«Che cos’è l’Unione Europea? Il concetto più vicino che viene in mente è quello di impero liberale, o meglio, neoliberale: un blocco gerarchicamente strutturato e composto di Stati nominalmente sovrani la cui stabilità si mantiene grazie a una distribuzione di potere da un centro verso una periferia»[1]. Questo giudizio del sociologo Wolfgang Streeck sulla natura dell’Unione Europea offre un tentativo di lettura della sua crisi. Il titolo stesso del contributo del sociologo tedesco, “Un impero europeo in procinto di esplodere”, pubblicato su Le Monde diplomatique, permette di cogliere come le coordinate di questa lettura dell’Europa di oggi siano di natura politico-culturale ed economica. L’Unione viene infatti vista come una struttura che governa e dirige le economie nazionali sulla base delle quattro libertà (di circolazione dei beni, delle persone, dei capitali e dei servizi) e della moneta unica, ossia sulla base di uno schema che coincide con quello liberista che sarebbe il vero oggetto della reazione dei “nazionalismi” e dei “sovranismi” i quali incarnerebbero il tentativo di interrompere un processo che ha i tratti dell’omologazione.
Rispetto a questa lettura politico-economica della crisi europea, Jürgen Habermas ha introdotto una prospettiva diversa, spostata sul piano politico ed etico della qualità delle classi dirigenti che dovrebbero governare tanto gli Stati europei che le istituzioni dell’Unione. L’oblio progressivo del principio di solidarietà quale criterio orientativo delle politiche europee in favore di un più immediato approccio pragmatico segnerebbe, secondo il filosofo tedesco, la radice profonda della crisi politica europea. «Il populismo di destra – nota Habermas – può anche provocare un’escalation dei pregiudizi contro i migranti e sfruttare le paure che i ceti medi hanno della modernizzazione, ma i sintomi non sono la malattia. La causa più profonda della regressione politica è la tangibile delusione per il fatto che l’Ue nella sua forma attuale manca della necessaria capacità di azione politica nel contrastare le tendenze di una crescente disuguaglianza sociale all’interno degli Stati membri e tra di loro»[2]. È piuttosto un deficit strutturale di solidarietà a determinare la crisi attuale.
Le prese di posizione di Streeck e Habermas sono esemplificative di una discussione che da alcuni anni alimenta una sorta di discorso pubblico fra le élites politiche e culturali europee e che cerca di cogliere le ragioni profonde di una messa in discussione del progetto politico di unità europea e lo inquadrano dentro uno sfondo globale nel quale è visto in modo problematico il rapporto fra sistema economico ed esigenze sociali e si iniziano a riconoscere i limiti di un determinato equilibrio fra politica democratica e libertà del mercato. Significativamente, dentro questo dibattito sull’Europa e sul suo futuro, alcuni termini come “comunità” e “persona”, che pure fanno parte della storia culturale e politica del progetto europeo, sembrano essere usciti dal linguaggio dell’opinione pubblica.
Provare a rileggere la crisi europea reintroducendo questi termini nella discussione può essere una strada fruttuosa per pensare l’Europa e leggere la portata non solo del suo potenziale fallimento ma anche del suo possibile successo. Questo richiede alcuni passaggi necessari, a partire da un’integrazione dell’analisi della comprensione della crisi e delle sue ragioni con una lettura di carattere “religioso”. Questo perché proprio le nozioni di persona e comunità dentro la cultura europea sono legate, nel loro sviluppo, alla storia religiosa d’Europa, anche a quella recente. E del resto, come vedremo, è soprattutto il termine “persona” ad essere ricorrente nel modo in cui, negli ultimi trent’anni, si è venuto sviluppando il rapporto fra Europa politica e cristianesimo, soprattutto cattolicesimo. Questo esame permette di comprendere un elemento peculiare della discussione di oggi, e cioè il fatto che il più forte richiamo ad una nuova fedeltà all’ideale, per così dire, “spirituale” dell’Europa dei padri fondatori venga oggi dalla Chiesa cattolica. Mettendo assieme le tappe di questo itinerario è forse possibile tentare di offrire una lettura della “questione Europa” dal punto di vista della persona e comprendere una crisi di cui è opportuno riconoscere il valore positivo di tornante storico.
- L’Europa come “problema” religioso
Vi è un tratto peculiare della crisi europea di questi anni che l’opinione pubblica fatica a cogliere in tutta la sua importanza. Si tratta della saldatura fra gli orientamenti politici di matrice nazionalista, che in ciascuno Stato membro dell’Unione identificano le élites dirigenti di Bruxelles come un’oligarchia, con istanze di carattere religioso e nello specifico cristiano. Se si scorrono i documenti programmatici di queste forze politiche o se ne analizza l’impianto ideologico e le politiche messe in atto là dove hanno responsabilità di governo, si riscontra ben più di un riferimento alla “difesa dei valori cristiani” e alla tutela del cristianesimo quale tratto qualificante l’identità nazionale dei popoli europei.
Più in dettaglio, a questo interesse della politica per il cristianesimo e il suo ruolo nella società dei paesi europei, corrisponde anche una risposta di una parte, forse non consistente numericamente ma ben organizzata e attiva, dei cristiani e soprattutto dei cattolici. Dalla Polonia alla Baviera, dall’Austria al Veneto, in quel cuore dell’Europa che anticamente gravitava attorno alla Vienna degli Asburgo e che nel Novecento è il teatro di divisioni e conflitti nazionali – esito della dissoluzione di un impero – e diviene poi la linea del confine nei decenni della Guerra Fredda, appare ancora viva una declinazione del cristianesimo e del cattolicesimo in chiave nazionale, quale fattore di identità culturale di una collettività. Si tratta cioè di un orientamento che tende a fare dell’appartenenza cristiana un dato politico, capace di determinare, in un contesto di crisi e disgregazione di strutture e culture politiche, un centro di gravità di carattere etico. È questo l’esito di un’idea di cristianesimo come sistema rigido di principi, come serie di imperativi, ossia come morale da spendere sul piano regolativo della vita pubblica e quale perimetro che legittima e orienta la scelta politica. Riemerge così, in una parte minoritaria ma dinamica del cattolicesimo, un senso di alterità fra cristianesimo e modernità che ha conosciuto stagioni diverse fra XIX e XX secolo e che, anche dopo il Concilio Vaticano II, ha continuato a vivere dentro il cattolicesimo.
Questa nuova forma di utilizzo del cristianesimo e dell’appartenenza cristiana in schemi politici di “esclusione” e delimitazione identitaria di una comunità si colloca, in qualche modo, fra gli esiti di una preoccupazione per la deriva relativista dell’etica pubblica dei paesi occidentali che è fra i caratteri peculiari del rapporto fra Chiesa ed Europa a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. È nella convinzione di dover marcare la completa distanza fra cristianesimo e realtà secolare, nella volontà di vedere riconosciuto al cristianesimo un primato, non più politico ma etico e culturale dentro il contesto di un’Europa che istituzionalmente procede a sviluppare, dopo il 1989, il suo cammino di integrazione economico-politica. Dietro la pressante richiesta di un esplicito riferimento alle radici “giudaico-cristiane” dell’Europa, che anima la fine degli anni Novanta del Novecento e i primi anni del XXI secolo, si cela questa convinzione: che la società secolarizzata europea, che non può darsi una scala di valori e principi etici attraverso una decisione delle istituzioni democratiche – perché la democrazia implica il pluralismo e perché l’etica non può essere nella disponibilità dello Stato –, necessita di ritrovare i propri fondamenti etici, la propria morale pubblica, in quel cristianesimo che è matrice essenziale della sua cultura.
- Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni?
Se la crisi europea ha dunque anche una lettura religiosa, che individua il cristianesimo europeo odierno quale elemento problematico e specchio di molte tensioni e lacerazioni storiche dell’oggi, lo stesso piano religioso è anche lo spazio nel quale si definisce il lessico di una comprensione più articolata dell’Europa, dei suoi limiti e delle sue possibilità politiche. All’interno di quella realtà strutturalmente e irriducibilmente plurale che è la Chiesa cattolica matura, infatti, anche un’attenzione per l’Europa distinta da quella precedentemente richiamata e legata alla questione del relativismo etico. Nel magistero dei vescovi di Roma sull’Europa, a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, resta costante l’invito a considerare la complessità del processo storico e culturale che genera la coscienza europea.
Già con Giovanni Paolo II, nel cui magistero mantiene un ruolo centrale la questione del riconoscimento politico delle radici cristiane dell’Europa, vengono introdotti due elementi di riflessione che restano stimolanti[3]. Il primo è il principio di laicità riscoperto come riconoscimento della distinzione fra sfera religiosa e sfera politica, come fondamento della libertà della persona e delle comunità, come coscienza del limite della politica e del carattere tutto storico e dunque mai assolutizzabile delle sue forme. Accanto a questo, il pontefice polacco è il primo a leggere l’Europa dentro uno sviluppo storico che le affida un compito cruciale dentro un quadro globale che, col 1989, si avvia a mutamenti profondi. Da qui il richiamo alla necessità che l’Europa sia un fattore di sviluppo globale per quello che riguarda la cura dell’ambiente, lo sviluppo della socialità e la riaffermazione del principio “persona”.
Per Giovanni Paolo II tutto questo resta possibile nella misura in cui l’Europa politica riconosce al cristianesimo il ruolo di matrice culturale dello spirito europeo. Tuttavia, appare chiara l’esistenza di un confronto serrato con la questione delle radici dell’Europa che col tempo arriva a prendere coscienza della loro pluralità. Questo sviluppo della comprensione dell’Europa da parte della Chiesa cattolica si coglie nelle parole di Benedetto XVI, che oltre un ventennio dopo il discorso di Giovanni Paolo II al Parlamento europeo, rivolgendosi al Parlamento federale tedesco, da un lato ricorda il ruolo dell’ispirazione religiosa nella genesi di concetti come i diritti umani, l’uguaglianza fra gli uomini davanti alla legge, l’inviolabilità della dignità umana, dall’altro si sottolinea come l’influenza storica della fede cristiana sia stata esercitata su un quadro culturale che aveva specifici elementi costitutivi e che, dunque, concetti cruciali, quali quello di persona, abbiano fatto parte della cultura europea che il cristianesimo ha assunto, ripensato, rimodellato e restituito in un processo secolare[4].
Con l’inizio del pontificato di Francesco si determina uno sviluppo ulteriore, che si fonda sul un passaggio concettuale che riguarda la nozione di cultura. Quest’ultima viene intesa infatti come distinta dal religioso, o meglio dalla fede cristiana, e restituita alla sua natura “laica”, dove quest’ultimo termine va inteso nel suo senso etimologico di realtà che è propria del popolo, come espressione della forma mentis del popolo. La fine del papato europeo porta con sé la consapevolezza che il cristianesimo non è riducibile a fatto culturale o a morale civile, poiché esso si pone in una tensione costante con tutto ciò che è parte del mondo e della storia. È una visione del cristianesimo che, se da un lato mette in guardia contro la “mondanizzazione” della fede, anche quella che avviene attraverso la cultura e l’etica, dall’altro suppone la cultura e l’etica – ossia le espressioni del “popolo”, della laicità – come l’interlocutore necessario della fede cristiana.
A partire da questo punto di vista il magistero della Chiesa degli ultimi anni fotografa la profondità della crisi europea guardando a quell’elemento “spirituale”, ma di una spiritualità laica, che ha alimentato il progetto europeo nelle scelte dei padri fondatori. Parlando al Parlamento Europeo il 25 novembre 2014, Francesco ricorda: «Al centro di questo ambizioso progetto politico vi era la fiducia nell’uomo, non tanto in quanto cittadino, né in quanto soggetto economico, ma all’uomo in quanto dotato di una dignità trascendente»[5]. E spiegando quest’ultimo concetto egli precisa: «Parlare della dignità trascendente dell’uomo significa dunque fare appello alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato; soprattutto significa guardare all’uomo non come a un assoluto, ma come a un essere relazionale»[6].
Da queste parole la crisi europea, che sul piano politico ha il volto della chiusura dei confini e del ripiegamento sulla centralità dello Stato-nazione, emerge come crisi di identità spirituale. Ad essere uscito dall’orizzonte europeo è quel principio della persona quale soggetto relazionale che, come tale, “trascende” sé stesso perché aperto all’altro. In questo modo si capisce come Francesco si ponga di fronte all’Europa facendo appello ad un nuovo umenesimo europeo che si muova lungo tre direttrici, richiamate in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, il 6 maggio 2016, ossia: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare[7].
- L’Europa conseguenza necessaria del principio “persona”
Il magistero della Chiesa richiama dunque come la nozione di persona sia ben più che un retaggio “religioso” della cultura europea: essa lo indica come concetto cardine che fa parte della dimensione laica, popolare, dell’identità europea, attorno a cui si costruisce la cultura dei diritti e delle libertà che è la maggiore acquisizione storica della modernità. In questo si vede la pietra angolare sulla quale è nata ed è stata impostata l’originaria proposta di unità politica europea.
Si tratta del riconoscimento di un dato storico che traspare, ad esempio, dalla lettura dei preamboli programmatici dei trattati che segnano i primi passi della costruzione europea, a partire da quello che istituisce la CECA nel 1951. Esso diviene poi esplicito se ci si confronta con le esplicite posizioni dei “padri fondatori”. Alcide De Gasperi, in un discorso del 29 novembre 1953 dedicato significativamente al rapporto fra movimento operaio ed Europa, sottolineava: «Rimane vero che l’Europa della moderna civiltà si inizia sul momento in cui si diffonde e prevale il principio che l’uomo è persona, che egli diventa persona a mezzo del lavoro, ma soprattutto in quanto il suo fine sovrasta quello dello Stato. È così che l’Europa diventa e si sente una comunità degli spiriti che oltrepassa le frontiere politiche e quelle del sangue»[8].
Non solo la persona è un tratto storicamente qualificante la moderna cultura europea con le sue qualità politiche ma ha una funzione dinamica nell’orientare verso una umanizzazione lo sviluppo politico europeo. Il lavoro, come ambito nel quale la persona acquista dignità, viene agganciato proprio al concetto di persona quale relazionalità dove i diritti trovano compiutezza. In questo senso, nella prospettiva di De Gasperi, la persona è il fondamento necessario dell’Europa politica, più ancora ne è una sorta di “idea regolativa”. È sempre lo statista trentino a spiegare: «Ecco che l’Europa diventa per l’operaio una vitale necessità di sviluppo. Non è possibile attuare la cosiddetta giustizia sociale, cioè una più equa distribuzione dei beni, in ciascuno degli spazi vitali segnati dalle presenti frontiere. Certamente nemmeno l’Europa basterà a sé stessa con l’andare degli anni, ma per il prossimo periodo l’Europa unificata costituirà una potenza di lavoro e di produzione che potrà entrare in gara col continente più progredito».
Se si cerca di andare alla radice della sensibilità politica degasperiana – ma la stessa valutazione è valida per tutti di “padri fondatori” – l’Europa rappresenta una conseguenza della centralità della persona nella cultura e nella “spiritualità laica” europea. La costruzione di un’unità politica diviene una necessità per Stati-nazione che, nel fuoco delle guerre e dei totalitarismi, hanno forgiato sulla persona una nozione nuova di democrazia, la quale non si limita più a descrivere le forme e i limiti delle procedure istituzionali ma è divenuta metodo di governo delle relazioni politiche, sociali, culturali ed economiche. Le democrazie dei diritti che nascono nell’Europa dopo il 1945 hanno bisogno di una cornice politica europea per rendere più compiuti ed effettivi quei diritti individuali e sociali che vengono prima dello Stato, ne fondano e regolano l’azione, ma che non possono essere compiuti negli spazi “geografici” e politici di confini statali. La persona portatrice di diritti è dunque, ad un tempo, la causa e il fine del processo politico europeo.
- Una “riforma” dell’Europa
È opportuno chiedersi se questo ritorno ai padri fondatori dell’Europa e al principio “persona” che plasma le loro sensibilità sia una via percorribile e fruttuosa in questo momento storico. Il quadro europeo e globale che oggi abbiamo di fronte è profondamente diverso da quello immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale: altre forze e altri soggetti operano oggi sull’economia, sul sociale e sul politico.
Può essere utile, per evitare questo equivoco, traslare sul piano “laico” dell’Unione Europea un termine propriamente ecclesiologico e teologico che ha un contenuto dinamico e metodologico. È il termine riforma, che non significa propriamente cambiamento o ripristino di strutture passate, ma indica invece un processo nel quale ad una realtà in cui si è inserito un disordine che produce disgregazione si restituisce la forma originaria. Ad essere in gioco è un ritorno agli ideali costitutivi, nel caso dell’Europa a quelli che la fondano come comunità politica e culturale, per restituire a quei concetti la loro funzione dinamica di idee regolative e su quella base dare forma nuova alle strutture sociali, istituzionali ed economiche. Quello che in tal modo si crea è un nuovo o rinnovato “linguaggio europeo”, da intendersi come quella lingua mentale che è propria della cultura europea, del modo di pensare e comprendere degli europei.
In questo senso, è possibile assumere l’idea di “persona” come metro dello sviluppo del processo storico-politico che è l’Europa e così facendo disinnescare pericolosi cortocircuiti che si sono venuti a creare nel dibattito pubblico sull’Unione e sul suo futuro, a cominciare dall’alternativa fra sovranità nazionale e politiche europee. Il principio “persona”, col suo corollario comunitario, riporta lo Stato-nazione alla sua dimensione di comunità funzionale alla persona e che della persona non esaurisce la dimensione relazionale né quello spessore di diritti e doveri che, per avere compiutezza, richiede orizzonti politici più ampi dei confini statali. Un’Europa della persona e dunque dei diritti e dei doveri non nega la Nazione, al contrario, la rende una comunità più compiuta nel suo essere portatrice di cultura, di lingua, di sensibilità. È questa un’idea di Europa che certo supera la Nazione ma non la dissolve: la valorizza come una dimensione irrinunciabile di realizzazione della persona.
In questa opzione per il primato della persona trova un senso nuovo e più ampio quel principio di sussidiarietà che, almeno stando alla lettera dei trattati europei, dovrebbe regolare la distribuzione di competenze fra le istituzioni dell’Unione, gli Stati e i livelli istituzionali e amministrativi regionali, territoriali e locali. Alla luce della nozione di persona si può dire che si apre la possibilità di passare dal principio istituzionale e giuridico della sussidiarietà a quello politico della fraternità. Quest’ultima significa certamente il riconoscimento del fatto che la propria comunità locale è parte di una comunità più universale. Tuttavia, alla luce della nozione di persona, e più precisamente del carattere laico, storico, popolare della nozione di persona, il termine “fraternità” supera una qualifica solo morale e diviene chiave di volta di un ethos. Quest’ultimo, secondo la definizione di Paul Ricoeur, consiste ne: «l’auspicio di una vita compiuta – con e per gli altri – all’interno di istituzioni giuste».
La costruzione di questa “indole” europea attorno al concetto di persona suggerisce la necessità di riconoscere come decisivo per il futuro, prima ancora del piano istituzionale e di quello dei rapporti di forza fra interessi contrapposti, quello prepolitico e spirituale dell’aspirazione di ciascuno ad una vita compiuta, dispiegata nelle relazioni e promossa da strutture che, nei diversi ambiti, sono finalizzate a servire l’uomo. È forse questa fraternità il grande contributo storico che l’Europa è chiamata a dare in questo XXI secolo.
Riccardo Saccenti
(Massa, 19 maggio 2019)
[1] W. Streeck, Un empire européen en voi d’éclatement, in Le Monde diplomatique, n. 782, Maggio 2019
[2] J. Habermas, Crisi italiana, ultima chance per l’Ue, su La Repubblica, 6 Luglio 2018.
[3] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso durante la visita al Parlamento Europeo, Strasburgo, 11 Ottobre 1998, disponibile in rete sul sito: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1988/october/documents/hf_jp-ii_spe_19881011_european-parliament.html.
[4] Benedetto XVI, Discorso al Parlamento federale tedesco, Reichstag di Berlino, 22 Settembre 2011, disponibile in rete sul sito: https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2011/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20110922_reichstag-berlin.html.
[5] Francesco, Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 Novembre 2014, disponibile in rete sul sito: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/november/documents/papa-francesco_20141125_strasburgo-parlamento-europeo.html.
[6] Ivi.
[7] Cfr. Francesco, Conferimento del Premio Carlo Magno. Discorso del Santo Padre Francesco, Città del Vaticano, 6 Maggio 2016, disponibile in rete sul sito: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/may/documents/papa-francesco_20160506_premio-carlo-magno.html.
[8] A. De Gasperi, Discorso all’inaugurazione dell’anno accademico 1953-1954 dell’Università Internazionale di Studi Sociali, il pontificio Ateneo «Angelicum», Roma, 29 Novembre 1953, in Id., Scritti e discorsi politici, 4 voll., Il Mulino, Bologna 2006-2009, vol. IV.3, pp. 2786-2792.