Venerdì 21 dicembre è tornato alla casa del Padre don Mauro Fotia, straordinario uomo di cultura, sociologo, politologo e animatore di comunità di intellettuali e professionisti calabresi “della diaspora”. Ne ha tracciato qui un breve profilo l‘Avvenire di Calabria’.
Pubblichiamo un ricordo personale di Giandiego Carastro, cresciuto nell’Azione cattolica di Reggio Calabria e dirigente nazionale del Msac dal 1995 al 2002, che si è arricchito delle qualità umane e intellettuali di don Mauro e che tali qualità ha potuto apprezzare anche fuori dalla sua terra.
Al ricordo di Giandiego Carastro uniamo un articolo che don Mauro ha dedicato a un altro straordinario prete reggino, don Domenico Farias, in cui emergono sollecitazioni, spunti, critiche, progetti per la sua amata e difficile terra di Calabria.
Il prof. Mauro Fotia ha dedicato i suoi studi di sociologia politica alla ricerca dei fondamentali propri di un sistema democratico capace di mettere al centro la dignità delle persone, soprattutto le più povere e meno abili, educandoli ad “alzare la voce” in difesa dei propri interessi. Questa tensione etica (sicuramente acquisita anche negli anni del suo servizio di assistente provinciale delle Acli) ha percorso i suoi studi; e prendeva forma in un guizzo particolare dello sguardo, quando si aveva l’opportunità di approfondire la attualità della vita politica italiana ed europea.
Scorrendo la sua ampia produzione saggistica, Fotia ha individuato le seguenti caratteristiche che sono eredità e pungolo per il cattolicesimo democratico di oggi: la costruzione di una democrazia dell’alternanza; lo stigma etico-politico per ogni forma di consociativismo (che lui riteneva essere premessa dei fenomeni corruttivi); la regolamentazione delle lobbies portatrici di interessi affinché acquisiscano maggiori trasparenza ed “accountability”.
Rimane basilare per passione il suo studio sulla ricostruzione delle premesse teoriche del pensiero economico e giuridico di Gaetano Mosca, Santi Romano, Vittorio Emanuele Orlando, in un’opera del 2001 positivamente recensita da Paolo Pombeni.
Nella foto si può vedere don Mauro Fotia nel gesto a lui familiare di mulinare le mani, come se dovesse modellare un vaso oppure una statua: il gesto indicava il metodo robusto con cui sviluppava a voce le sua analisi di scienziato della politica e che si può apprezzare per nitido rigore nei suoi scritti.
Insieme ad altri amici, ho potuto toccare con mano l’amore che Mauro Fotia dimostrava per la Chiesa universale e per la Chiesa di Reggio Calabria-Bova di cui era sacerdote. Sul punto, mi permetto di suggerire alla Presidenza della CEI di valorizzare le riflessioni di quei sacerdoti che sono stati anche professori in Scienze Politiche o Giurisprudenza: oltre a Mauro Fotia, vorrei citare il suo carissimo amico don Domenico Farias, sempre del clero reggino.
Vorrei ricordare il cenacolo che Mauro Fotia ha fondato al quartiere Monti di Roma, intitolato Fa.vo.ri.te, e che ha periodicamente coinvolto diversi calabresi della diaspora, giornalisti, professori, funzionari ministeriali, soci di Azione Cattolica o Meic. “Favorite” indica l’invito calabrese e meridionale in genere a ricevere e scambiarsi accoglienza, riconoscimento, dignità. Ma Favorite indica – nell’acrostico che ‘scioglie’ la parola – i valori a cui don Mauro ci ha sempre richiamato: Fatica, Volontà, Ricerca, Tenacia.
SULLE ORME DI DOMENICO FARIAS
di Mauro Fotia
Se il gruppo di calabresi residenti a Roma (di cui parlano Nino Labate ed Enzo Romeo) s’incontrano con una certa periodicità, fraternizzano e danno vita ad una News Letter dal titolo “Fa.vo.ri.te…”, nel ricordo di Domenico Farias, assistente ecclesiastico del Meic di Reggio Calabria e per molti anni anche dell’intera regione calabra, ciò accade perché Don Farias durante i suoi viaggi a Roma e per l’Italia non tralasciava mai d’incontrare nella capitale come nelle più svariate città i giovani calabresi – divenuti ormai maturi nella vita, non di rado con l’assunzione di rilevanti responsabilità – che aveva conosciuto nei decenni della sua attività formativa. D’altro canto, poiché il gruppo medesimo si riconosce nei suoi insegnamenti di vita e di pensiero, a questi ultimi occorre riportarsi per individuarli con chiarezza e fedelmente interpretarli. Consapevoli che nella sua persona si muovono, e a dimensioni alte, il presbitero, l’uomo di vita spirituale forgiatore di tante coscienze, lo studioso di rigore, l’intellettuale impegnato.
Don Farias, in realtà, è, in primo luogo, un prete che verifica in profondità i tre aspetti dell’originale atipicità del sacerdozio cattolico, che sono la testimonianza del mistero, il dono della comunione, il servizio della missione. Nel suo agire presbiterale l’evangelizzazione del Cristo non viene mai dissociata dalla sua persona, anzi a questa viene legata la proclamazione del regno di Dio, nucleo centrale del messaggio evangelico e principio ermeneutico irrinunciabile della riflessione cristologica. Una tale visione della vita sacerdotale, peraltro, e la coerente traduzione di essa in quotidianità generano in Farias una spiritualità i cui elementi salienti sono la contemplatività e il comunitarismo. La contemplatività si traduce in una capacità di partire da Dio per leggere gli accadimenti quotidiani, indagarne le intime motivazioni, individuarne le traiettorie longitudinali, fissarne le direzioni future, prevederne le risultanze ultime. La sua vita interiore si alimenta della meditazione di testi teologici, in particolare biblici e patristici, di preghiera, di ascolto dello Spirito Santo. “A fondamento del rimanere nella Parola, egli scrive, c’è l’incontro con Dio nel segreto, la preghiera nascosta. La preghiera è il primo atto di purificazione della vita interiore, un gesto di sincerità in cui si deve dileguare il contrasto tra l’essere e l’apparire”. Il contemplativo, poiché è alla ricerca della composizione interiore e della pace, cerca il silenzio. Il silenzio in cui c’è tutto. Il silenzio da cui insorge la Parola prima della Parola e dopo la Parola. Egli non deve stupirsi se nel suo cammino verso la pace si incontrerà con modulazioni che increspano la superficie del silenzio e con l’eco che le ricompongono, col rumore e con l’armonia, con la sorpresa e con lo smarrimento, sempre presenti nelle creature umane e nelle cose che le circondano. La vita contemplativa di Farias, poi, si svolge tutta lungo sentieri disseminati di istanze relazionali saldamente ancorate ad un comunitarismo comunionale scaturente dalla sua sensibilità teologica e dal suo afflato di carità. Una comunità cristiana, egli dice, è “una famiglia dall’alto, che ha Dio come padre e la Chiesa come madre”. “Una famiglia autentica, prosegue, non nata dalla carne e dal sangue, ma non per questo meno reale o meno gratificante. “(…) Mettere in comune i carismi, trafficare i talenti non è beneficenza di cose ma dono di sé perché la famiglia viva della vita del Signore, che per primo non ha trattenuto per sé la propria vita come un possesso esclusivo ma ha svuotato se stesso per i fratelli assegnatigli dal Padre”. Una tale visione porta Don Farias, da una parte, ad avvertire e a far avvertire sempre più intensamente la corresponsabilità ecclesiale di tutti i ministeri e carismi di cui sono ricchi il presbiterio e il popolo di Dio, dall’altra, ad essere quotidianamente aperto all’ascolto, all’accoglienza, nell’ordinata collaborazione pastorale all’interno della Chiesa locale e della Chiesa universale.
Ma Farias è altresì un uomo di scienza. Egli rivela fin da giovane una capacità logico-sistemica che gli consente di raccogliere una molteplicità di dati intorno ai problemi che assume in indagine, di assestarli in un apparato coerente e di darne un’interpretazione conseguente. Sì che, oltre a segnalarsi per il suo lavoro di insegnamento presso l’Ateneo messinese, egli dà apprezzati contributi di ricerca in filosofia del diritto, teoria generale del diritto, ermeneutica giuridica. Così pure Farias avverte il problema della presenza di un’intellettualità cattolica nella società italiana in genere e meridionale in specie. Problema divenuto più assillante dopo l’avvenuto deperimento del ruolo dell’intellettuale e della crisi storica della funzione coscienza-cultura, causati dalle modificazioni oggettive importate dalla società di massa, che oltretutto hanno deciso la non restaurabilità del vecchio mondo borghese. Una tale crisi ha, in ogni caso, condotto gli intellettuali, specie meridionali, a muovere la storia e la vita, se e quando vi riescono, con grande fatica. Tutti gli intellettuali del Sud, ma in particolare quelli cattolici, devono liberarsi del loro ruolo tradizionale acriticamente proposto e praticato, secondo logiche conservatrici perpetuate da un crocianesimo sostanzialmente ancora imperante e dal pesante trasformismo da esso espressamente teorizzato e sorretto.
Farias sacerdote, uomo di scienza, intellettuale, opera in Calabria. In una regione economicamente stagnante, socialmente e politicamente regrediente. In un’area nella quale le risorse pubbliche impiegate si disperdono senza lasciare traccia, senza incidere sui suoi limiti strutturali; la vita quotidiana è schiacciata da un pesante connubio tra classi politiche nazionali regionali e locali, classi dirigenti e ‘Ndrangheta (divenuta da almeno un decennio la più potente delle mafie italiane, inquietante oltretutto per le sempre più fitte trame che riesce a tessere con le istituzioni persino giudiziarie, e comunque, costituitasi, come ho avuto modo di argomentare in altra circostanza, in un vero e proprio soggetto politico); l’economia è del tutto o quasi priva di distretti industriali e registra un tasso di disoccupazione tra i più alti delle regioni meridionali ed un’emigrazione giovanile che continua a portare via le energie migliori; la società è afflitta da persistenti campanilismi e crescenti spinte centrifughe, generatrici di forme di deprimente isolamento e d’assenza delle sinergie necessarie per uscire dalla situazione di sostanziale immobilità culturale e torpore civico. In un contesto, poi, dal quale emerge uno spettro friabile ma con tre estremità rocciose: 1) una Regione legata ai vecchi schemi trasformistici e alle logiche di potere ancorate a situazioni, a dir poco, di pesante ambiguità; 2) una dirigenza amministrativa autoreferenziale e ripiegata su se stessa; 3) un sistema universitario poco efficacemente inserito nel territorio e scarsamente rispondente alle domande formative che salgono dal basso.
Che dire infatti di una classe politica regionale della quale non pochi membri dei Consigli che si sono succeduti in questi anni sono inquisiti, molti sono transitati da un partito all’altro, mantenendo immutata la loro povertà quanto a nuove prospettive e slanci progettuali per il futuro? Che fiducia può suscitare un apparato amministrativo che, persa di vista la sostanza dei problemi, si innamora delle sue architetture burocratiche e dei suoi schemi procedurali, adotta atti formali, attiva percorsi istituzionali, emana disposizioni, approva provvedimenti, crea organismi per esaminare e premiare alla fine se stessa, e magari ancora per convertire i coordinamenti in collusioni capaci di mantenere le rendite costituite e di produrne delle nuove? E, infine, che innovazioni può inserire nel tessuto economico e sociale una serie di Atenei (uno pronto a nascere a Villa S. Giovanni è stato scongiurato appena in tempo dal nuovo ministro qualche mese fa) con una pletora di Facoltà e di Corsi di laurea nei quali, accanto a docenti e ricercatori di grande merito scientifico e di alto profilo morale, si scorgono persone che solo le pratiche più becere legate ai criteri della parentela e della clientela potevano portare a quei posti? Così indicando all’Italia intera, incline a fare di tutte le erbe il tradizionale unico fascio, il sistema universitario calabrese come il luogo previsto e realizzato da un’oligarchia di accademici esterni, dalla mentalità colonizzatrice, e di politici locali d’ogni colore politico – nessuno escluso – per sistemare i disoccupati intellettuali dell’area dello Stretto e del resto della penisola?
I calabresi di cui parlo si ispirano ai valori espressi dall’acronimo sopra indicato, convinti come sono che la fatica, la volontà, la ricerca, la tenacia sono istanze della loro antica cultura umanistica elevata dall’afflato cristiano. E tuttavia sul punto s’impongono talune riflessioni. La Calabria, innanzitutto, sino a qualche decennio fa, è apparsa sempre come la terra del diverso: arcaica o tesa ad un avvenire di progresso connotato dalla sua arcaicità, selvaggia ai suoi primordi e selvaggia anche dopo il suo incontro con la modernità; al limite, come ben ha rilevato un suo sensibilissimo figlio come lo storico Augusto Placanica, né peggiore né migliore di altri consorzi umani, ma diversa sempre. In secondo luogo, il processo di omologazione socio-culturale realizzatosi nelle varie aree del nostro Paese purtroppo ha ridotto la calabresità, come dato antropologico-morale, essenzialmente, ad un ossimoro o, se si vuole, ad un ‘astrazione. Le distinzioni regionali, in realtà, si sono consumante nell’indistinto della modernità italiana. Tutto ciò, e giungo alla terza riflessione, per i calabresi residenti non costituisce un grave problema. Per loro essere calabresi significa sostanzialmente vivere in regione e operare per il suo avanzamento.
Per i calabresi emigrati, invece, il problema è di identità e di memoria per sopravvivere, per vincere la sensazione di solitudine, per riscattare la propria condizione di diversi. Per questo essi non di rado coltivano dentro di sé il vagheggiamento di una Calabria ideale, accogliendo con malcelata civetteria i topoi tradizionali della calabresità: lealtà, generosità e persino diffidenza, ritrosia, ombrosità. Rimane in molti di loro il rimpianto di un mondo di relazioni spesso severe, dettate dalla durezza della vita, e tuttavia portatrici del gusto per il poco e per il semplice, dal quale ora si sentono sradicati come da dentro. E’ la nostalgia come stato dell’esistenza che li prende e li spinge spesso a forzare i meccanismi della memoria e a cercare di ricostruire i frammenti lontani, non per generare un imbuto in cui rischiare di perdersi ancora di più, ma per ritrovare la propria individualità. Di tanto in tanto, infatti, come per un bisogno irresistibile, certi frammenti del passato, quelli più tenaci perché legati a sensazioni forti, volteggiano davanti a loro, cercando di ricomporsi in un quadro definito. E’ allora che essi sono presi dal senso del perduto per sempre, quando quei frammenti acquistano colore, odore, suono.
La Calabria in idea, insomma, vive nell’anima dei calabresi che se ne sono andati, dei figli della diaspora, i quali trovano in essa la forza per accettare la lacerazione tra ciò che non possono più essere e ciò che non sono ancora: calabresi di sempre e italiani (o europei o americani) di oggi. L’essere calabresi diviene un mito da non perdere, da dichiarare, da proclamare. Concetto o pseudoconcetto, astrazione o ipostasi, la Calabria in idea ha una sua funzione (Placanica). “E’ difficile, scrive Leonida Repaci, spiegare la natura di un simile attaccamento che ho riscontrato in tutti i calabresi che ho avvicinato girando il mondo. Esso non è tutto traducibile in parole. C’è nel suo profumo come uno spazio arcano in cui la realtà si prolunga come nell’eco (…). Io, personalmente, sono uno sradicato, ho vissuto tanto tempo lontano dalla culla, eppure non c’è giorno della vita che io non pensi alla mia infanzia (…). E, al centro di tutto questo, la famiglia giovane, la mamma giovane, i fratelli e le sorelle ancora uniti nella casa costruita con le sue mani dal babbo, non ancora partiti a cercare ognuno la sua strada, non ancora divisi dalla vita e dalla morte (…)”. Si comprende dunque perché i valori sopra richiamati, in quanto esprimono la Calabria in idea del gruppo di calabresi raccolti intorno a “Favorite …”, si riaffermino in tutta la loro validità. E diano all’attenzione rivolta alla Calabria, pur sempre guidata da una metodologia critico-analitica, un significato e una portata assolutamente positiva, sorretta, semmai, da un’ansia tormentosa di redenzione e di riscatto.
Il che appare ancora più evidente non appena si precisa che l’attenzione della quale parliamo è guidata da un concetto centrale che definisce i confini delle riflessioni sulla Calabria e ne specifica i profili: il concetto di bellezza. Fornitoci anch’esso da Don Farias nel breve saggio “La bellezza dei giorni” da tutti considerato come il suo canto di addio, il suo inno alla “bellezza aurorale della Pasqua”, della “domenica senza tramonto”. Per il credente qualunque bellezza è trascesa dalla bellezza di Dio, da quella bellezza assolutamente primigenia e fuori degli orizzonti del creato, che, come scrive Farias, è ed appare e non può non essere e non apparire inizio assoluto, anteriore alla creazione stessa, grazia increata. Per cui Agostino nelle sue Confessioni può esclamare: “Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova…”. Ma l’ordine trascendentale della bellezza comprende a) una bellezza immateriale e vivente com’è la bellezza dello spirito e delle idee e conoscenze, nei cui confronti, ad esempio, Paolo VI nei suoi Dialoghi col filosofo Jean Guitton può dire: “La bellezza è l’uomo intimo: è l’io nella sintesi più larga (…), la più gioiosa”, b) ed una bellezza degli esseri sensibili (realtà geofisiche, ambienti, oggetti, colori, suoni, sapori, odori, eccetera.). Per cui è da tale ordine che originariamente scaturisce tutta la fenomenologia estetica ed artistica con i suoi simbolismi più affascinanti. Ed è per esso che la bellezza dell’opera d’arte (musicale, poetica, narrativa, pittorica, architettonica, scultorea) non di rado trascende il piano estetico della materia, del segno che la evoca, schiudendo orizzonti di illimitata universalità.
Certo, portare avanti un discorso sulla Calabria sotto il profilo della bellezza ha il sapore della sfida. E il gruppo “Favorite …” ne è consapevole. Per questo alla base del suo lavoro, nella certezza oltretutto che esso sarà modestissimo, pone, come chiariscono Nino Labate e Enzo Romeo, l’umiltà: sentimento vivificato e sorretto da quell’ amore forte ed insieme tenerissimo verso la propria terra, che è tipico, come ho già spiegato, dei figli dell’esodo. Afferma, inoltre, l’esigenza inderogabile di collegarsi con altri calabresi della diaspora, residenti nelle più svariate città italiane, e di avere come naturale interfaccia conterranei residenti, osservatori più diretti dei fenomeni. Ciascuno cercherà di attraversare le tante brutture morali e materiali della Calabria odierna, camminando verso le sue bellezze, per dirla con le parole riferite da un eminente critico ai personaggi dei romanzi alvariani, con “quel passo lungo del calabrese che ha ancora molto da camminare”. E, per cominciare dalle bellezze morali, si dirigerà verso la contemplazione della bellezza dei suoi santi: da Nilo di Rossano a Francesco di Paola, a Gaetano Catanoso, dei suoi grandi sapienti: da Tommaso Campanella a Bernardino Telesio, a Pasquale Galluppi, a Guido Calogero, dei suoi narratori: da Corrado Alvaro a Francesco Perri, a Leonida Repaci, a Saverio Strati, a Mario La Cava, a Fortunato Seminara. Quando poi passerà alle sue bellezze fisiche, esaminerà le sue terre, non solo quelle fertili con i loro ulivi, viti, aranci, limoni,bergamotti, ma anche quelle aride, aspre, solitarie, difficili, ma pur sempre rivestite d’un misterioso fascino; le sue strutture fisiche e i suoi territori, le sue pianure, le sue colline, i suoi monti; e infine, i suoi mari: il magico Tirreno e il mitologico Jonio, dal quale ancora, per chi sa scorgerle, figure di efebi, indecise, immateriali, a volte corrono via veloci verso l’alto delle colline.
Solo in questo quadro è possibile pensare di impostare in Calabria una seria, organica lotta alla criminalità organizzata. Ed è gioioso constatare che un’efficace conferma proviene in tal senso dai ragazzi di Locri e dal loro programma di azione permanente. Solo in questo quadro è possibile smetterla di mettere sotto il tappeto la realtà dei fatti, peraltro nota a tutt’Italia e cominciare a perseguire un sincero tentativo di rinnovare le classi politiche e i gruppi dirigenti calabresi, provando a bandire, almeno in una qualche misura, le loro implosioni, inerzie, incompetenze, disorganizzazioni, incurie, sciatterie, prepotenze, ricatti, scorrettezze, falso orgoglio, permalosità, furbizie, vischiosità, disgiunzioni, personalismi, campanilismi, lottizzazioni, equilibrismi, eccetera. E così impostare una politica economico-sociale di sviluppo che punti 1) alla creazione di un tessuto di piccole e medie imprese diffuse sul territorio; 2) alla realizzazione di una rete portuale ampia e moderna, che prenda avvio dall’implementazione del porto di Gioia Tauro e predisponga al contempo una serie di aree logistiche di respiro mediterraneo, 3) al varo di un piano di valorizzazione turistica, che, rinunciando all’inutile e dannoso Ponte sullo Stretto, punti al potenziamento delle infrastrutture ferroviarie, stradali, aeree, eccetera, valorizzi gli oltre 500 chilometri della costa, dai paesaggi stupendi, che circonda la Regione -una costa tra le più belle d’Italia- con contestuali insediamenti residenziali sulle colline che le fanno da corona.
Per la Calabria, peraltro, è giunto il momento di prendere atto della necessità ormai ineludibile di consorziarsi con le tre Regioni contermini: la Puglia, la Basilicata e la Sicilia. Ed in questo senso di prenderne al più presto l’iniziativa. Queste, infatti, unitamente alla Calabria, sono divenute una delle finestre privilegiate dell’Europa mediterranea direttamente affacciate su quell’area geoeconomica e geopolitica di grande rilevanza per i futuri equilibri mondiali, che si diparte dai Balcani, passa attraverso il Medio Oriente per giungere all’Africa settentrionale. Per cui s’impone per l’Europa, oltretutto coinvolta in una rete di dinamiche interculturali e di conflitti vari, il rilancio di una partnership per la modernizzazione e la crescita basata su una cultura di creatività, responsabilità, rispetto e arricchimento reciproco. E la conseguente promozione nei Paesi più arretrati dell’area di una imprenditorialità dotata di alte tecnologie e comunque resa in grado d’essere competitiva, anche attraverso l’attivazione di iniziative di partenariato nel campo della ricerca e degli studi superiori, quasi anticipazione e preannuncio di una grande Università mediterranea creata con la partecipazione ed il contributo dei numerosi Stati interessati. Riflessioni tutte che evidenziano come sia estremamente vantaggioso per le quattro Regioni decidere, almeno le grandi linee delle loro politiche pubbliche, in maniera coordinata. A tal fine esse dovranno dar vita al più presto ad una macroregione euromediterranea, capace di dotarsi di accordi politici idonei a sancire la sua connessione con gli hinterland europei: balcanici, medio-orientali e africani. La conferenza dei presidenti delle quattro Regioni, naturalmente, promuoverà dentro e fuori i singoli Consigli iniziative legislative, convenzioni, interventi operativi. Diretti tutti a creare fra le Regioni in questione e fra esse e gli hinterland avanti descritti legami organici tra imprese economiche, istituzioni amministrative, organismi culturali, mass media, eccetera.
Certo, allo stato in cui sono giunte le cose in Calabria, le classi politiche e i ceti dirigenti regionali devono capire come raccapezzarsi, come distinguere tra progetti salvabili e non, tra inefficienze rammendabili e patologie mascherate; devono decidere “con chi e come parlarne” (Luca Meldolesi), prima che intere mandrie bovine continuino a calpestarci, uscendo dalle stalle. E’ difficile trovare una strada onesta al cambiamento, lo so; è duro condurre in porto qualcosa di veramente utile, anche su piccola scala. Ma l’esperienza di numerosi operatori regionali e locali mostra che non è impossibile. A certe condizioni che bisogna saper identificare, naturalmente. “Favorite…” riuscirà a dire qualche parola in questa direzione? Solo l’esperienza potrà stabilirlo.
Scarica qui il testo Sulle Orme di don D. Farias. di MF
15 Gennaio 2019 at 09:26
Ho letto l’articolo di Don Mauro che, partendo dall’approfondimento della complessa figura di Don Farias, spazia su considerazioni antropologiche, sociali, politiche e culturali con riferimento alla nostra regione. Mi sono reso conto con evidenza plastica di quanto mi mancherà la presenza multiforme del caro amico ( mi sia consentito chiamarlo così) . Sentimento , sono certo, condiviso da tutti gli amici di fa.vo.ri.te. Ed anche stimolo per continuare nel lavoro di approfondimento e proposta appena iniziato. Pasquale Vilardi