La Camera sta discutendo di fine vita. Già nel titolo della legge figurano espressioni che, alle mie orecchie, suonano troppo assertive e cui io, d’istinto, assocerei piuttosto un punto interrogativo. “Consenso informato”, “disposizioni anticipate di trattamento”. Consenso? Sicuri noi stessi del nostro sì o del nostro no? Informato? Davvero consapevoli della casistica circa le molteplici, complesse soluzioni terapeutiche che potrebbero rendersi possibili, necessarie oppure sproporzionate e inutili? Disposizioni? Parola forte, di nuovo siamo intimamente certi circa una nostra ferma volontà? Anticipate? Una volontà fissata ora per allora, ignari delle condizioni soggettive e oggettive che si produrranno? Trattamento? Anche gli addetti ai lavori discutono se – è uno dei punti più controversi – idratazione e alimentazione artificiali siano trattamento sanitario (oggetto di scelta) o sostegno vitale da assicurare doverosamente.
Carlo Maria Martini, con umana sensibilità e onestà intellettuale, parlava di una “zona grigia” per definizione, con riguardo ai problemi connessi al fine vita. Problemi situati in quel territorio incerto e scivoloso che separa il no all’accanimento terapeutico (da tutti sottoscritto) al sì al suicidio assistito o all’eutanasia (dai più negato). Una distinzione chiarissima sul piano concettuale, assai meno sul piano empirico. Una zona grigia prodotta soprattutto dagli sviluppi, in sé apprezzabili, della scienza e delle tecnologie sanitarie applicate ai confini della vita. Una zona grigia, ancora, che pone al legislatore serissimi problemi circa il se e il come disciplinare la materia. Anche il se, perché, talora, legiferare può sortire l’effetto contrario a quello pur perseguito in buona fede, costringendo dentro la gabbia del diritto (con i suoi obblighi e le sue prescrizioni) ciò che è affidato alle buone prassi. Alla saggezza e alla responsabilità dei soggetti. In primis, i sanitari. Su questo terreno il diritto ha da essere mite, ma, insieme, deve approntare garanzie e vigilare su di esse. Un equilibrio problematico e difficile.
Al netto di tale oggettiva problematicità, è bene essere chiari e leali sui principi che, più o meno consapevolmente, ispirano le leggi. I nostri ordinamenti democratici, le nostre Costituzioni liberali si fondano sulla libertà inviolabile della persona. Può piacere o meno, ma questo è. Si spiega che tale fondamento possa fare problema o comunque possa essere giudicato inadeguato da chi, in virtù di una propria visione filosofica, etica o religiosa, giudica la vita un valore indisponibile anche a se stessi. Ma questo è il principio cardine, cui gli altri sono subordinati, degli ordinamenti liberal-democratici, la convenzione sulla quale si regge la comunità politica. Che, come tutti i sistemi, ha i suoi pro e i suoi contro. Più pro che contro. Dunque, il principio di autodeterminazione del soggetto e, a valle, il suo diritto alla libertà di scelta della cura da parte del paziente ne sono un corollario. Esso non può essere soggetto a costrizioni, né, naturalmente, per converso, autorizza attivi interventi altrui che accelerino l’esito finale della morte. Di qui il “consenso informato” che fa da architrave all’ intervento legislativo all’esame della Camera. Un concetto, quello del consenso informato, definito con precisione dalla giurisprudenza costituzionale (specie in una sentenza della Consulta del 2008, presidente Flick) e raccomandato da tutte le Convenzioni internazionali (soprattutto quella di Oviedo). Diciamolo più esplicitamente: la vita biologica non è il valore supremo per il nostro ordinamento e, a ben riflettere, neppure per il cristianesimo. Altrimenti come giustificare il martirio? Del resto, non la vita fisica, ma la dignità e la libertà sono lo stigma dell’umano, a differenza delle altre creature, degli altri esseri viventi.
Decisivo il nuovo contesto per illuminare i dilemmi etici e giuridici. Quello della possibilità di prolungare a dismisura e artificiosamente, grazie alla tecnologia, il corso naturale della vita verso la morte. Tutte le azioni dell’uomo sono mirate a umanizzare la vita. L’esperienza della morte non può essere esclusa dall’impegno alla sua umanizzazione e, certo, contrasta con esso la consegna delle persone quasi in ostaggio alla tecnologia. Un tempo la brutta morte era quella improvvisa e consumata in solitudine, cui si opponeva quella in famiglia, dentro la trama di relazioni comunitarie. Oggi è piuttosto quella in ospedale, tra macchine, tubi, farmaci. Chi mai potrebbe eccepire sulla diffusa prassi dei familiari che, ispirati a pietas e limpido affetto, a fronte dell’esito imminente, chiedono che sia loro restituito il proprio congiunto morente?
Ciò detto, per amore di verità, dobbiamo però riconoscere il fondamento e l’utilità di taluni caveat, anch’essi connessi al contesto, diciamo meglio, alla temperie culturale: l’ideologia, il mito della vita sana, giovane, efficiente, utile, cui corrisponde il deprezzamento per la vita segnata dal limite e dalla malattia. Dunque, il legislatore deve anche essere prudente, considerando il principio di precauzione, che prescrive di fissare limiti e garanzie. Altro è concorrere attivamente alla morte di altri, altro lasciare che essa faccia il suo corso naturale quando esso si rivela manifestamente segnato e irreversibile. Così pure merita considerare che, spesso, dietro la domanda del paziente, non sta tanto una chiara volontà di morire, ma l’invocazione di una vicinanza e di una solidarietà. Oppure la umanissima esigenza di non essere condannato a sofferenze insopportabili. Una domanda, intendiamoci, che non può condurre a disattendere la volontà di chi, ultimamente, volesse interrompere le terapie, ma che, questo sì, dovrebbe impegnare uno Stato sociale e umano ad approntare efficaci terapie del dolore e strutture di accompagnamento per i malati terminali. Penso agli hospice, così pochi e mal distribuiti in Italia. E più ancora a sostegni adeguati alle famiglie alle prese con quel dramma e, diciamo la verità, quasi sempre sole, abbandonate a se stesse.
Assistendo al dibattito parlamentare sul consenso informato e sul testamento biologico, sono stato attraversato da un doppio sentimento. Da un lato – perché non riconoscerlo una tantum? – l’apprezzamento per un confronto finalmente alto tra singoli più che tra schieramenti precostituiti; dall’altro però la misura della distanza tra quel confronto e la esperienza quotidiana delle persone, delle famiglie, dello stesso personale sanitario. Cui, abitualmente, nella vita reale, tutta intera è affidata la fatica, la responsabilità, il rischio di assumere decisioni in sostanziale solitudine.
Franco Monaco