di Elza Ferrario
Dal 3 al 25 ottobre ho collaborato, a Roma, con una rete di cattoliche e cattolici ecumeniche/i latinoamericane/i che ha offerto sostegno teologico a delegate e delegati al Sinodo. Mi chiedete: com’è andato il Sinodo? Come interpretarne la Relazione di Sintesi pubblicata il 28 ottobre?
Credo che la cosa da non fare sia leggere la Sintesi (composta di 20 capitoli, ognuno organizzato in tre sezioni: “convergenze”, “questioni da affrontare” e “proposte”) annotando in rosso la distanza dalle nostre aspettative: l’abbiamo fatto tutte/i, è inevitabile, e più che legittimo – piange il cuore leggere il capitolo 9. Le donne nella vita e nella missione della Chiesa, in cui le donne sono graziosamente oggetto di cura, non riconosciute soggetto attivo della Chiesa alla pari degli uomini; così come è osceno l’attacco al diritto all’aborto nel capitolo 4, dedicato ai poveri: si elencano le varie tipologie di povertà e poi, nel bel mezzo, tra i lavoratori sfruttati e i nuovi poveri, così, gratuitamente, ma evidentemente su richiesta pressante: “I più vulnerabili tra i vulnerabili, a favore dei quali è necessaria una costante azione di advocacy, sono i bimbi nel grembo materno e le loro madri”; accappona la pelle trovare ancora la distinzione svalutante tra “Chiese” (ortodosse) e “comunità ecclesiali” (protestanti), spacciare il problema del primato petrino come risolto in campo ecumenico se è una battuta non fa ridere; si vede che c’è stata una revisione del testo e al termine “sacerdote” è stato correttamente sostituito “presbitero”, ma qualche volta c’è una svista, che fa intravvedere le diverse mani all’opera, l’impasto non ben riuscito, visioni contrastanti che non si armonizzano…
Una volta deposta la penna rossa e smaltita la delusione, non fermiamoci lì.
Ricordiamoci che è la Sintesi della prima sessione dell’Assemblea sinodale, cui ne seguirà una seconda, nell’ottobre del 2024: allora diventa importante non tanto quello che la Sintesi dice, ma quello che non impedisce e non ignora, le porte che non chiude, perché significa che in questo anno ce la possiamo ancora giocare.
Se diamo un occhio ai risultati delle votazioni, vediamo quali sono i temi attorno a cui s’è registrato dissenso – un dissenso moderato, che non ha mai lontanamente intaccato la maggioranza dei 2/3 necessaria per l’approvazione dei singoli paragrafi: su 344 aventi diritto al voto, 69 sinodali nel capitolo 9. Le donne nella vita e nella missione della Chiesa, hanno votato contro la “questione da affrontare” che riguarda l’accesso delle donne al ministero diaconale. Nel capitolo 11. Diaconi e presbiteri in una Chiesa sinodale, si sono registrati 55 no per la “questione da affrontare” sul celibato dei presbiteri, 53 contro la “proposta” di inserire presbiteri che hanno lasciato il ministero in un servizio pastorale che ne valorizzi formazione ed esperienza. Nel capitolo 15. Discernimento ecclesiale e questioni aperte, sono stati 39 i voti contrari alla “convergenza” su “questioni relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale, al fine vita, alle situazioni matrimoniali difficili”, impacchettate insieme alle “problematiche etiche connesse all’intelligenza artificiale”, tutte definite “controverse”: nella “proposta” che ha collezionato 36 no, se ne auspica un “discernimento condiviso”. E al capitolo 18. Organismi di partecipazione, la richiesta di discernere sull’esclusione da organismi di partecipazione della comunità parrocchiale e diocesana di “uomini e donne che vivono vicende affettive e coniugali complesse” ha raccolto solo 35 no.
Proviamo a tradurre: questa prima sessione dell’Assemblea sinodale non ha approvato l’accesso delle donne al diaconato ordinato, ma ne ha solo debolmente contrastato la prospettiva. Una delegata mediorientale ha raccontato che da un sondaggio che ha condotto nel suo Paese, più del 70% delle congregazioni sono favorevoli; due vescovi africani hanno riferito durante i lavori di non vedere problemi a riguardo; in conferenza stampa ha apertamente parlato a favore del diaconato ordinato per le donne il vescovo tedesco Franz Josef Overbeck. Anche per il clero uxorato non c’è stato un via libera, ma nemmeno un’opposizione particolarmente forte alla prospettiva di prevederlo. E così per la categoria, vaghissima, delle “questioni aperte”: l’ipotesi della benedizione di coppie omoaffettive non è nemmeno stata formulata, anzi, neppure sono state nominate le persone LGBTQ, per carità, e però la proposta di approfondire le questioni dottrinali, pastorali ed etiche controverse attraverso “approfondimenti tra esperti di diverse competenze e provenienze”, “in vista della prossima Sessione sinodale”, è stata solo debolmente contrastata. Nell’aula Paolo VI, dove si sono svolti i lavori sinodali, è risuonata la testimonianza di una giovane delegata, che ha raccontato la tragica storia di sua sorella lesbica, suicida perché rifiutata dalla Chiesa. Una delle principali voci africane al Sinodo, il gesuita Agbonkhianmeghe Orobator commentando la Sintesi, sul tema persone LGBTQ ha osservato che “su nessun tema c’è stata una presa di posizione definitiva, la Sintesi garantisce lo spazio per continuare il dialogo fino alla prossima sessione del Sinodo”.
La prospettiva della Sintesi è chiara: nell’Introduzione si legge che “nei prossimi mesi le Conferenze Episcopali, a partire dalle convergenze raggiunte, sono chiamate a concentrarsi sulle questioni e sulle proposte più rilevanti e più urgenti, favorendone l’approfondimento teologico e pastorale e indicando le implicazioni canonistiche”.
La buona notizia è che viene finalmente riconosciuto il ruolo della teologia, deliberatamente tenuta al margine di questa prima sessione, in cui teologhe e teologi, rubricate/i come “esperti”, erano assenti dai tavoli di discussione (i cosiddetti “circoli minori”), dove comparivano su chiamata per offrire consulenze e poi si dileguavano; il loro impiego è stato per lo più nel lavoraccio di lettura della massa dei resoconti provenienti dai “circoli minori” dopo la disamina dei punti dell’Instrumentum Laboris, da cui hanno tratto la Sintesi, sotto la supervisione del relatore generale, Jean-Claude Hollerich, e dei due segretari speciali, Riccardo Battocchio e Giacomo Costa. Uno spazio di riguardo viene ora anche assegnato al diritto canonico, disciplina che ho sempre considerata utile quanto gli aghi di pino nelle calze, e che invece ho rivalutato, dopo che a Roma un canonista ci ha raccontato come, per risolvere le resistenze di alcuni vescovi all’accesso delle donne al diaconato ordinato, basterebbe rifarsi al motu proprio con cui papa Paolo VI nel 1967, sulla scia della costituzione conciliare Lumen Gentium, ristabiliva (per i soli uomini) il diaconato permanente, garantendo alle Conferenze episcopali la libertà di attivarlo o meno. Anche sulla questione del potere consultivo o deliberativo dei vari gradi di Consigli ecclesiali, un codice del Diritto canonico (127.2) già stabilisce che “il superiore” è tenuto a non discostarsi dal voto del collegio, senza una “ragione prevalente”.
Nel primo capitolo della Sintesi (1. La sinodalità: esperienza e comprensione), comunque, tra le proposte si richiede “l’istituzione di un’apposita commissione intercontinentale di teologi e canonisti” per le implicazioni canonistiche della prospettiva della sinodalità, e l’avvio di uno studio preliminare, perché “pare giunto il momento per una revisione del Codice di Diritto Canonico”.
E nel già citato capitolo 9, (maldestramente) dedicato alle donne, tra le proposte si legge: “È urgente garantire che le donne possano partecipare ai processi decisionali e assumere ruoli di responsabilità nella pastorale e nel ministero. Il Santo Padre ha aumentato in modo significativo il numero di donne in posizioni di responsabilità nella Curia Romana. Lo stesso dovrebbe accadere agli altri livelli della vita della Chiesa. Occorre adattare il diritto canonico di conseguenza”. Ancora, nel capitolo 13. Il vescovo di Roma nel collegio dei vescovi, troviamo: “A livello universale, il Codice di Diritto Canonico e il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali offrono disposizioni per un esercizio più collegiale del ministero papale. Queste potrebbero essere ulteriormente sviluppate nella pratica e rafforzate in un futuro aggiornamento di entrambi i testi”. Un diritto canonico che appare quindi molto più flessibile e adattabile a una Chiesa che cambia, in senso sinodale.
E una Chiesa che cambia anche perdendo le pretese di universalismo, di fronte all’evidenza della pluralità: nel capitolo 5. Una Chiesa da «ogni tribù, lingua, popolo e nazione», si legge: “Occorre coltivare la sensibilità per la ricchezza della varietà delle espressioni dell’essere Chiesa. Questo richiede la ricerca di un equilibrio dinamico tra la dimensione della Chiesa nel suo insieme e il suo radicamento locale, tra il rispetto del vincolo dell’unità della Chiesa e il rischio dell’omogeneizzazione che soffoca la varietà. I significati e le priorità variano tra contesti diversi e questo richiede di identificare e promuovere forme di decentramento e istanze intermedie”.
Questa di decentrare sembra una prospettiva promettente, anche se non è ripresa in maniera sistematica, come invece meriterebbe, per capire come la Chiesa cattolica possa continuare a restare una nella sua multiformità. Scrive il teologo tedesco Thomas Söding, al Sinodo in quota “esperti”, riguardo alle difficoltà linguistiche che si sono riscontrate ai tavoli, spia di differenti ermeneutiche: “Come studioso del Nuovo Testamento, quando penso alla questione della lingua, penso alla Pentecoste. Non esistono lingue privilegiate. Tutte le lingue del mondo hanno uguali diritti; in tutte, la Parola di Dio può essere espressa e compresa ugualmente bene in modo umano. La lingua della Chiesa cattolica non è né il babilonese né l’esperanto. La lingua della Chiesa cattolica è la traduzione – e non solo nel senso linguistico del termine”.
Nella Sintesi manca anche una trattazione sistematica del tema degli abusi, nella sua connessione con il clericalismo e con la comprensione ontologica sacralizzata, anziché funzionale, del ministero presbiterale: al capitolo 11. Diaconi e presbiteri in una Chiesa sinodale, si dice che “un ostacolo al ministero e alla missione è costituito dal clericalismo”, ma quando si va a definirlo non si coglie la sua dimensione strutturale: “esso nasce dal fraintendimento della chiamata divina, che conduce a concepirla più come un privilegio che come un servizio, e si manifesta in uno stile di potere mondano che rifiuta di rendere conto”; nessun cenno alla chiamata che dovrebbe venire dalla comunità di cui ci si pone al servizio. Nel capitolo 10. La vita consacrata e le aggregazioni laicali: un segno carismatico, si mette in connessione l’abuso con l’esercizio dell’autorità: “I casi di abuso di vario genere a danno di persone consacrate e membri di aggregazioni laicali, in particolare donne, segnala un problema nell’esercizio dell’autorità e richiede interventi decisi e appropriati”, ma di nuovo si perde l’occasione per una trattazione sistematica del tema autorità, che pure dava il titolo a tutta la parte B3 dell’Instrumentum Laboris: “Partecipazione, compiti di responsabilità e autorità”. Un altro grande assente è il tema del “potere”, nominato poche volte, in relazione agli abusi, o allo spirito mondano; nel capitolo 1. La sinodalità: esperienza e comprensione, a proposito di attese e timori legati al Sinodo, si legge: “Alcuni temono di essere costretti a cambiare; altri temono che non cambierà nulla e che ci sarà troppo poco coraggio per muoversi al ritmo della Tradizione vivente. Alcune perplessità e opposizioni nascondono anche la paura di perdere il potere e i privilegi che ne derivano”. È il riferimento più esplicito alla gestione del potere, che però non trova una trattazione organica. Dare voce a teologhe/i e canoniste/i sarà finalmente il kairos per affrontare in modo sistematico i nodi venuti al pettine delle strutture ecclesiali. Forse.
Com’è andato questo Sinodo, dunque?
Credo sia stato un Sinodo di splendida incoerenza: trattasi della “prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi”, come recita pomposamente il titolo, eppure vi hanno preso parte, con diritto di voto, 70 “nonvescovi”, interessante categoria antropologica di nuovo conio. Non so se si sia messo abbastanza in rilievo il “cambio di paradigma” rispetto ai Sinodi precedenti, evidenziato nella Lettera scritta il 25 ottobre dall’Assemblea sinodale al Popolo di Dio: “La sessione che ci ha riuniti a Roma dal 30 settembre […] per molti versi è stata un’esperienza senza precedenti. Per la prima volta, su invito di Papa Francesco, uomini e donne sono stati invitati, in virtù del loro battesimo, a sedersi allo stesso tavolo per prendere parte non solo alle discussioni ma anche alle votazioni di questa Assemblea del Sinodo dei Vescovi”. Prendiamo una foto dell’ultimo Sinodo dei vescovi, quello sulle/i giovani, nel 2018: una prateria di zucchetti viola su teste variamente imbiancate o pelate, tutti in fila, con la prospettiva che va a schiantarsi al tavolo di presidenza, con il papa al centro; le immagini che vengono da questo Sinodo 2023 invece sono quelle di 35 tavole rotonde, attorno a cui siedono in stragrande maggioranza vescovi, a cui però il Regolamento del Sinodo chiedeva di “indossare la talare filettata solo nelle giornate di apertura e di conclusione dell’Assemblea”: vescovi sfilettati, dunque, misti a (poche/i) religiose/i e laiche/i (tra cui giovani in numero ridottissimo, quasi impercettibile) e 12 “delegati fraterni”: vescovi ortodossi e pastori protestanti (una sola donna, laica); un Sinodo dei tavoli, l’aula Paolo VI che prende vita, sembra un banchetto, un’immagine eucaristica, evangelica. Un’immagine meno poetica, ma altrettanto icastica, è quella usata da FranzJosef Bode, già vicepresidente della Conferenza episcopale tedesca, che, con il Comitato centrale dei cattolici tedeschi, ha compiuto un Cammino sinodale tanto forte quanto obliato da Roma: “non si può far rientrare il dentifricio nel tubetto da cui è uscito”. Indietro non si torna, insomma, ma come si va avanti?
Al capitolo 20. Sinodo dei Vescovi e Assemblea ecclesiale, si legge: “Resta da individuare e approfondire come articolare in futuro sinodalità e collegialità, distinguendo (senza indebite separazioni) l’apporto di tutti i membri del Popolo di Dio all’elaborazione delle decisioni e il compito specifico dei Vescovi. L’articolazione di sinodalità, collegialità, primato non va interpretata in forma statica o lineare, ma secondo una circolarità dinamica, in una corresponsabilità differenziata”. Bello, ma come, concretamente? Il Cammino sinodale tedesco aveva avanzato una proposta in questo senso: rendere permanente un Consiglio sinodale, composto per metà da vescovi e per metà da laiche/i – proposta bocciata da Roma. Il processo decisionale non è una passeggiata, nella Sintesi se ne parla in più punti: al capitolo 1, a proposito della sinodalità si legge: “essa comporta il riunirsi in assemblea ai diversi livelli della vita ecclesiale, l’ascolto reciproco, il dialogo, il discernimento comunitario, la creazione del consenso come espressione del rendersi presente di Cristo vivo nello Spirito e l’assunzione di una decisione in una corresponsabilità differenziata”. Nel capitolo 12. Il Vescovo nella comunione ecclesiale, è scritto: “Il ministero episcopale (l’uno) valorizza la partecipazione di “tutti” i fedeli, grazie all’apporto di “alcuni” più direttamente coinvolti in processi di discernimento e di decisione (organismi di partecipazione e di governo)”. E ancora al capitolo 18. Organismi di partecipazione, la Sintesi dice: “La sinodalità cresce nel coinvolgimento di ogni membro in processi di discernimento e decisione per la missione della Chiesa”. Si parla di “partecipazione ai processi decisionali” a proposito delle popolazioni indigene (capitolo 5), e delle donne (capitolo 9), ma non si tematizza come debba avvenire, non si parla di decision-making e decision-taking. Altra meravigliosa incongruenza di questo Sinodo: giustamente si chiede, ai diaconi e ai presbiteri (capitolo 11), ai vescovi (capitolo 12), agli organismi di partecipazione (capitolo 18), trasparenza e “cultura del rendiconto” – mai vista una traduzione tanto bislacca per accountability! –, ma poi si celebra un Sinodo a porte chiuse, in cui i membri sono tenuti, se non al segreto pontificio, alla massima riservatezza (con il risultato che il cardinale alfiere della parte nostalgica della Chiesa, contraria al Sinodo, s’è precipitato a sfidare il veto rilasciando interviste pubbliche, mentre le conversazioni ai tavoli, complice la volatilità dello Spirito, sono diventate segreti di Pulcinella), come se stessero parlando di questioni loro private e non dell’assetto della Chiesa, che ci riguarda tutte/i: e difatti all’inizio è stato così, il clima era meraviglioso, raccontano, senza tensioni, perché ognuna/o raccontava di sé, a partire dalla propria esperienza, come se non si venisse da due anni di Sinodo a livello diocesano, nazionale, continentale, suscitando grande empatia in persone lontanissime dalla propria sensibilità; peccato che dopo due settimane di questo idillio ci si sia rese/i conto che in questo modo non si riusciva a quagliare e allora, contrordine, dal metodo della conversazione nello Spirito si è passate/i a dare suggerimenti concreti di cambiamento, si sono aperte le discussioni. Finché visioni e modelli di Chiesa differenti si presentano l’un l’altro amichevolmente, non c’è problema, ma cosa succede quando si deve decidere quale sia il modello di Chiesa universale? Ritorna il tema del processo decisionale.
Come si prenderanno le decisioni, nella sessione del Sinodo dell’anno prossimo? Nessuna/o lo sa, quanto meno nessuna/o dice di saperlo – mi ostino a usare il linguaggio inclusivo, carente nella Sintesi, ma in realtà a saperlo possono essere solo uomini, e chierici. I laici, donne soprattutto, hanno già deciso che il prossimo ottobre torneranno a Roma, più numerose e più organizzate di quest’anno, in cui pure sono riuscite (con il Catholic Women Council, gruppi di advocacy per il diaconato e il presbiterato femminili, e poi con Spirit Unbounded, una rete di associazioni cattoliche per la riforma della Chiesa) a organizzare flash mob, manifestazioni, conferenze, convegni per promuovere la giustizia di genere, generazionale, sociale, etnica dentro la Chiesa.
Giusto puntare sul 2024, ma il processo inizia oggi, in quest’anno che ci separa dalla prossima Assemblea sinodale. Il presidente della Conferenza episcopale tedesca, Georg Bätzing, nella conferenza stampa al termine della sessione sinodale s’è detto soddisfatto, e ha affermato: “Spetta ora alle Chiese locali e quindi anche a noi utilizzare questi spazi che il Sinodo ha aperto per continuare a lavorare su una Chiesa sinodale, per proseguire i percorsi sinodali e per tradurne gli impulsi in riflessione e azione concreta. Potranno poi essere incorporati nel Sinodo mondiale del 2024 tra un anno”. Il vescovo di Passau Stefan Oster ha definito il Sinodo un “viaggio spirituale con un finale aperto”: bene, ci sono un miliardo e 300 milioni di personaggi in cerca d’autore.