C3dem ha lodevolmente proposto un dibattito sui cambiamenti epocali di varia natura in corso. I destinatari sono le diverse associazioni che si ispirano al cattolicesimo democratico e popolare italiano, alla Costituzione e all’insegnamento sociale della Chiesa. Ma l’iniziativa va oltre lo specifico culturale e religioso di questo portale. Ed è meritoria per almeno due ordini di motivi. Il primo perché si tratta di tirare fuori dai micromondi in cui vive questo associazionismo cattolico, spesso ripiegato su sé stesso, cercando di farlo incontrare e dialogare, almeno in Rete. Il secondo, perché spinge a ragionare sui cambiamenti storici e su quel futuro già iniziato da tempo. E mi viene da pensare che sotto questo aspetto arrivi anche in ritardo.
Il lavoro e la tabella di marcia sono stati riassunti molto bene da Sandro Antoniazzi in un suo ‘Appunto’ impregnato di realismo, che li definisce senza mezzi termini: “Appunto per tracciare lo scenario di una cultura politica nuova”: più chiari di così non si poteva essere. Gli interventi sono già iniziati. Tutti di grande interesse. Giovanni Lattarulo, dell’Associazione “Rosa Bianca”, si interroga sul “contesto globale” dei cambiamenti invocando un “profondo rinnovamento del pensiero”; Paolo Corsini se la prende con il Pd che “non ha ancora posto a tema l’obiettivo e la direzione del proprio cambiamento”; mentre Vittorio Sammarco si sofferma sulla “…riabilitazione dei linguaggi”, consapevole che “è in corso d’opera, forse sottotraccia, una profonda trasformazione di ripensamento” e arriva a preoccuparsi anche del “costante logoramento della democrazia”! È questo suo ultimo punto che mi trova perfettamente d’accordo e che mi ha spinto alle riflessioni un poco provocatorie che seguono.
Culture politiche da ridefinire
Ai tifosi del politically incorrect e del manicheismo “amico/nemico”, hanno fatto scandalo le parole di Prodi su Berlusconi. Prodi, a ben vedere, si è solo limitato ad un accenno sull’età di Berlusconi, con una più che ovvia constatazione su “la vecchiaia che porta saggezza”, ed evitando, con molta nonchalance, tipicamente sua, di ricordare i noti tratti della biografia di Berlusconi, e dando così lavoro ai retro-scenisti.
A Matteo Salvini e alle sue bravate siamo invece stati abituati da tempo. Ora se ne uscito dicendo che la Lega è l’erede dei valori di Berlinguer! Diciamo, comunque, che, se si guarda alle classi sociali che votano Lega, un po’ di ragione ce l’ha: il 50% circa dei suoi elettori è composto da operai e lavoratori autonomi, un dato che conferma la convinzione che fu di D’Alema sulla Lega come “costola del movimento operaio”. Questa paradossale uscita di Salvini mi ha però sollecitato una riflessione e, insieme, ha fatto maturare in me una convinzione.
La riflessione riguarda proprio il tema sollecitato da C3dem. E cioè la ridefinizione dell’identità della politica italiana e dei partiti italiani, in seguito alle profonde trasformazioni epocali in corso: partiti che da solidi sono diventati liquidi e mutevoli nell’offerta.
La convinzione riguarda invece le risposte da dare alla crisi delle identità, risposte che, se rivolte al bene di tutti e non a quello di un partito, non possono essere tanto diverse l’una dall’altra.
Come è noto, il dibattito su Sinistra, Centro e Destra, compresi i luoghi geometrici intermedi, non è nuovo. Ed è già ricco di una interessante bibliografia. Alla luce dei cambiamenti rimango però persuaso che è compito dei filosofi della politica, più che degli scienziati politici, discutere e ragionare sui grandi principi fondanti e i grandi valori della democrazia e del vivere civile. Il fatto nuovo è che, di fronte ad una concentrata e unica sfida globale – il mercato, i profitti, il digitale, la finanza, la crescita a prescindere dalla distribuzione, la Cina, la Russia, ecc. –, questi valori devono continuare a mantenere le caratteristiche che si sono affermate da Pericle in poi, ma, di fatto, non possono comportare grandi differenze nelle soluzioni che indicano e nella strada da percorrere. Diventa, dunque, necessario concentrare e unire le risposte ai mutamenti epocali, con soluzioni il più possibile univoche e unitarie. Saranno proprio questi valori che ci permetteranno di prendere le distanze dalle ultime ideologie, dalle scorciatoie, dalle illusioni, e dai populismi. E sarà una iniezione di realismo politico che potrà accorciare le distanze tra i partiti, avvicinando i loro obiettivi sociali ed etici, i traguardi da raggiungere.
Leggere con occhi nuovi le sfide del nostro tempo
Le sfide del futuro sono sotto i nostri occhi da un po’ di tempo, anche se non ci facciamo molto caso. Ma sono novità assolute nella storia dell’uomo. Proprio per questo basta un po’ di buon senso per capire che le risposte da dare a queste sfide non possono essere a misura di partito. Si pensi al mutamento del clima e agli effetti che produce. All’acqua dei mari che si alza. All’equilibrio ecologico del pianeta e all’energia rinnovabile. Al 5G, all’internet degli oggetti, ai big data, agli algoritmi che dettano i ritmi alla nostra vita sociale. E soprattutto alle povertà in drammatico aumento, con 400 milioni circa di poveri concentrati nell’Africa Subsahariana e pronti a scappare dalla fame e dalle guerre. Si pensi a cosa sarà il lavoro tra una decina di anni con l’Intelligenza artificiale e la robotica che incalzano. Allo smart working che ci accompagnerà oltre la pandemia. E si pensi alla nuova economia globale in pieno sviluppo, affidata alle mani di un capitalismo finanziario e digitale che chiede uno Stato minimo, se non assente. I nodi da sciogliere sono molti. E le sfide si sommano indicando vere e proprie rivoluzioni cognitive nel nostro modo di leggere il mondo, che poi conducono a vere e proprie rivoluzioni sociali, economiche, culturali e quindi politiche.
L’avvertenza sul lavoro da fare è una sola: che questi urgenti ripensamenti devono far capo alla testa e non alla pancia. Devono il più possibile accorciare le distanze tra le vecchie categorie di Sinistra e Destra. Ma evitando nello stesso tempo di cadere nelle trappole – pericolose – del pensiero unico e del partito unico, dove si livella ogni dibattito, e si fa morire il sacrosanto diritto alla libertà di dissentire e associarsi. È stata la mistica Simone Weil ad avvertirci molti anni fa di questo pericolo, quando ha ragionato sulla morte di quel partito politico che evita la dialettica, e che si riduce ad una sola dimensione. Per questo, pur di fronte a problemi epocali che chiedono risposte coraggiose non dissimili, bisogna continuare ad aver fiducia nel pluralismo. Legittimando i corpi intermedi, specie quelli che partono dal basso. Riconfermando senza discussioni il ruolo insostituibile del Parlamento e del confronto. Rispettando i municipi con i loro problemi reali locali. Delegando poteri e sovranità a quella Europa unita indicataci dai padri fondatori. Applicando quel benedetto e frainteso principio di sussidiarietà. Ma evitando di evocare fascismi e voglie autoritarie, quando nelle emergenze si rendono opportune decisioni centralizzate nelle mani del Governo come nel caso del coronavirus. Dunque, un pluralismo vero. Non quello finto venduto come vero. Un pluralismo di sostanza insomma e non quello delle pure apparenze per accontentare i tanti partiti personali oggi a misura di solitari leader. O quello favorito e incentivato soltanto dalle leggi proporzionali che conducono ad un pluralismo politico formale, che, nella prospettiva dei cambiamenti, spesso si riduce a ripetute fotocopie di partiti, programmi, risposte e soluzioni.
Ma c’è dell’altro. C’è l’importanza di avere uno Stato presente che, pandemia o meno, deve continuare a fare la sua irrinunciabile parte reagendo a quel neoliberismo modello laissez faire del meno Stato e più privato. Reagendo a quegli studiosi ed editorialisti innamorati del libero mercato come unica e sola possibilità di sopravvivenza civile, che hanno sempre snobbato Keynes. Un momento storico, il nostro, che deve essere tolto dalle mani dei tanti che confondono il bene comune col bene particolare, il bene di tutti col bene di una sola parte, il bene nazionale col bene di un partito. E tutto questo mentre l’economia si incammina verso lidi sconosciuti e le società necessitano di urgenti analisi e altrettanto urgenti risposte.
Sotto questo aspetto, ritengo che lo smussamento delle differenze storiche tra sinistra, centro e destra, e l’avvicinamento delle risposte politiche e partitiche debba essere compito della ragione più che della passione. Più dell’intelligenza dell’uomo che di quella artificiale o dei media, dei social e dei selfie. Un compito nuovo e arduo nello stesso tempo. Capisco, però, che tale compito ha poco a che fare con la cattura del consenso politico-partitico, e che deve essere capace di misurarsi con un capitalismo che ormai è concentrato nelle mani della sola finanza, lontano dai controlli democratici, e che crea diseguaglianze e povertà di portata mondiale, con un mercato azionario pilotato solo dall’1% di super ricchi che detta le leggi alla democrazia esercitando un potere extrapolitico che i liberisti fanno finta di non vedere.
Non concedere nulla ai populisti del “dagli alla casta!”
Ci sono risposte diverse da dare a questi problemi? Una destra sociale, una volta che indirizzi il suo sguardo verso la società anziché verso le sue idee, riesce veramente a essere diversa da una sinistra sociale?
Esiste, dunque, qualche possibilità per ridurre le differenze ideologiche orientate al consenso? Oppure, per le sfide che ci attendono, dobbiamo continuare a collocarci a destra, al centro e a sinistra proseguendo allegramente su categorie storiche del passato che non dicono più niente? Siamo o non siamo convinti che occorre ritarare le vecchie distinzioni ragionando su quelle nuove che sono sopraggiunte? E poi: esiste la possibilità di conciliare il sacrosanto diritto costituzionale di concorrere alle elezioni politiche, evitando però la proliferazione inutile dei partiti, quando ormai se ne contano 54 registrati, 18 in Parlamento e 9 fuori dal Parlamento (che arrivano a 26 se si tiene conto dei gruppi parlamentari, delle liste per l’Europa e di quelle nazionali locali)?
So di urtare la suscettibilità di quanti, nel nostro ambiente culturale, vogliono che nel Parlamento trovino posto anche i partiti più piccoli, perché tutti siano rappresentati, ma è evidente che questa mia riflessione porta al bipolarismo e al bipartitismo, e devo ammettere che ciò non mi scandalizza per niente. Le varie Terze vie sono state fallimentari. Questo mio auspicio, però, non concede nulla ai populismi che sbeffeggiano le c.d. caste e la classe politica, che io ritengo invece indispensabili ieri come oggi. Non concede nulla, cioè, a quelli del “né di destra né di sinistra!”. Perché rimane sul tappeto e in bella evidenza il tema dell’eguaglianza, tema tanto caro a Norberto Bobbio, che ci deve fare luce nel percorso delle soluzioni insieme ai diritti dell’uomo e alla giustizia, e possibilmente con l’utopia di Bergoglio sul salario universale.
Il centrismo inutile
Quando era già partito un processo spontaneo di ridefinizione, è stato Marco Revelli a interrogarsi, circa 30 anni fa, sull’“identità smarrita” di Sinistra e Destra. Facendo seguire questa sua riflessione da un lavoro provocatorio e ancora più chiaro sin dal suo titolo: “Finale di partito”. In esso – scontando la scomparsa del vecchio partito di massa, trasformato in comitato elettorale nelle mani di un leader in diretto rapporto con gli elettori (e dando così ragione a Bernard Manin e alla sua “Democrazia del pubblico”), e con gli occhi rivolti a quella “Postdemocrazia” denunciata da Colin Crouch e caratterizzata dall’enorme e incontrollabile potere delle lobby economiche e dei mass media – sono proprio le identità di sinistra, destra e centro ad essere messe sotto osservazione.
Sono anche gli anni in cui Pietro Scoppola ragiona su quella Repubblica dei partiti che ha frenato l’avvento di una democrazia compiuta, soffermandosi sulle ragioni storiche del centrismo e lanciando velati avvertimenti sulle lotte intestine fra le èlite interne ai partiti: premessa alla loro crisi di identità, ai giorni nostri venuta a piena maturazione.
Subito dopo arriva il lavoro di Norberto Bobbio su Sinistra e Destra, indicate come l’alternativa tra i fautori dell’uguaglianza e i sostenitori della diseguaglianza. Una distinzione lungimirante che ha avviato un dibattito ancora in corso, ripreso recentemente anche da Civiltà Cattolica con un articolo di Francesco Occhetta del maggio 2018 (“Destra, Sinistra e le nuove appartenenze della politica”) il quale si interrogava su cosa potesse sostituire queste ormai vecchie categorie politiche. Nei riguardi del Centro, la storia politica italiana è stata attraversata dal centrismo storico della vecchia Dc, spesso definito moderato e cattolico. Un centrismo in quegli anni giustificato da una “politica di centro… necessaria per l’Italia post-fascista, portando al superamento dell’antifascismo e alla convinzione che il partito comunista di Togliatti sarebbe, prima o poi, diventato democratico”: così scriveva la filosofa Lorella Cedroni introducendo un bel libriccino di Reset edito nel 1995, “Centrismo vocazione o condanna?”. Quei ceti medi moderati e quella borghesia sono ormai scomparsi dalla scena sociale e culturale, come ci hanno da tempo avvertiti De Rita, Bonomi e Cacciari.
Il centrismo e il centro politico sono tornati oggi d’attualità grazie alla legge proporzionale, perché si pensa, a torto, che essa da sola possa creare una domanda sociale e definire una identità cultural-politica. E si nota qualche fuga in avanti in coloro che considerano il popolo cattolico e moderato come la base sociale di tale centrismo. Giustificato e forse necessario negli anni del secondo dopoguerra, a causa della nota situazione internazionale, e se vogliamo anche nazionale, che ha caratterizzato le identità partitiche di quel tempo storico, quel centrismo non ha però elaborato una qualche originale filosofia politica. Né ieri né oggi.
E, dunque, se proprio non possiamo fare a meno delle distinzioni geometriche orizzontali, si abbia almeno il coraggio di dire a chiare lettere che sono altre le cose che quelle distinzioni devono indicare.
Nino Labate
17 Luglio 2020 at 11:33
Accolgo l’invito a commentare, dopo aver letto attentamente la tua riflessione. Sarà un parere modesto, pacato ma sferzante.
Come già scritto nel mio ultimo contributo pubblicato su “il domani d’Italia” (“La politica italiana è bloccata. Arrugginita e grippata in categorie rigide di destra e sinistra. Ed in modo sporadico il centro. Centro evocato e dibattuto specialmente da quel mondo cattolico, che insiste a sottolineare la propria identità ma, che non riesce più a dare un contributo degno della sua storia.”) ritengo che più che stare a sottolineare quale è la propria identità ed evocare ancora i “principi non negoziabili, dovremmo prendere coscienza della tragica situazione in cui versa il nostro Paese, sia dal punto di vista economico sociale, sia dal punto di vista culturale e politico. Ricordiamo, per fare un esempio, che abbiamo Di Maio ministro degli affari esteri (sic!). Abbiamo sotto gli occhi un esempio lampante delle nostre incongruenze di popolo e di istituzioni. Palermo devastata da un nubifragio. La gente che si chiede come prima cosa “chi pagherà i danni”, ma tutti i giorni deturpiamo il nostro territorio con comportamenti irresponsabili e incivili, “chi si rimbocca le maniche?”. Dono bastati 3 mesi di uso di mascherine e guanti per trovarne a tonnellate sparsi in ogni dove. Ma, dove sono tutti i cattolici che si danno da fare dietro questa “identità di centro” se poi il Paese e ridotto così?
Francamente sono un po’ stanco e sconsolato a sentire continuamente citare la dottrina sociale della Chiesa. Qui c’è bisogno di tradurre dal basso e dall’alto, da destra e da sinistra, fino ad incontrarsi. Ognuno con le proprie identità ma con in testa il bene del Paese, questo benedetto bene comune con cui ci riempiamo la bocca e i convegni. Non c’è bisogno di ennesimi partiti dello zero virgola, ma di teste pensanti che, dove sono sono, sappiano governare. Persone che anche se cattolici sappiano che quando si è al governo del Paese si giura sulla Costituzione. Facciano, i cattolici, “il sacrificio”, abbiano la responsabilità, invece di complicare inutilmente il quadro politico, di “sciogliersi” come il sale, come il lievito nella pasta della politica e diano così sapore e rinnovamento. Se sarà possibile, anche guida responsabile del Paese. Un esempio recente lo abbiamo, ma lo abbiamo ancora, avuto, ma tutti abbiamo contribuito a provare a distruggerlo. Ho pietà di un tal modo di servire il Paese.
Spero di non averti deluso, anche a te buone vacanze.
P.L. Moriconi
27 Luglio 2020 at 17:28
Forse i cattolici si sono sciolti troppo. Il risultato e che non hanno contribuito ad aumentare il sapore delle proposte politiche. Anzi il contrario. Risultano sempre più ininfluenti e incapaci di essere lievito. Ormai questa insapore ricetta è cancellata dai fatti e continuare così vuol dire contribuire al nulla.
27 Luglio 2020 at 14:12
Rispetto il tema, l’analisi dei problemi e molte delle osservazioni dello scritto di Nino Labate. Nonché gli stimoli e il moderno realismo che lo sostiene.
Fa parte di questo sito C3Dem, capisco. Ma il fatto di aver incardinato le osservazioni quasi esclusivamente all’ambito delle associazioni che si rifanno al “cattolicesimo democratico” è nobile, ma un poco riduttivo. Il problema, come poi si evince dal testo, è totale, globale, trasversale, epocale.
Non è compito di questo Portale, ma le osservazioni di Labate mi sembra dovrebbero quindi essere estese e interessare tutte le forme associative ispirate alla Politica sociale, civile, del volontariato, della solidarietà, del sindacalismo, ecc. In una parola, ostica al testo, di “Sinistra”.
Il testo cita poi l’articolo base di Sandro Antoniazzi (“…scenario di una politica nuova”) e poi Giovanni Lattarulo, Paolo Corsini (“il pd non ha ancora posto a tema l’obbiettivo e la direzione del proprio cambiamento….”) e Vittorio Sammarco che arriva a preoccuparsi del “….logoramento della democrazia”.
La nota, traendo spunto dalle recenti osservazioni di Prodi sulla disponibilità di Berlusconi ad affiancare alcune opzioni del governo Conte bis – in particolare sui temi europei –, conclude “che c’è confusione nella politica italiana” e non solo: i partiti sono cambiati, da “solidi” a “liquidi” e “diventati mutevoli nell’offerta”. Mi chiedo: ma questo che vuol dire, che non ci sono più riferimenti solidi? Dato che dei valori si devono occupare solo “i filosofi” della politica e non gli “scienziati” della politica?
Poiché i problemi del mondo sono enormi e tendono ad unificarsi – ma ci vorranno cent’anni prima che tutti i popoli siano almeno in parte sullo stesso piano – si devono trovare soluzioni “il più possibile univoche e unitarie. Saranno questi valori che ci permetteranno di prendere le distanze dalle ultime ideologie, dalle scorciatoie, dalle illusioni e dai populismi”. Ovvero, se ho capito bene, dalle Destre vecchie e nuove. E qui non riesco a capire come, secondo Labate, per realismo, si dovrebbero accorciare le distanze tra i partiti e le diverse sensibilità .
Cita poi Bobbio – Destra e Sinistra – e Francesco Occhetta, che si interroga sul come sostituire queste “vecchie” categorie. Norberto Bobbio però non “supera” le differenze, ne intravede obbiettivi diversi: la contrapposizione tra i fautori dell’uguaglianza (i diritti dell’uomo) e della diseguaglianza. Un aggiornamento dei concetti tradizionali.
Labate si occupa poi anche del “Centro”. Questo si – secondo me – schiacciato tra la montante e dilagante prosopopea reazionaria della Destra sovranista, e la visione libera, libertaria, civile e “ugualitaria” della Sinistra.