In un convegno a Orvieto promosso da Giuseppe Fioroni varie voci chiedono che il Pd torni a parlare a un mondo cattolico che lo ha “in larga misura abbandonato”. Tra questi c’è David Sassoli che auspica chele tante famiglie di cattolici democratici si diano da fare per “rimettere sul tavolo un pensiero cattolico” (Angelo Picariello, “Cattolici in politica da protagonisti”, Avvenire).
10 Luglio 2016 at 09:40
La retorica della revisione costituzionale
E’ “non solo auspicabile ma doveroso” (Card. Gualtiero Bassetti) che “Il PD torni a parlare al mondo cattolico che lo ha in larga misura abbandonato” (Beppe Fioroni), ma è opportuno che nel farlo tenga conto che il mondo cattolico è un po’ più grande di quello rappresentato a Orvieto.
Infatti, il Prof. Filippo Pizzolato, che cattolico è, ha scritto: “E’ difficile esprimere dubbi su questo progetto di revisione costituzionale. Non per la sua ferrea logica. Ciò che osta all’apertura di un dialogo approfondito attorno a questa riforma è la cortina retorica, intessuta di abili tecniche comunicative, che andrebbe pazientemente decostruita.”
E’ tanto vera questa affermazione che se si ragionasse in termini politici, riferiti più alle possibili conseguenze di un voto contro che non agli effetti previsti, non si può che votare “si” alla riforma, mentre ragionando in termini di merito, cioè dei contenuti reali e dei cambiamenti proposti, e soprattutto del “combinato disposto” con la legge elettorale, si deve solo votare “no”.
Rinviando ad altre occasioni la puntuale riflessione sul merito, tre premesse di ordine generale:
1) nel discutere del referendum occorre evitare di scendere sul terreno della retorica perché qui non valgono i ragionamenti di e sul merito, ma solo i pre-giudizi politici e di schieramento.
2) la convinzione che la materia “Costituzione” è tema estremamente delicato che va trattato con molta cura in quanto riguarda e definisce le ragioni e le regole del vivere e convivere nel nostro Paese.
3) la modifica di tali regole, in base all’art. 138 della Costituzione, deve avvenire con il consenso il più largo possibile, con maggioranza superiore dei due terzi del Parlamento, al fine di sottrarre le modifiche alle esigenze della maggioranza politica del momento.
Ciò premesso propongo una considerazione storica, una di merito e una di sistema
La considerazione storica motiva questo mio giudizio, e cioè che i cittadini italiani non sono disponibili a seguire la politica del momento nelle sue avventure costituzionali. Infatti la modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione approvata dalla sola maggioranza del Governo Amato il 12 marzo 2001 è stata sottoposta a referendum il 7 ottobre del 2001 e approvata, credo più come dissenso verso il Governo Berlusconi subentrato a quello di Amato l’11 giugno 2001 che per i suoi contenuti. Sarebbe in ogni caso interessante verificare le ragioni di questo risultato.
Per ragioni politiche, supportate anche da limiti di merito delle modifiche approvate, Il Governo Berlusconi non solo non predispose i provvedimenti attuativi della legge costituzionale, ma elaborò e approvò una propria legge di revisione della Costituzione relativa a tutta la seconda parte, che sottoposta a referendum il 25 e 26 giugno 2006 non è stata approvata.
Oggi per analoghe ragioni politiche e per gli stessi limiti di merito delle modifiche al Titolo V, integrate dallo slogan che afferma la necessità di sapere alla sera delle lezioni chi è il vincitore, la maggioranza che sostiene il Governo Renzi ha approvato una legge di revisione costituzionale oggetto del referendum del prossimo ottobre. Attendibilità a parte i sondaggi di questi giorni (La7TV) indicano una prevalenza di due punti del “no” sul “si”.
Qualora ciò fosse confermato, come mi auguro, dall’esito del referendum sarebbe la clamorosa sconfessione della prassi, inaugurata da Amato e perseguita da Berlusconi e da Renzi, di mettere mano alle regole della Costituzione con la sola maggioranza che sostiene il Governo.
La considerazione di merito vuole evidenziare il legame che esiste tra le modifiche introdotte dalla revisione della Costituzione al processo decisionale e di governo e l’esigibilità dei “principi fondamentali” indicati nei primi 12 articoli della Costituzione e dei “diritti e doveri dei cittadini” indicati negli articoli dal 13 al 54.
La storia e la scienza costituzionale e istituzionale dimostrano che non è assolutamente vero che il modello organizzativo dello Stato e delle sue articolazioni è ininfluente rispetto alle modalità di praticabilità, e dunque esigibilità, dei diritti fondamentali delle persone che in tale Stato si riconoscono.
Come detto rinvio ad altre occasioni l’approfondimento di merito sui singoli aspetti della revisione costituzionale, ma è comunque opportuno affermare che essere contro a queste modifiche della Costituzione non vuol dire non riconoscere la necessità di adeguare i suoi contenuti alle trasformazioni intervenute nella società nel corso dei 70 anni dalla sua approvazione, ma significa porre in rilievo quale limite insuperabile il principio dell’articolo 138, primo comma, della Costituzione: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”. Convenire con quanto diceva Pericle “Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia”, vuol dire avere coscienza che l’esercizio della democrazia è un’arte difficile ma anche l’unica che ci è data per affrontare e affermare il necessario cambiamento.
La considerazione di sistema è relativa al “combinato disposto” delle modifiche costituzionali e della nuova legge elettorale che trasformano il sistema parlamentare in atto in un sistema presidenziale, cioè in quello che molti definiscono “regime padronale” che legittima non solo la teoria ma la prassi dell’uomo solo al comando. E non è importante, come in molti sostengono, che il referendum si svolga su più quesiti che non su uno solo. Questo sarebbe un fatto sicuramente positivo ma è solo una parte, tutto sommato marginale, del problema, essendo l’altra parte, quella determinate, rappresentata dalla legge elettorale.
Se così non fosse che senso avrebbe che i capi lista scelti dai partiti entrano di diritto in Parlamento?, che senso avrebbe un premio di maggioranza che attribuisce al partito che vince al ballottaggio il 54% dei posti in Parlamento? Solo per fare un esempio se il ballottaggio si dovesse svolgere con i dati attuali il M5S con il 30,6% dei voti avrebbe un premio di maggioranza del 24%.
A parte ogni altra considerazione, compresa quella che con l’attuale livello di partecipazione al voto il vincitore del ballottaggio sarebbe comunque minoranza nel Paese, che democrazia è mai questa?
Direbbe Pericle: “Qui ad Atene noi non facciamo così”.
R. Vialba
10 luglio 2016
12 Luglio 2016 at 03:03
E’ ANCORA POSSIBILE ESSERE MODERATI ?
Non so… forse è il fatto che invecchiando, ma troppe volte fatico a cogliere il senso di molte delle questioni politiche attuali. Oppure, più semplicemente, non me le spiegano bene.
Domenica ho letto su L’Unità l’intervista a Fioroni, dove il contenuto è ben riassunto dal titolo: “al Pd servono i moderati” e dove Fioroni candida i cattolici democratici a svolgere il compito di recuperare l’elettorato moderato. Non ho capito il perché di questa equiparazione tra cattolici e moderati. Le persone che fanno riferimento alla confessione cattolica o alla cultura che da essa si emana sono una realtà molto composita e plurale ed è un errore cercare di ridurla a una sola categoria politico-sociologica.
Innanzi a questa intervista e ai dieci punti programmatici riportato a fianco dell’intervista, mi sono chiesto : “ma oggi , dopo la devastazione economica e morale della crisi economica, la disoccupazione giovanile, le difficoltà che ogni giorno incontrano le famiglie nel generare, allevare e sostenere la vita dei figli , con il crescere delle povertà e disuguaglianze e innanzi alle problematiche sociali e umane che i processi migratori stanno sollevando, i cattolici possono ancora rifugiarsi nel moderatismo ? “. Confesso che più mi addentro nelle questioni sollevate dalla crisi che stiamo vivendo più mi allontano da molte delle convinzioni che hanno guidato il mio impegno sociale e politico.
L’uso del termine moderato contrasta con una realtà piena di trasformazioni radicali e profonde e forse nasconde l’adesione inconscia a una sorta di liberismo compassionevole e esprime la volontà a non procurare “fastidio “ai manovratori politici, economici e finanziari e ai cultori del “politicamente corretto”.
Oggi, infatti, debbo costare che dal discorso politico sono scomparse o marginalizzate le sensibilità sociali che caratterizzavano la presenza pubblica del cattolicesimo sociale, che anche quando non erano governo producevano pensiero e iniziativa sociale. Discutiamo molto di leggi elettorali, di riforma della costituzione che sono certamente questioni importanti ma che attengono all’ambito della politica, le questioni sociali del momento non suscitano lo stesso dibattito e sembrano si siano stemperate dentro una logica meramente amministrativa, di aggiustamento e di adeguamento alle esigenze dell’economia.
Nel giustificare la scelta verso l’orizzonte moderato si tende a rifarsi alle figure di De Gasperi e di Moro, i quali erano tutt’altro che dei moderati ma veri riformatori. Non dimentichiamo che De Gasperi fece la riforma agraria, creò l’Eni, lanciò il Piano Vanoni, impedì l’avvento dei clericali alla guida del paese mantenendo l’alleanza e il confronto con i “laici”. Il “centro” di De Gasperi guardava verso sinistra e non verso destra. Lo stesso Moro non può essere certamente considerato un moderato anche a lui s’addice il termine riformatore che è un di più rispetto al termine riformista oggi molto di moda.
Sono sempre più convinto che oggi il compito dei cattolici democratici non sia quello di fare la stampella moderata del centro sinistra, ma di concorrere con idee, proposte e mobilitazioni culturali di ampio raggio a generare “nuova offerta politica” fondata su un pensiero politico capace di scandagliare il futuro che avanza e che sia fortemente caratterizzata da una forte tensione sociale, dalla cura dei più deboli e da un rilancio del “principio emancipatorio” nei confronti delle nuove sudditanze che stanno affermandosi. Il terreno di iniziativa dei cattolici democratici non può che essere quello della libertà da determinarsi attraverso nuovi processi di liberazione delle persone.
Ancora oggi il Cattolicesimo democratico e sociale ha una ragione di essere solo se è in grado di testimoniare una “triplice fedeltà”: adesione alla chiesa e alla dottrina sociale attualmente arricchita del magistero di Papa Francesco, alla democrazia, agli strati più deboli della società.
La laicità dei cattolici democratici e sociali si è sempre manifestata non tanto nella distinzione tra laici e credenti, ma nelle scelte di giustizia sociale a livello nazionale, europeo e mondiale.
Non credo che il compito di quest’area sia quello di diventare la corrente moderata del Pd, ma di contribuire a superare le timidezze, i timori e di avanzare proposte audaci e provocatorie capace di arrestare lo scivolamento dall’economia sociale di mercato verso una società di mercato.
Credo che se ha ancora un senso l’esistenza dei cattolici democratici questa deve darsi un minimo di strutturazione senza divenire corrente di partito, ma come possibilità di contribuire con la presenza e la proposizione, alle scelte di espansione di una cultura di pace, di un rafforzamento dell’ideale dell’unità federale dell’Europa, alla promozione del lavoro come bene primario e non piegato alle sole ragioni di mercato. Il tutto dentro una chiara visione democratica e pluralista, capace di valorizzare la partecipazione dei cittadini e la funzione dei corpi intermedi.
Le sfide che si hanno di fronte sono delicate e difficili se articolano sulle questioni demografiche, sull’avanzamento pervasivo delle nuove tecnologia in tutti i campi compresi quelli che interessano direttamente la vita biologica, la cura e l’informazione. La politica non può limitarsi da emanare le leggi. La legge definisce ciò che è legale, ma non garantisce la verità.
Il potere politico è oggi messo in discussione da una società che sembra aver smarrito gli ideali di umanità, e non saranno le leggi elettorali e la riformulazione dei poteri istituzionali a ripristinare il valore e il senso della politica. C’è un compito importante che sta oltre le riforme e sta nel rimotivare la società civile, che non può essere vista solo come un serbatoio da cui trarre risorse per un impegno nei partiti e nel governo, ma come il campo in cui matura una coscienza politica autentica.
Un’area politica di centro sinistra potrebbe rafforzarsi nella misura in cui sarà manifesterà la sua propensione ad essere sempre più plurale e a mettere in condizione le diversità culturali che la compongono, a contribuire alla definizione di scelte da condividere. Ma per questo non servono sguardi verso la moderazione, ma capacità di innovare partendo dai bisogni reali delle persone, in particolare di quelle che più sono in difficoltà.
SAVINO PEZZOTTA