L’inaugurazione dell’Expo è stata presentata come una ripartenza dell’Italia e un successo nella lotta contro il declino del paese. Certamente sarà una bella occasione di incontro e speriamo serva all’Italia per rilanciare un poco la stagnante attività economica e soprattutto per valorizzare di fronte al mondo (ai milioni di persone che dovrebbero arrivare) quanto di più positivo ha nel suo modello di vita e nel suo tessuto sociale e civile. Quello che davvero tutto il mondo ci invidia. In particolare, parlando di cibo e bellezza (naturale e artistica), veniamo al centro di un nodo strutturale decisivo dell’identità del paese e della sua possibilità di trasformare queste doti in ricchezza, non solo per pochi ma per una società intera.
Come era facile aspettarsi, in contrapposizione ai cantori retorici dell’occasione unica e irripetibile ci sono stati e ci sono i contestatori radicali dell’idea stessa della grande kermesse, che si sono spinti fino alla follia (o alla provocazione consapevole) dei soliti pochi violenti estremisti. Certamente il mondo No-Expo è in parte legato a pregiudizi chiusi e a romantici passatismi, poco produttivi. Credo però che non si possa accontentarsi di una mera e ovvia contrapposizione di punti di vista, etichettando sbrigativamente come «gufi» coloro che non la pensano come chi guida l’evento o come chi governa il paese.
Occorre invece prendere sul serio un dibattito che sostanzialmente mi pare interessi almeno tre questioni, connesse tra loro. La prima è l’annosa questione della nostra capacità di gestire situazioni complesse. La vicenda infinita di corruzione e di malversazione, di ridimensionamenti degli iniziali faraonici progetti e di ritardi affannosamente colmati, che ha attraversato la preparazione dell’opera, è sembrata quasi confermare che in Italia non si riesca a gestire un grande evento senza il peso di inefficienze, distorsioni e vere e proprie tasse occulte. Ora vedremo se il sistema locale e nazionale reggerà l’impatto dell’evento in sé, riducendo al minimo gli inconvenienti segnalati o temuti (affollamento, code, incertezze segnaletica…). Ma è chiaro che a questo proposito il punto ancora più delicato è che si è avviata la macchina senza avere un’idea prospettiva dell’utilizzazione futura dell’area e delle costruzioni che resteranno, dopo che una parte dei padiglioni nazionali saranno smontati o ricollocati. Senza contare che comunque alcuni terreni agricoli sono stati ormai cementificati. Una progettualità funzionale è requisito fondamentale di ogni impresa collettiva: su questo fronte occorre ancora lavorare, ma è il caso di farlo prima che le cose precipitino verso un esito semplicemente affidato alla mancanza di alternative.
La seconda è il rapporto costi-benefici dell’impresa Expo. Gli investimenti compiuti non sono stati banali. E non vale dire che non si sia trattato solo di investimenti pubblici, dato che quelli privati in genere trovano facilmente la loro remunerazione. L’interrogativo torna a vertere sulla capacità del sistema-paese di tradurre tutto il positivo movimento che si è addensato e ora si svilupperà attorno ad Expo non soltanto in occasione di arricchimento per alcuni, ma in una modalità di sviluppo e di benessere sociale il più possibile condiviso. Bene che la Camera di Commercio parli di 30 milioni di euro fatti circolare dal solo primo weekend di Expo, ma quanto di questo è andato solo in ricariche di prezzi della parte più vorace e attrezzata del sistema di accoglienza-ristorazione esistente e quanto invece è servito a creare nuovo lavoro (buono e duraturo) e percorsi di crescita sistemica dei territori o delle realtà imprenditoriali? Anche in questo caso ci sono segnali ambivalenti, con la riduzione delle stime occupazionali roboanti dell’avvio, e i ritardi e incertezze nella selezione di personale per le attività interne.
La terza e forse ancor più importante è la domanda sulla tenuta dell’asse culturale della manifestazione, che attorno al suggestivo tema «Nutrire il pianeta. Energia per la vita», ha raccolto pensieri, simboli, progetti. La «Carta di Milano», che dovrebbe restare il frutto più duraturo di questa condensazione di idee, traccia un profilo molto interessante attorno ai nodi della disponibilità di cibo per tutti, dell’agricoltura sostenibile, della riduzione degli sprechi, del rapporto cibo-ambiente, del controllo del mercato perché il cibo non diventi una variabile di speculazioni finanziarie. Questa riflessione ha raccolto contributi da un mondo vasto ed eterogeneo: all’Expo è presente anche una variegata componente di società civile che su questi temi esprime importanti saperi e esperienze. Il problema è capire se questo asse culturale riuscirà a esprimere un messaggio forte all’interno della manifestazione, che arrivi dritto e chiaro a tutti i suoi visitatori. I primi segnali sono ambivalenti in materia: sembra ci siano padiglioni molto ricchi e evocativi in questo senso, altri meno impegnati e molto più vaghi nel messaggio. Qui ci si scontra non solo con l’inevitabile pluralismo di approcci dei singoli governi o attori interni al sistema espositivo, ma anche con alcune scelte simboliche discutibili. Che senso ha in questa logica che Coca-cola e McDonald’s siano sponsor ufficiali della manifestazione? Queste contraddizioni di messaggio devono essere portate alla luce e discusse, se si vuole che l’iniziativa abbia un senso efficace e duraturo.
Guido Formigoni
11 Maggio 2015 at 11:48
Riservandomi di tornare su Expo e sulle interessanti considerazioni di Formigoni, vorrei intanto segnalare la questione del Sud. Che sia uscito dalla discussione pubblica un certo modo retorico di affrontare il tema, va anche bene. Ma mentre operazioni come Expo (o le olimpiadi a Roma…?) se non altro possono aiutare a ridare energia a un territorio, non sembra esserci per il Sud una progettualità adeguata, che magari non punti su “grandi avvenimenti” (la ferita del mancato G8 della Maddalena è ancora tutta aperta) o mega-opere, ma su altre strade. Faccio un salto logico che sembra distante: giustamente e per fortuna si è rinunciato al ponte sullo Stretto. Tra i motivi che venivano portati a sostegno di questa scelta, c’era la constatazione – corretta e condivisibile – che con quei soldi (e anche meno) si poteva garantire un servizio molto più efficiente e rapido per attraversare lo Stretto e una rete infrastrutturale (a partire dalle ferrovie) degna di questo nome per / in Sicilia. Ora, è qualche anno che non ci vado, ma non credo che tutto ciò sia avvenuto… E allora, se le cose che si potrebbero fare non si fanno, poi è chiaro che si spera nella “grande opera”, nel “grande appuntamento”… Insomma, l’Expo sembra rendere ancora più visibile e crudele il divario tra un Nord che comunque cerca di rimanere agganciato al mondo e all’innovazione e un Sud che sembra in sospeso, nonostante l’impegno ammirevole di tanti nostri concittadini che ogni mattina si tirano su le maniche in una situazione non certo facile; e nonostante non tutto il Sud sia uguale, come sappiamo, perchè ci sono anche aree che hanno saputo puntare su innovazione e cambiamento. E guai se si pensasse che i problemi del Sud non riguardano anche chi vive in altre zone del Paese: non solo per una doverosa solidarietà ma anche perchè se il Sud ripartisse, tutta l’Italia ne avrebbe un enorme vantaggio.
19 Maggio 2015 at 08:55
Condivido i ragionamenti fatti e in particolare l’urgenza che si affronti il tema del dopo: i mesi passano in fretta , gli interessi particolari si consolidano e l’interesse pubblico rischia di essere sopraffatto nell’indifferenza e nell’ignoranza dei più. Non é un tema da poco e sembra strano che ancora nessuno ne parli apertamente