Giovanni Cominelli, polemizzando giorni fa con Franco Monaco, afferma alcune verità. Ma solo alcune. Quando sostiene che l’Ulivo ha nel suo Dna il bipolarismo, l’alternanza, e la governabilità, non si sbaglia di molto. Le cose si complicano quando suppone che l’Ulivo aveva in mente un sistema elettorale che riduceva la rappresentanza e rafforzava il governo. Il valore delle istituzioni è sempre stato rispettato dalla cultura ulivista. Non c’è dubbio. Ma non è stato mai anteposto alla rappresentanza e al partito politico, che indicano invece la base culturale forte della visione democratica dell’Ulivo.
Non entro nel merito della polemica Onida-Parisi. Ricordo soltanto che Parisi è stato il promotore delle c.d. primarie proprio per avvicinare il partito alla base degli iscritti e votanti, senza valutare che, in assenza di una qualche democrazia interna (art.49 Cost. ), il metodo dava più problemi di quanti si supponeva ne risolvesse. E premetto che voterò SI al referendum costituzionale. In quest’occasione la penso dunque in modo diverso da Franco Monaco. Il che non mi vieta di condividere la sua posizione – secondo me ulivista – quando antepone la rappresentatività plurale alla governabilità singolare. Quella rappresentatività che, a detta di un Cominelli precipitoso, è invece la causa principale dell’antipolitica dei giorni nostri, alimentata dal sistema dei partiti (fallimentare) e dalla partitocrazia della “Repubblica dei partiti” (antistato). C’è confusione. E questa tesi non regge. Non solo di fronte ad una elementare analisi sociale. Ma anche rispetto alla definizione essenziale della democrazia politica, alla ricerca del Demos perduto e non del Kratos sempre presente.
Dispiace che a Cominelli non saltino in testa i veri motivi della crisi (fallimentare) del partito politico e dell’antipolitica. Che non sono soltanto nella mancanza di concrete risposte e nella crisi della classe dirigente selezionata oggi con la tombola delle primarie. Né dipendono dall’esaurirsi dell’organizzazione territoriale che, grazie alla tele politica, mette ormai in contatto diretto il leader col “pubblico” senza partito di mezzo. Ma si tratta più verosimilmente di un’esplosiva e ancora poco valutata “Nuova” questione sociale, che richiede aperture mentali e soluzioni politiche inedite, capaci di andare oltre i vincoli europei: ceti medi in discesa libera; povertà vecchie e nuove; disoccupazione; giovani; licenziamenti; automazione; paure della guerra in atto “… non di religioni”; xenofobia in crescita e timori irrazionali dell’immigrazione; disorientamento per la globalizzazione incipiente; rabbia dei due terzi di società contro quel terzo che sta bene; sdegno e collera contro la casta. E mi fermo qui. La colpa di tutto questo? E’ dei partiti che vogliono dire la loro, fa capire Cominelli. E dispiace che ignori completamente quel potere invisibile del capitalismo finanziario che, come abbiamo sperimentato, è ormai in grado di modificare le sorti di un paese. E che, purtroppo, neanche un governo forte e stabile, con tutta la “giungla dei poteri diffusi” a cui guarda Cominelli, riesce a controllare.
Vorrei prima di chiudere ricordare sommessamente a Cominelli che nella cultura fondante dell’Ulivo si può facilmente trovare anche un pezzo importante di cultura cattolico democratica. Quella solidaristica dell’intreccio tra libertà e giustizia che parte dal basso, dalla persona in relazione e arriva alla società e allo Stato. E non viceversa. Quella tesa a sconfiggere le diseguaglianze attraverso processi sussidiari a tutela dell’autonomia dei corpi intermedi. Quella della democrazia dei cittadini che tanto piaceva a Pietro Scoppola, quando nella sua “Repubblica dei partiti”, criticando l’invadenza dei partiti sullo Stato e sul Governo (ma non sul Parlamento), non riduce per niente l’importanza dell’associazionismo partitico, che ritiene anzi centrale della democrazia rappresentativa o della democrazia tout court. Questa lezione di Scoppola, fatta propria dall’Ulivo e condivisa da pezzi importanti del Pci, Pds, Ds, va anche oltre. Poiché, all’insegna della cultura della mediazione, Scoppola nei suoi svariati incontri di territorio distingueva il cattolicesimo democratico dal cattocomunismo, lo Stato dallo statalismo, il governo dalla governabilità, la decisione dal decisionismo. Proprio per questo invocava una riforma dei partiti chiedendo, in totale sintonia con i Ds, che fossero dalla parte dei cittadini e radicati nella base del partito. In quella base che il “conservatore” Fabrizio Barca appena un paio di anni fa ha tentato di rianimare.
Domando: ma questa democrazia dei cittadini associati (di stampo liberal-tocquevilliana) non indica per caso il primato della rappresentatività sulla governabilità che intende Franco Monaco? Non spinge per caso a mettere paletti, e a problematizzare l’idea di un governo forte che auspica Cominelli? Tutto ciò fa capire che l’Ulivo non ha mai considerato né le istituzioni, tanto meno i partiti, delle sovrastrutture inutili della democrazia rappresentativa. Scoppola chiedeva certamente una democrazia in grado di governare. Ma individuava nello stesso tempo un percorso di riforme capaci di trasferire la democrazia nella sua naturale base di appoggio formata dell’associazionismo dei partiti in libera competizione tra loro.
E’ in chiusura che Cominelli ci lascia però la ciliegina. Fa infatti capire che le riforme non sono perfette perché “…i partiti hanno voluto lasciare il loro segno particolare”. Io dico meno male che lo hanno lasciato. Se lo hanno lasciato. E mi domando che idea di democrazia abbia in testa Cominelli. Se poi intende dire che, una volta discussi, fatti propri o respinti i “segni” dei partiti, si debba alla fine decidere, mi trova d’accordo. Ma se un partito non vuole lasciare il segno non si capisce per quale motivo campa.
Nino Labate
Ps. Dopo aver scritto questo appunto ho saputo della tragedia del terremoto. Non voglio mescolare il vino con l’acqua, e naturalmente si nota bene in questi casi l’inevitabile presenza dello Stato e del Governo. Come deve essere. Ma io rimango sempre colpito da quella solidarietà che parte dal basso. Dai cittadini e dai volontari, dalle parrocchie e dai movimenti, dall’ associazionismo laico, da singoli e da gruppi. Dagli immigrati. Mi fa capire che le istituzioni contano. Ma che contano di più in certi momenti anche le persone e le comunità di persone.
2 Settembre 2016 at 18:01
“classe dirigente selezionata oggi con la tombola delle primarie”. Vivo a Milano, e da qui ho contribuito, con le primarie, a scegliere a suo tempo Prodi, e, in tempi più recenti, il segretario del Pd, e un sindaco di Milano e poi un altro sindaco di Milano, con elezioni complesse, articolate e occasione di dibattiti approfonditi e maggior chiarezza dei termini del problema per tutti. Per questi motivi, l’affermazione di Labate (in un articolo pieno di affermazioni discutibili) è una solenne sciocchezza, anche perché in radicale contrasto con quella “democrazia dei cittadini” di cui tanto si parla nell’articolo.
2 Settembre 2016 at 19:09
Barbara Spinelli ha scritto,commentando il naufragio della Costa Concordia, che la sapienza del comando è “arte ruvida in democrazia, sempre guardata con un po’ di diffidenza, quasi fosse arte legale ma non del tutto legittima” e aggiunge”nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità ma la responsabilità è obbligo di ciascuno … il comando ha un ingrediente in più, un occhio in più: è indispensabile … e ha un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas)” (“La Repubblica”, 25 gennaio 2012). Mi ha aiutato a capire il senso della gravitas, quello che mons. Antonio Bello disse della figura del pastore, titolo che già nell’antico oriente veniva dato ai re (i poimenes laon dell’Iliade), inteso non solo come guida ma come compagno di viaggio “che condivide l’esperienza di fatica, di pericolo, di veglia e di sonno, col suo gregge” (discorso tenuto agli operatori della politica, Terlizzi, 18 dicembre 1987): è “l’odore delle pecore”di Papa Francesco, pensiero meno arcadico di quanto si pensi: il capo è quello che apre per primo la bottega. Il comando, per la sua indispensabilità, come tutte le cose di questa terra va coltivato non esorcizzato. La riforma su cui dobbiamo votare viene criticata per l’autoritarismo che la segna; essa tuttavia non ci conduce in modo deciso sulla strada del comando, nelle forme dei modelli europei: inglese, tedesco o francese. Questa prudenza (derivante dalla sindrome del tiranno) , che va rispettata per il retaggio che la segna, spiega bene, a mio avviso, il motivo per il quale i contrappesi non appaiano rafforzati ad alcuni : più semplicemente il potere conferito al “ peso” rimane risultato di un’opera incompiuta. I forti contrappesi devono corrispondere a un peso altrettanto chiaro. Se e quando arriveremo a decidere sull’indirizzo da prendere, allora dovremo e potremo munirci dei contrappesi giusti: non ci sono scorciatoie.
4 Settembre 2016 at 11:58
Caro Maggi. Vorrei da subito informarla che non sono pregiudizialmente contro le primarie. Muovendomi dal contesto sociale e storico, ho sempre valutato le premesse, le attese e gli effetti delle primarie. Ma non le primarie. E ho sin dagli inizi scommesso sull’Art.49 della nostra Costituzione che una volta applicato estensivamente era a mio avviso in grado di sostituire le primarie.
Detto ciò lei ha perfettamente ragione:le mie sono “sciocchezze”. Sciocchezze sorrette tuttavia dalle tante opinioni contrarie al senso comune e alla retorica populistica che oggi l’accompagna. Quelle “sciocchezze” che per bricioli di realismo non credono però all’utopia della democrazia diretta e alle prese in giro che nasconde in una società complessa come le nostra. Che avvertono l’emergere della “monarchia centralizzata” , mascherata dalle estreme libertà democratiche ateniesi; che si accorgono della crisi irreversibile del partito politico ormai corpo intermedio inutile; che sono scettiche sulle quelle primarie incapaci di difendere il cittadino dalla eterna e ineliminabile democrazia delle èlite e delle lobby, spezzando nello stesso tempo le catene delle oligarchie. Ecc. Che poi in questa allegro scenario – critico – si abbia la possibilità di individuare, votare ed eleggere, un candidato rispettabile , come è successo nella sua Milano, non dovrebbe sorprendere. Una cosa salta però agli occhi. Mentre le primarie deresponsabilizzano la classe dirigente di un partito passando formalmente la palla della selezione alla retorica dei cittadini protagonisti, succede che nello stesso tempo il partito si svuota e si indebolisce al suo interno e viene trascinato nel vicolo cieco del partito del leader aiutato come mai era successo prima dalla tele politica e dal web: calo di iscrizioni; scomparsa di sezioni e circoli;chiusura delle scuole di formazione; crisi della stampa di partito; utilizzo ad libitum dei social e dei telegrammi twitter; diserzione dal voto politico con una democrazia del 50% degli aventi diritto; attivismo nei mondi vitali ridotto al lumicino; esplosione dell’antipartitismo e dell’antipolitica. E mi fermo qui senza addentrarmi nella drammatica Nuova questione sociale che sembra non interessi nessuno. Tutta colpa delle primarie ? Certamente no . Ma una volta supposto che le primarie consentano maggior democrazia interna a un partito, e che ottimizzano la democrazia dei cittadini, il paradosso che viviamo è che quando oggi andiamo a votare , non votiamo più a favore o contro,i valori, le idee , il programma, la storia, l’identità, le competenze e i profili etici del personale politico di un partito, quest’ultimo sempre sconosciuto, ma a favore o contro il leader del partito, o a favore o contro il candidato a una carica monocratica del partito.
Il partito non c’è più ! C’è solo il leader ,e c’è solo candidato. Infine, caro Maggi, non è la prima volta che mi accorgo che lei a Milano e nella sua sezione Pd, viva nel migliore dei mondi possibili. Anche se un tantino fuori dalla realtà. Beato lei.
Per quanto riguarda l’ottimo commento di Del Vecchio , che è intervenuto volando alto e di questo lo ringrazio, condivido il suo realismo sull’indispensabilità del comando. Specie quando è un comando responsabile . Un comando che in democrazia deve però essere controllabile e sostituibile. Per questo ho sempre preso le distanze dal “sovrano… che decide” della Teologia Politica e del decisionismo di Carl Schmitt . Perché si sa dove si inizia ma non dove si finisce. Ecco perché forti contrappesi al “…peso” sono sempre necessari. Anzi direi, in democrazia indispensabili
Accettate un saluto.
13 Settembre 2016 at 18:41
Gentile Labate, le sue risposte a Cominelli e poi a me suscitano diversi problemi. Cerco di affrontarne alcuni. Forse questo potrà essere utile anche in rapporto alla discussione sulla riforma costituzionale di cui si parla sul sito a partire dalla “lettera ai cattolici democratici” di Sandro Antoniazzi.
1. Ho risposto bruscamente alla sua espressione “tombola delle primarie”, lo ammetto. Certo, ci possono essere primarie meglio e peggio organizzate, e in contesti più o meno maturi. Però se si parla di “tombola” in riferimento a una consultazione aperta ai cittadini si mettono in gioco non solo le primarie, ma il metodo di TUTTE le elezioni. Le uniche elezioni che non siano una tombola (con buona pace dei sondaggisti) sono quelle decise da qualche autocrate. “Le primarie deresponsabilizzano la classe dirigente di un partito”? A me pare vero esattamente il contrario: perché il consenso bisogna saperselo costruire, meglio se con la credibilità del proprio comportamento.
2. “Mi accorgo che lei a Milano e nella sua sezione Pd, viv(e) nel migliore dei mondi possibili. Anche se un tantino fuori dalla realtà.” Ma lei come fa a sapere chi di noi due è fuori dalla realtà? Quanto a Milano, le lodi quasi imbarazzanti di qualche ospite da altre città alla recente festa dell’Unità di Milano mi fanno pensare che forse lei abbia ragione… Il Foglio dell’8 settembre sembra d’accordo con lei: “Grillo e Salvini non esistono, la destra è Parisi e la sinistra Pisapia. Sicuri che Milano sia in Italia?” Ma io spero che quello che Sala definisce orgogliosamente il “modello Milano” possa essere utile a tutto il paese.
3. “Il primato della rappresentatività sulla governabilità che intende Franco Monaco”. Sarebbe interessante sapere da Monaco o da lei come di fatto si potrebbe governare un paese senza un ballottaggio, in presenza di tre forze del 30% ciascuna. A parte questa considerazione, contrapporre radicalmente rappresentatività e governabilità è sbagliato, e mi domando quale immagine della politica rifletta: come se chi governa lo facesse solo per conto e a vantaggio della propria parte e non per tutta la nazione – come DEVE essere.
Ma il punto è che i confini tra “rappresentatività” e “governabilità” sono labili.
Butto lì due spunti, emersi in due dibattiti alla Festa dell’Unità. In politica estera: in pochi anni la Merkel si è trovata di fronte QUATTRO diversi presidenti del Consiglio italiani: si ha un’idea di quanto questo indebolisca l’Italia nei rapporti tra stati? E che fine fa la “rappresentanza” degli interessi italiani in mano a un governo instabile (il cui contrario non è affatto un “governo forte”, mai auspicato da Cominelli)? In politica fiscale: se un governo promette una riduzione fiscale di qui a un anno, poi deve mantenerla. Ma se dopo un anno c’è un altro governo, dove va a finire la “rappresentanza” dei (legittimi) interessi che alcuni cittadini hanno affidato ad esso? La affidabilità di un governo e il rapporto fiduciario con i cittadini NON sono una variabile indipendente rispetto alla sua durata.
4. Quanto al capoverso delle “sciocchezze” (e a parecchie delle cose scritte nella risposta a Cominelli) confesso il mio sconcerto di fronte a una narrazione il cui obiettivo polemico sembra essere la gestione del PD (da parte di qualcuno che sembra non frequentarlo affatto), ma che mischia elementi disparatissimi, spesso del tutto infondati o riferibili a problematiche generali della società, non del partito.
Lei parla di “utopia della democrazia diretta”, ma forse ci confonde con i 5 stelle; parla di “monarchia centralizzata” e afferma “Il partito non c’è più ! C’è solo il leader”, ma non vede la presenza di un’opposizione nel pd, non sa del dibattito presente e continuo nei circoli. Se il leader attuale ha un forte consenso (nel partito; nel paese, lo vedremo) non è perché è bello (?) e simpatico (??), ma perché le sue idee, i valori di cui parla convincono molti. Questo le sembra antidemocratico? Lei parla di “chiusura delle scuole di formazione” ma ignora che da mesi ne hanno aperta una (https://www.partitodemocratico.it/formazione/al-via-la-scuola-di-formazione-politica-del-pd/), a parte tutto il lavoro formativo svolto nei circoli e nelle feste dell’Unità, ad esempio. Lei parla di “democrazia del 50% degli aventi diritto” senza valutare quanto avviene in tutte le democrazie avanzate, parla di “crisi della stampa di partito” come se non esistesse una crisi della stampa tout court. Eccetera eccetera.
Mi domando quanto di tutto questo dipenda da una realtà concreta che io non conosco (tra l’altro, non so dove Labate viva, dato che il sito non fornisce informazioni e sul web sono presenti parecchi omonimi) e quanto da un “paesaggio dell’anima” piuttosto pessimistico, contro il quale però – mi permetterei di aggiungere sommessamente – saremmo chiamati a lottare sia come cittadini che come credenti.