente nell’accettazione della candidatura a parlamentare che Ermanno fece nel 1963, pur contro voglia (e subendo le critiche del fratello), per fedeltà all’amicizia con don Giovanni Reverberi, prete di grande sensibilità sociale e grande carisma che era parroco in un piccolo paese della collina reggiana. La radicalità con cui Ermanno intese il vangelo della pace ebbe, negli anni della guerra del Vietnam e della guerra arabo-israeliana dei Sei Giorni, la stessa intensità profetica della voce che il fratello Giuseppe ebbe ad alzare a Bologna affiancando il suo vescovo. Assai simile fu anche una certa idea della politica, della democrazia, e in particolare del partito politico, inteso da Ermanno, fin dai primi anni del dopoguerra come centro di gravità del processo di rafforzamento della democrazia. E, sia nell’Uciim sia nel suo liceo a Reggio sia nell’Opera pia per i ragazzi orfani, a cui si dedicò appieno, c’era in Ermanno un’idea alta e nitida del processo riformatore che era necessario realizzare nel campo dell’educazione: una sensibilità riformatrice che, se non aveva la stessa radicalità del fratello, ne aveva però la medesima chiarezza e la medesima schiettezza.
Al di là di singole scelte e di singoli momenti della loro vita sociale ed ecclesiale, Ermanno e Giuseppe ebbero in comune anche un modo di sentire e persino, talvolta, di dire. Anche Ermanno, come Giuseppe, guardava avanti e vedeva lontano; aveva un’idea dell’iniziativa sociale e politica come qualcosa che ha il compito di aprire al nuovo, di “inventare” strade nuove, di interpretare in senso più ampio e innovatore le norme stabilite, cogliendone lo spirito e valorizzando la dinamica in esse contenuta. In un intervento ad una riunione del gruppo parlamentare della Dc nel luglio del 1967, in uno dei momenti più drammatici della guerra del Vietnam, disse, a proposito dell’alleanza dell’Italia con gli Stati Uniti, che essa andava, sì, ribadita, ma questo non esimeva dall’onere “di fare tutte le altre scelte che a quella scelta, e allo spirito di quella scelta, conseguono, inventando continuamente la propria risposta alle situazioni sempre nuove e diverse che si presentano”. Pochi mesi dopo, intervistato sulle motivazioni della scelta che aveva fatto, insieme a Nicola Pistelli, a favore del riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza, rispose: “Oggi occorre una norma positiva o un complesso di norme che, non dico nel rispetto, ma nella dinamica interpretazione dello spirito della Costituzione (…) corrispondano al più ampio ideale di patria, al nuovo e più completo concetto della sua difesa (…)”. Quando presiedette il Villaggio della Solidarietà, a Reggio, Ermanno portò avanti un profondo rinnovamento pedagogico di quell’Opera pia, ed ebbe a dire, nel 1962: “Forse proprio questo è il compito più arduo che spetta oggi a chiunque si occupi della cosa pubblica (…): aprire con coraggio vie nuove, escogitare con razionalità nuove soluzioni a vecchi problemi, trasformare strutture e metodi”. Della democrazia Ermanno aveva un’idea alta: “Sappiamo benissimo che la democrazia – disse alla Camera nel 1962, replicando a Pietro Ingrao – più che un regime è un abito mentale, un costume, uno spirito, una conquista quotidiana in tutti i campi e a tutti i livelli della comunità nazionale”. Fu proprio nella scuola, a cui tornò dopo l’esperienza parlamentare, a partire dal 1968, che Ermanno Dossetti ebbe a mettere in pratica, in prima persona, questa concezione della democrazia come abito mentale (espressione che era cara al fratello Giuseppe). E’ qui forse che emerge più nitida di sempre, come ha notato Luigi Giorgi, la capacità di Ermanno di “leggere in profondità gli accadimenti storici partendo dal particolare che poteva essere un semplice liceo di provincia”. Si era nel ’68 e Ermanno coglie nel sistema scolastico delle grandissime strozzature (di nuovo usa un termine tipico del fratello) che ostacolano lo sviluppo sociale ed economico del Paese; e inizia a progettare, come preside del liceo Ariosto, un lavoro di democratizzazione sostanziale della scuola. Un giornalista reggiano, parlando del Liceo Ariosto, scriverà nel ’69 che si trattava di un “Liceo classico d’avanguardia” e metterà in evidenza che il dialogo-incontro fra il preside e gli studenti è avvenuto tra due concezioni rivoluzionarie: il globalismo contestativo degli studenti, da una parte, e, dall’altra, la certezza – e qui il giornalista cita parole di Dossetti – che “la vera riforma della scuola, intesa come diritto allo studio, mutamento radicale di metodi, di contenuti, di possibilità di scelte, debba tendere a ‘espropriare’ la classe borghese di un privilegio, a trasferire la propria cultura in un modo nuovo”, cominciando a dar vita a una “comunità scolastica nella quale, sia pure in forme non definitive, le varie componenti trovino il loro ruolo di vicendevole integrazione”.
Nel dicembre del 1970 Ermanno Dossetti fu relatore insieme a Guido Bodrato ad un convegno della sinistra Dc modenese su “Violenza e conflitto di classe”. Di fronte al montare della contestazione sociale disse che, come cristiani e come politici di ispirazione cristiana, la prima cosa da fare era interrogare se stessi, le proprie infedeltà, le proprie complicità e i propri silenzi, “ciò che abbiamo fatto e facciamo e ciò che non abbiamo fatto e non facciamo”. Parlò di fallimento di una classe dirigente: “dico – osservò – fallimento anche mio; fallimento come cristiano non come democristiano, perché il mio fallimento come democristiano è una cosa così lampante e scontata che non costituisce un problema. E alla fine mi turba anche meno”. Sono accenti che ricordano da vicino il fratello Giuseppe, il suo sguardo autocritico come pure il giudizio sovente tranciante nei riguardi del partito della Dc. Poi aggiunse parole che rendono ancora più evidente la sintonia con il fratello più illustre: “L’unico modo di resistenza, secondo le parole del cardinal Lercaro del ’67, è quello di uscire dal sistema di violenza, inserendosi nell’economia della grazia, nell’ordine dello spirito, che solo può dissolvere l’energia demoniaca e arrestare il mistero di iniquità che è all’opera nel profondo della storia umana”. Le parole del cardinal Lercaro del ’67 sono quelle scritte insieme a Giuseppe Dossetti, allora pro-vicario dell’arcivescovo di Bologna, in quello che fu l’ultimo, e straordinario, anno del suo episcopato bolognese e dell’impegno di riforma ecclesiale in senso conciliare condotto con Dossetti. Proprio nel febbraio del 1970 – come ci ricorda Luigi Giorgi – don Giuseppe scriveva a don Divo Barsotti, suo direttore spirituale, accennando al fratello Ermanno e unendosi a lui in una sorta di severo bilancio di vita: “A metà dicembre ci scambiavamo questo pensiero con mio fratello Manno e ci dicevamo entrambi che la nostra stagione è finita. A noi ora sta solo cercare la sapienza della vita e cercare di condurre quei giorni che il Signore ancora ci darà, con più saggezza e con più amore di Dio e dei fratelli”.
Aveva torto, dunque, descrivendo sull’Unità i profili dei nuovi deputati eletti nelle file della Dc nel 1963, Miriam Mafai, valida militante e giornalista comunista, a scrivere che Ermanno Dossetti “del fratello pare abbia solo il nome”. Non era così. Certo, erano diversi. Pierluigi Castagnetti, in un uno scritto dedicato a a lui che Giorgi cita nel libro, ricorda il disagio che Ermanno provava nella sua funzione di parlamentare: “Mentre mio fratello che è tipo estroverso e avido di relazioni ha scelto il silenzio del monastero – diceva Ermanno -, a me, che sono persona fondamentalmente riservata e un po’ introversa, tocca ora la fatica di una continua esposizione pubblica”. Sì, questa differenza c’era, ma nella sensibilità e nel pensiero i due fratelli si assomigliavano molto. E si confrontarono e aiutarono nell’intero corso delle loro esistenze: dal lavoro con i ragazzi più poveri nell’oratorio di don Torreggiani alle vicende della Resistenza sulla montagna del Reggiano; dagli anni del Concilio, in cui nella Casa romana del Porcellino don Giuseppe scriveva i discorsi conciliari per Giacomo Lercaro e per altri vescovi e il fratello Manno li traduceva in latino (e don Giuseppe junior li batteva a macchina) ai viaggi di Ermanno in Terrasanta e in Giordania a trovare il fratello che vi aveva fondato due case della sua famiglia religiosa; fino al febbraio del 1996, quando, ormai ammalato e allo stremo delle forze, don Giuseppe volle passare alcuni giorni con suo fratello vicino a Camogli, dove da ragazzi andavano a passare le ferie estive con i genitori.
Il libro di Giorgi, nel ripercorrere la figura di Ermanno Dossetti, compie, come dice Paolo Pombeni, “un esercizio arricchente”. E’ davvero arricchente, nel libro di Giorgi, cogliere l’intensità e la lucidità con cui Ermanno Dossetti visse il travaglio di un’epoca che, all’indomani della guerra, sembrava aprirsi a tempi nuovi, e che invece si era andata progressivamente ripiegando su se stessa. Ha ragione Pombeni nel sottolineare che Ermanno Dossetti partecipò a quel travaglio, che fu di un’intera generazione, con una consapevolezza che pochi ebbero così acuta. Vi partecipò, come ha osservato il nipote, con la convinzione che nei momenti difficili “bisogna andare non fuori ma in profondità”: le dimissioni e le rinunce, sia di Ermanno come del più illustre fratello, “non furono l’espressione di delusione né una fuga dalle difficoltà – dice don Giuseppe junior -; si trattò invece di essere fedeli al principio che la storia è nelle mani di Dio e che Egli non delega a nessuno il suo governo”.
Giampiero Forcesi