Lo smarrimento che ci accompagna in questi ultimi tempi, politico, culturale, esistenziale e sociale, ci spinge, nelle prime ore di un nuovo anno, a porci alcune domande: che fare? da dove ricominciare per ridare senso alla nostra quotidianità? Come riconnettere una socialità che sembra irrimediabilmente sfibrata? Quali virtù immettere, quali priorità scalettare, con che cosa proviamo a dare speranza, “di che cosa nutriamo i nostri figli”, scrive Ivano Fossati nella sua bella “Quello che manca al mondo”. Domande che rischiano una perdurante assenza di risposte se non ci disponiamo alla fatica della ricerca, dell’ascolto e del confronto paziente. Con conseguente frustrazione figlia dell’ennesima sentenza: non conviene far nulla…
E invece dal ripercorrere il senso letterale del sinonimo di smarrimento, quello “spaesamento” che meglio descrive il perdersi non riconoscendo più la casa propria, può nascere un nuovo percorso, forse utile e proficuo.
Proviamo, allora, tutti, a darci da fare – ognuno con le sue competenze e per le sue possibilità – per ricostruire, riconnettere, riabilitare (Renzo Piano sta usando il termine “rammendare”) non solo le periferie delle nostre città degradate, ma tutte intere le nostre comunità cittadine. Proviamo a impegnarci (sapendo bene che i tempi sono lunghi e richiedono non pochi inevitabili fallimenti) in uno straordinario progetto per ridare senso e corpo a questo obiettivo grande e concreto: la politica a partire dalla mia città, il mio paese piccolo o grande che sia.
Scriveva il grande urbanista e sociologo statunitense Lewis Mumford: la città “è il miglior organo di memoria che l’uomo abbia sinora creato (…) uno strumento materiale di vita (…) che registra l’atteggiamento di una cultura e di un’epoca di fronte agli eventi fondamentali della sua esistenza… La polis rimane forse la maggior opera d’arte dell’uomo”. Una creazione collettiva che, quando smarrisce il suo ordine, tende progressivamente a disgregarsi (V. Trione, Effetto Città, Bompiani, 2014).
Ecco, proprio questo senso di disgregazione crea in molti di noi (al di là, o ancor prima, delle note vicende di malaffare e criminalità), un senso di non-appartenenza, orizzonti dagli incerti confini, dalle paure incombenti sotto casa, dall’oscurità se non proprio estraneità dei vicoli, delle strade, piazze, bar e portoni che sfioriamo ogni giorno. Apolidi con la carta d’identità. Indigeni senza terra. Piante senza radici. Se qualcuno può giustamente dire che anche qui sta il bello, essere nomadi cittadini del mondo, forse è il caso di riflettere che spesso neppure le città, i luoghi, visitati con la bulimia turistica del “mordi e fuggi” ci lasciano qualche segno profondo. Neppure le diapositive di un tempo, ora, tutt’al più, sostituite dalla millesima foto (selfie?) in digitale caricata e poi abbandonata nella memoria. Del supporto, non nostra.
E invece la città, natia o scelta, fa lo stesso, “è il frutto di una concertazione allargata, cui prendono parte i cittadini, i quali , proprio perché appartenenti alla civitas possono pronunciare giudizi sulla sua forma, sulla sua pianificazione e sul suo sviluppo … Strade e piazze diventano arene dove si celebrano i riti di uno scambio: ogni abitante della communitas incide sulla fisionomia dell’ambiente in cui si trova” (V. Trione, Effetto città).
C’è una città che in questi ultimi mesi ha testimoniato con forza quanto questo concetto sia realistico e non il frutto nobile di un urbanista idealista. E’ Matera, che ha vinto (sconfiggendo il pessimismo radicale di tanti intellettuali soprattutto al Sud) la candidatura italiana per capitale Europea della cultura del 2019. Il percorso fatto, e non solo negli ultimi mesi, è stato ben descritto nel Dossier presentato alla commissione mista italiana ed europea che ha giudicato:
“Centinaia di persone, per la maggior parte volontari, hanno costruito un percorso di candidatura esaltante, a cui hanno partecipato tutti i comuni della regione, centinaia di associazioni culturali, sociali, partitiche, religiose, grandi e piccoli operatori privati, ma anche decine e decine di persone non legate né per storia né per sangue al territorio e che tuttavia si sono schierate con Matera perché consapevoli della simbolicità e dell’importanza della sfida stessa. Da qualche anno già decine di europei stanno scegliendo di venire a vivere in Basilicata, di recuperare borghi fantasma, di ricreare spazi sociali in una terra che per quasi cento anni è stata la più povera e la meno alfabetizzata del continente, una terra la cui povertà è stata raccontata con orgoglio e amore da grandi intellettuali qui nati o qui trasferitesi per brevi o lunghi periodi.”
Ecco: mi permetto di suggerire (tra il serio e il faceto), se nel 2015 qualche cittadino dovesse sentire che il suo borgo, il suo paese, il suo quartiere, la sua città, piccola media o grande, avesse a buon ragione il merito di lanciarsi per qualche candidatura a capitale (del gusto, della tolleranza, della bellezza, delle norme rispettate, delle minoranze, dell’artigianato, della musica folk o dell’arte contemporanea, dello sport estremo o della lentezza o di quanto altro ci sia un minimo di credibilità), cominci a coltivarne l’idea, la metta poi a disposizione dei concittadini, e si costruisca insieme il disegno collettivo del progetto. Non per accedere a qualche fondo italiano o europeo. Non per andare sui giornali. Non per accendere appetiti strani di chissacchì. Semplicemente per il piacere di dare (o ridare) un volto alla nostra città, che è la nostra storia quotidiana, e che richiede impegno e spirito di comunità. Sarà un gran bel passo di partenza per un nuovo corso.
Tenendo ben presente, però, che “Le città credono di’essere opera della mente o del caso, ma né l’una, né l’altro bastano a tenere su le loro mura” (Italo Calvino, Le città invisibili).
Vittorio Sammarco
11 Gennaio 2015 at 18:02
E’ il territorio che va curato per salvaguardare tutti i segni della fabrilità umana, che sono diventati documenti di storia delle diverse comunità. Documenti tra i quali hanno rilievo – benché non sempre adeguatamente considerati – i segni d’arte.
Qui bisogna recuperare le responsabilità dell’urbanistica, non solo perché si coniughi con l’architettura per “rammendare” gli edifici (nel rispetto della storia di ciascuno), soprattutto perché – anche studiando la storia dei diversi siti – sappia diventare la strategia operativa della tutela dei “territori storici”.
Sarà possibile un’urbanistica che aiuti le persone a prendere coscienza della propria storia, considerando la peculiarità dei segni d’arte e di storia che manifestano l’intrinseca musealità di ogni territorio?